Abbiamo tutti negli occhi le immagini delle manifestazioni oceaniche ad Hong Kong, proteste iniziate ad Aprile ma esplose ad inizio Giugno e da allora non più cessate. La causa scatenante è stata la diffusa opposizione ad un emendamento alla legge sull’estradizione presentato dal Governo di Hong Kong. Ad oggi l’estradizione è regolata mediante accordi bilaterali con altri Paesi, tra i quali non vi è la Cina continentale. L’emendamento avrebbe reso possibile l’estradizione in Cina seppure soltanto per alcuni reati gravi, puniti con una pena di almeno sette anni (quali l’omicidio), e non per reati “politici”. In questo spazio si vuole porre l’attenzione sulle questioni riguardanti alcuni aspetti giuridici lasciando ad altri ben più preparati le considerazioni politiche, storiche, strategiche e sociali.

La proposta è stata però vista come un primo cedimento nei confronti della Cina dalle conseguenze ben più significative. La limitazione dell’estradizione ai reati più gravi non è bastata a tranquillizzare i cittadini di Hong Kong ben consci che, una volta superata questa linea rossa, in futuro potrebbe essere facilmente esteso il catalogo di reati per cui è possibile concedere l’estradizione e che, intanto, potrebbero essere strumentalizzate accuse per reati più gravi per poter estradare dissidenti politici. Ciò che più preoccupa è finire nella mani del sistema giudiziario cinese. Mentre ad Hong Kong il sistema giudiziario è indipendente, basato sulla common law anglosassone e non è prevista la pena di morte, in Cina è ancora in vigore la pena di morte, vengono denunciate violazioni dei diritti umani e del diritto di difesa ed il sistema penale è spesso utilizzato per fini politici.

Inoltre, come sottolineato da Giulia Pompili, giornalista esperta di Asia, con la nuova legge anche i cittadini stranieri che si trovano a Hong Kong avrebbero rischiato di essere estradati in Cina (https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-fiume-umano-di-hong-kong-contro-lingerenza-di-pechino-23282). I manifestanti hanno raggiunto un primo obiettivo: l’emendamento sull’estradizione è stato sospeso dal Governo di Hong Kong in giungo ed è stato ritirato in settembre. Le proteste non si sono però fermate e proseguono ancora oggi; i manifestanti chiedono riforme democratiche, maggiore autonomia, le dimissioni della governatrice, la fine della repressione. La risposta delle autorità è stata infatti dura e violenta fino a giungere, il 1 ottobre, al grave ferimento di un manifestante, colpito al petto da un colpo d’arma da fuoco esploso da distanza ravvicinata da un poliziotto, immagini che hanno fatto il giro del mondo. Il Governo di Hong Kong, il 5 ottobre, ha anche disposto il divieto di coprire il volto durante le manifestazioni, utilizzando una legge dell’epoca coloniale inglese che non veniva utilizzata dal 1967.

I manifestanti coprono il volto per proteggersi dai gas urticanti e dai lacrimogeni e per non essere identificati dalle autorità temendo gravi ripercussioni. Il diritto ad un giusto processo, il diritto ad un giudice terzo ed imparziale, il diritto di difesa, non sono capricci da azzeccagarbugli, sono le garanzie fondamentali del cittadino per difendersi dagli abusi del potere. La difesa delle libertà dell’individuo passa da un sistema giudiziario liberale ed indipendente. Idee ben chiare ai cittadini di Hong Kong che sono scesi in piazza pur di scongiurare il pericolo di essere estradati e processati in Cina. Così come la repressione del libero dissenso passa spesso dall’adozione di leggi speciali che reprimono le manifestazioni pubbliche, motivate da supposte emergenze e minacce alla sicurezza. Non vi è alcun riferimento alle vicende italiane, la gravità dei fatti di Hong Kong non si presta a strumentalizzazioni. Si può solo ammirare l’anelito di libertà ed indipendenza che pervade i cittadini di Hong Kong che meritano il sostegno di chi crede ancora in questi valori fondamentali.