Quasi un terzo della popolazione che affolla i nostri istituti penitenziari è rappresentato da soggetti in attesa di giudizio, ancora innocenti fino a prova contraria. 
Quasi 20.000 persone sono sottoposte a custodia cautelare. 
Un’analisi sugli usi e gli abusi della detenzione cautelare nel nostro paese.

 

“La libertà personale è inviolabile”. Recita così l’art. 13 della Costituzione italiana. Articolo che concorre a fondare il cosiddetto principio di extrema ratio, in forza del quale il ricorso al diritto penale e, in particolare, a misure restrittive della libertà personale deve avvenire solo ove strettamente necessario.

Tuttavia, purtroppo, è sufficiente controllare i dati sui detenuti forniti dal Ministero della Giustizia per notare come la realtà italiana si muova in direzione
totalmente opposta a quanto affermato da questo principio: sui quasi 60.000 detenuti totali presenti nelle carceri italiane – dati del Dipartimento dell’;amministrazione penitenziaria aggiornati a ottobre 2018 – quasi 20.000 sono sottoposti a custodia cautelare preventiva.
Quasi un terzo della popolazione che affolla le nostre strutture carcerarie, dunque, è rappresentato da soggetti in attesa di giudizio, ancora innocenti fino a prova contraria. La lettura di questi numeri – già di per sé rilevante in quanto ci indica un utilizzo molto ampio di questa misura – acquista ancora più valore se rapportata alle statistiche relative alle assoluzioni successive alla detenzione cautelare: in una ricerca del 2015 finanziata dall’Unione Europea, l’Associazione Antigone ha rilevato che su un campione di 43 casi in cui l’imputato si trovava in carcerazione preventiva, quasi un quinto dei relativi processi è finito con l’assoluzione. Percentuale, questa, che dimostra come, nella gran parte dei casi, la detenzione cautelare si trasforma in una pena anticipata e, più che svolgere il suo ruolo diprevenzione, svolge un ruolo simbolico e punitivo, spesso in contrasto con l’art. 27.3 della

Costituzione, dando luogo ad un evidente abuso da parte dello Stato. Sì, perché, mentre un uso ponderato di questa misura è quanto mai necessario quando vi sia
un effettivo pericolo di inquinamento delle indagini, di fuga dell’imputato o di reiterazione del reato, ciò che non si può tollerare in un Paese il cui ordinamento si basa sul principio di presunzione di innocenza, è l’utilizzo della custodia cautelare come metodo d’indagine, che da luogo ad un trattamento che sfocia, evidentemente, nella presunzione di colpevolezza. Non bisogna infatti, dimenticare, utilizzando le parole della Corte Costituzionale (Corte cost., sentenza 7 luglio 2010, n. 30), che “affinché le restrizioni della libertà personale dell’indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena,irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità”.

Come risolvere, dunque, questa situazione di abuso della detenzione cautelare in modo da bilanciare le garanzie dell’imputato con quelle di pubblica sicurezza?
Innanzitutto riportando la custodia cautelare al suo naturale ruolo residuale, ricorrendo maggiormente alla figura degli arresti domiciliari, che nella maggior parte dei casi possono soddisfare i requisiti richiesti dalla legge e che hanno, comunque, un impatto meno afflittivo per l’individuo. Poi, in aggiunta all’arresto domiciliare, per il pericolo di fuga nello specifico, andrebbe incentivato l’utilizzo del braccialetto elettronico, che ben potrebbe scongiurare la fuga del soggetto senza dover ricorrere al carcere, così da rassicurare la comunità.

Sconcertante, però, oltre all’attuale situazione, è anche l’inefficacia degli interventi del legislatore al riguardo. Una riforma che avrebbe dovuto avere un certo impatto sembrava poter essere quella concernente l’ordinamento penitenziario contenuta nella legge n.47/2015, promossa a suo tempo dal Governo Letta a seguito della nota sentenza Torreggiani con cui nel 2013 la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri, e approvata, dopo un lungo iter parlamentare, dal Governo Renzi. Tra gli obiettivi di detta riforma vi era anche quello di ridurre il più possibile il ricorso alla detenzione cautelare, vincolando, in particolare, il giudice ad una valutazione più attenta circa l’effettiva pericolosità del soggetto. Ed il legislatore, per rimarcarlo, aveva addirittura richiamato lo stesso principi di extrema ratio all’interno dell’art. 275.3 del codice di procedura penale. Nonostante i primi effetti positivi, però, la situazione è tornata a peggiorare, raggiungendo i numeri sopracitati.
Questi sono i sintomi di un problema sistematico, che non si limita al dettato legislativo (che era in quel caso anche piuttosto rigoroso), ma riguarda, probabilmente, la sensibilità della magistratura e l’orientamento culturale dei giudici, propensi ad utilizzare la detenzione cautelare non nel suo ruolo di misura sussidiaria, ma come prima scelta.

Un’inversione di rotta, infine, sembrava poter arrivare dalla riforma dell’ordinamento penitenziario portata avanti dall’ormai ex Ministro della Giustizia Orlando durante il Governo Gentiloni. Per questioni politiche, peraltro malcelate da problematiche relative ai tempi di fine legislatura, la riforma non è riuscita a vedere la luce. Né ci riuscirà con l’attuale governo, il esalta e promuove un sistema “carcero-centrico”, dove il problema del sovraffollamento carcerario, a detta del Ministro Bonafede, si risolve con la realizzazione di nuovi istituti penitenziari. Una soluzione che stona con l’appellativo di “governo del cambiamento”, visto che già i governi passati hanno fatto ricorso alla costruzione di nuove carceri – in particolare negli anni ’80, nel 2008 e, da ultimo, nel 2010 – e in tutte queste occasioni, come si ricava dai dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a seguito di ciascun progetto di costruzione, l’apertura di nuovi istituti ha avuto come diretta conseguenza un aumento dei
soggetti reclusi, con le nuovi costruzioni che in breve tempo finivano per diventare a loro volta sovraffollate.

In attesa, quindi, che nuove strutture carcerarie vengano realizzate, forse, nel frattempo, sarebbe opportuno occuparsi di tutti coloro che sono in attesa di giudizio e che, in spregio della loro presunta innocenza, vengono costretti a trascorrere un periodo di tempo spropositato, vista anche la lentezza e la farraginosità della macchina giudiziaria, in carceri sovraffollate, dove il contatto con criminali di professione è alla portata di mano e dove il rischio di “criminalizzarsi” è altissimo.
Purtroppo, se l’attuale esecutivo giallo-verde continuerà per la sua strada, tra sospensione della prescrizione, criminalizzazione della migrazione e una progressiva cancellazione dello stato di diritto, riesce difficile pensare che nell’attuale legislatura qualcuno voglia farsi carico di questa grave situazione.