Edipo e Antigone, Charles François Jalabert, XIX secolo, Marsiglia, Musée des Beaux Arts

 

Quale modo migliore per inaugurare la collaborazione ad un’avventura culturale contemporanea  se non un ‘classico’ ritorno ai classici? Calembour a parte, e stipulando col lettore la solenne promessa (più di metodo che di merito) di evitare con decisione inutili banalizzazioni e ancor più sterili tentativi di ripresa e attualizzazione di remote questioni o ricordi liceali, sono convinto che un solido e serio impegno interpretativo in senso ‘diacronico’ – per ciò che concerne il complicato mondo della giustizia– possa essere di aiuto anche in chiave ‘sincronica’, al fine di schiarire alcune idee sul mondo d’oggi. Cercherò di spiegarmi stando sul concreto; o meglio, stando su un libro. Il volumetto in questione, con  cui inaugurare questo percorso, è “Giustizia e mito”, scritto a quattro mani da Mara Cartabia e Luciano Violante, entrambi insigni costituzionalisti con ruoli apicali, presenti e passati, nelle istituzioni della Repubblica.

Il libro trae origine da due conferenze tenute dagli autori in occasioni diverse.  I due discorsi, raccordati non solo dall’occasione della pubblicazione del volume, uscito nel 2018 per i tipi de Il Mulino, ma, già all’epoca delle prolusioni, profondamente accomunate da linee guida, tematiche e riflessioni affini, costituiscono due capitoli centrali del libro. A corredo, un incipit metodologico e programmatico e, in chiusura, quattro ampie domande – e relative risposte dei due giuristi – che approfondiscono alcuni dei temi trattati nel libro. Nonostante il concreto rischio di uno sbilanciamento (tematico prima che stilistico) che grava su ogni libro con più autori, il volume appare – anche per la sua ultima parte più ‘discorsiva’ – equilibrato e organico. Equilibrato e organico forse proprio perché «racconta essenzialmente le ripercussioni» che una comune lettura del patrimonio mitico classico (e, in particolare del ciclo tebano nella sua versione sofoclea) «ha riverberato nella nostra esperienza di persone a diverso titolo chiamate a svolgere funzioni pubbliche» (pp. 10s.).

La lettura della tragedia è dunque fonte attiva e prolifica di conseguenze e ripercussioni sulla vita quotidiana: nella fattispecie, in questo caso, nella vita professionale dei due autori. Cerchiamo di individuare, per sommi capi, il perché (la riflessione del nostro titolo); e cerchiamo, per sommi capi, di capire se il metodo utilizzato può essere utile per affrontare i classici (un auspicio, per l’appunto).   Di particolare rilievo, per l’economia complessiva del volume, risulta l’introduzione dei due autori: in essa vengono sviscerati alcuni dei temi più significativi che raccordano Edipo Re e Antigone, accomunate da una comune «tessitura politica». Ben individuato, anche e soprattutto per il caso di Edipo, ove rischia di essere meno evidente, è il tema ‘politico’: per sintetizzare, entrambe le tragedie si  verificano in concomitanza (o ‘a causa di’, ma sarebbe lungo e difficile argomentare, e non è il caso di dilungarci qui) di un problema politico, con profonde sfumature e implicazioni giuridiche. Sia a Edipo che allo stesso Creonte – in più occasioni interpretato come un «despota chiuso nella propria visione del potere» (p. 14) – si pone innanzi un problema di ‘governo responsabile’: il che presuppone un rapporto, talvolta profondamente contraddittorio, con il complesso mondo del diritto. Per Edipo si tratterà di un graduale accertamento della verità, condotto con il metodo giudiziario noto, per terminologia e prassi, a tutto il V secolo ateniese (basti pensare all’utilizzo del termine tekmerion, che provvisoriamente possiamo tradurre con ‘prova’, o ‘indizio’, da parte di due campi spesso interconnessi della letteratura storiografica e medico-scientifica: Tucidide, ad esempio, attinge da entrambi i campi in numerose occorrenze); per Creonte, d’altro canto, si tratterà di decidere da che parte stare in occasione di un conflitto fondativo per la polis: quello tra il potere del genos e il potere delle istituzioni e degli equilibri politici.

Dei rapporti tra il mito di Antigone e il mondo della giustizia moderna e contemporanea, Dike divina o nomos degli umani che sia, in molti, e illustrissimi, hanno scritto: basti pensare all’interpretazione che ne diede Hegel – in pagine dell’Estetica che rimangono memorabili per qualsiasi lettore – ma anche, dal punto di vista drammaturgico, alle molteplici re-interpretazioni che si sono susseguite nei teatri di tutta Europa cambiando e modificando, di volta in volta a seconda della temperie storica vissuta, le domande giuridiche e politiche sottese ad un testo così esemplare. Di Edipo ‘giuridico’ molto meno si è detto: proprio a causa della sua atipicità – che M. Cartabia individua nella premessa della sua riflessione – è bene chiarire alcuni punti della riflessione. Alla luce di ciò, concentrerò una brevissima riflessione su Edipo.   Edipo re e la sua continuazione Edipo a Colono pongono il tema dell’«eccedenza intrinseca della esigenza di giustizia» e della «tensione tra imperfezione della legge ed eccessi nella sua applicazione che l’oblio dei suoi limiti intrinseci può provocare» (p.31). Ricostruiamo la storia. Edipo è, infatti, protagonista di una vicenda in cui non c’è colpa deliberata: è un uomo che ha salvato la sua città, un sovrano accorto e intelligente, stimato dai suoi sudditi. Il figlio di Laio è fuggito da una realtà in cui, secondo un’interpretazione dell’oracolo, avrebbe corso un rischio gravissimo (il parricidio e il conseguente incesto): proprio in questa scelta risiede la sua ‘colpa’. La hybris lo acceca, e gli permette di poter invertire un destino segnato dagli dei e l’eccessiva sicurezza nei propri mezzi innesca la tragedia, e la tragedia innesca a sua volta l’indagine, la ricerca di giustizia. Indagini e ‘processo’ verranno esercitati dallo stesso Edipo, che si pone sulle spalle il peso della richiesta di giustizia della sua comunità.

Proprio a questo punto si sviluppa la riflessione più interessante (e contemporanea) dell’intero volume, che non a caso parte dalla contraddizione più imponente nella vicenda edipica. L’Edipo re, secondo M. Cartabia, «ci porta sulla soglia del paradosso con cui ogni giurista è chiamato a misurarsi. Il mondo, l’uomo, la vita sociale chiedono giustizia: una giustizia affidabile, eguale, rigorosa, certa. Eppure, la giustizia amministrata in modo intransigente, senza ma e senza se, innesca un circolo di male, trasmoda in violenza, negando così se stessa» (p. 45). Edipo è nella posizione per cui, pur muovendo da un hamartema («una colpa oggettiva non imputabile a una cattiva scelta», cf. p. 63) e non da un adikema («una violazione deliberata), si trova coinvolto in una vicenda giudiziaria scaturita da sue azioni: vicenda della quale, per responsabilità politiche di ‘guida’ della polis, si trova ad essere anche il magistrato inquirente. Una situazione tale non è più pensabile in un sistema liberale di distinzione tra i poteri democratici e istituzionali; ma la contraddizione rimane, e ci invita a riflettere, sul tema forse più contraddittorio e dilaniante: è possibile una giustizia ‘giusta’?  E in che termini?  La catena di dolori eingiustizie che muove dall’esercizio delle giustizie (e non della giustizia) è una conseguenza dovuta e ineliminabile? La vicenda di Edipo, soprattutto nella sua continuazione nel sobborgo ateniese di Colono, ci invita a riflettere proprio su questo.   Molti altri sarebbero i temi da trattare, a partire dalla riflessione di L. Violante su Antigone (che riprende per larghi tratti elementi già conosciuti dalla letteratura sul tema, ma con spunti innovativi notevoli) e dalle quattro domande finali; ma si è scelto deliberatamente di enucleare ‘la domanda delle. domande’, a partire da un testo classico fino al mondo contemporaneo, così implacabilmente diverso.   Manca l’auspicio: «Non lamentatevi», l’invito è rivolto ai professori liceali e universitari «se ciò che avete trattato come un fossile e ridotto a un fossile non può continuare a ingombrarci la strada. E auguriamoci una generazione di studiosi nuovi, legati al mondo moderno, che sappia far risorgere, ma sul serio e come cosa viva, lo studio e la passione per la conoscenza e la cultura del mondo antico». Firmandosi Roderigo, con queste parole Palmiro Togliatti interveniva su “Rinascita” a proposito del“Tramonto della cultura classica?”. Era il 1962.   Il problema da un lato è sempre quello, d’altro canto cambia ogni giorno. I classici, frattanto, rimangono lì. Sta a noi il dovere di porre loro nuove domande e, con metodo limpido, elaborare nuove risposte. Libri come questo vanno proprio in questa, auspicabile,direzione.