In Italia vi è un’enorme distanza tra previsione normativa e applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.Allo stato delle cose coerenza imporrebbe allora la scelta netta tra il superamento del principio dell’obbligatorietà, magari in combinato con la separazione delle carriere o un’incisiva riforma che renda effettivo ed attuabile il dettato costituzionale.
Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è sancito dall’art. 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. L’avvio dell’azione penale, pertanto, non è soggetto alla scelta discrezionale del pubblico ministero. Questi, in base all’art. 335 c.p.p., iscrive immediatamente, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito.Le finalità di tale principio sono garantire l’indipendenza del pubblico ministero da qualunque altro potere e garantire l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, come ribadito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 88 del 1991. La prassi applicativa ha però dimostrato uno iato tra la previsione di principio e la sua reale attuazione. Il carico di lavoro eccessivo delle Procure e la scarsità delle risorse hanno reso nei fatti impossibile la piena operatività dell’obbligatorietà dell’azione penale, costringendo la pubblica accusa a dover selezionare i procedimenti ai quali dare priorità. Con la conseguenza che i procedimenti accantonati giungono spesso alla prescrizione già durante la fase delle indagini (l’analisi dei dati forniti dal Ministero della Giustizia conferma come la maggior parte delle prescrizioni, circa il 60%, matura durante la fase delle indagini preliminari). I criteri di priorità non sono però tassativi e legalizzati, contraddicendo il principio dell’ obbligatorietà dell’azione penale, e sono lasciati all’arbitrio del singolo p.m. o della singola Procura.
Negli anni, preso atto della gravità e della persistenza del problema, alcune Procure hanno emanato delle circolari per stabilire e fissare i criteri di priorità da seguire. Alla disomogeneità territoriale risultante da tale rimedio si è tentato di rispondere con l’intervento in materia del C.S.M., mediante una circolare sulle priorità investigative, soluzione però discutibile perché l’organo di autogoverno della Magistratura si è arrogato un potere non assegnatogli, in barba alla divisione dei poteri ed alla gerarchia delle fonti. Si ritiene allora preferibile, come auspicato da tempo da parte della Dottrina, che sia il Parlamento, organo cui competono le scelte di politica criminale, a stabilire criteri di priorità predefiniti, conoscibili e prevedibili ma anche valutabili e modificabili, ad esempio annualmente. Permane però la contraddizione tra la permanenza del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sancito dalla Costituzione, e l’accettazione remissiva di una realtà in cui tale principio viene violato per ragioni pratiche, fino alla cristallizzazione formale di tale anomalia. La situazione attuale risulta ormai assurda ed insostenibile a causa della incertezza e discrezionalità che avvolge la fase iniziale dell’esercizio della potestà penale. Con il rischio concreto di strumentalizzazioni e di disparità di trattamento tra le varie Procure o all’interno della stessa. Disfunzioni che penalizzano il buon funzionamento della Giustizia e mortificano le aspettative ed i diritti delle parti, creando un clima di sfiducia diffusa. L’obbligatorietà dell’azione penale è inoltre diventata l’alibi per le imputazioni avventate contestate da alcune Procure, il presunto “atto dovuto” con cui si giustificano alcune iscrizioni nel registro degli indagati. Prassi stigmatizzata anche da una circolare (la N. 3225/17, datata 2 ottobre 2017) del Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Roma, il Dr. Pignatone.
Tuttavia, l’obbligatorietà dell’azione penale, nella sua accezione originaria e sistematica, si riferisce alle notizie di reato dotate di fondatezza e credibilità, non ai teoremi ed alle supposizioni, privi di riscontro e di rilevanza penale. Coerenza imporrebbe allora la scelta netta tra il superamento del principio dell’obbligatorietà, sull’esempio di altri ordinamenti, in particolare di quelli che adottano sistemi accusatori, magari in combinato con la separazione delle carriere (ipotesi prevista nella proposta di riforma costituzionale presentata dall’Unione delle Camere Penali Italiane e da qualche giorno sottoposta all’esame parlamentare) o un’incisiva riforma che renda effettivo ed attuabile il dettato costituzionale. In tal senso sarebbero auspicabili, oltre all’aumento delle risorse e ad una riorganizzazione efficientistica, necessari ma non sufficienti, un’ampia depenalizzazione, la previsione di nuove finestre di controllo sulle indagini da parte del g.i.p., il ricorso a strumenti di giustizia riparativa e conciliativa già nella fase delle indagini, l’estensione applicativa di istituti quali l’esclusione della punibilità particolare tenuità del fatto.