Foto dello spettacolo teatrale di Mauro Avogadro che ha portato in scena la drammaturgia di Paolo Giordano da “Fine pena: ora”, scritto dal giudice Elvio Fassone.

Nel 1985 Elvio Fassone era presidente della Corte d’Assise di Torino. In quell’anno si celebrava un maxiprocesso alla mafia catanese, che portò nel banco degli imputati dell’aula bunker uno dei vertici del “gruppo di fuoco”, Salvatore, allora appena ventenne. Fine pena: ora, pubblicato per Sellerio, svela un carteggio lungo ventisei anni che lega il magistrato al giovane detenuto, condannato all’ergastolo ostativo. Un carteggio acceso dall’impulso dello stesso magistrato nella notte seguente alla pronuncia della sentenza di primo grado. Fassone, squarciando il velo che s’oppone agli occhi del lettore davanti alla figura dell’ergastolano mafioso, con sensibilità e prudenza si carica della responsabilità non soltanto di dargli un volto e un nome ‒ e così inevitabilmente una dignità ‒, ma anche di scavare nelle pieghe drammatiche della sua carcerazione e di cogliere i suoi slanci redentivi, dando respiro ad una storia che s’interrompe in una decisione finale e liberatoria, ma senza pace. Spogliandosi lentamente del suo ruolo di mero applicatore della legge e progressivamente incalzando su ragionamenti de iure condendo, in ogni sussulto narrativo l’autore s’interroga ed interroga il lettore riguardo all’esperienza di Salvatore, alla funzione rieducativa e risocializzante della pena (come sancito nell’art. 27 co. 3 della nostra Carta costituzionale) e la sua compatibilità con la sanzione detentiva, anche per chi ‒ come il protagonista di questo libro ‒ è destinato a non avere una seconda possibilità di libertà.


Salvatore schiuma di rabbia, afferra le sbarre e le scuote, come a battere un tempo diverso da quello del processo che si spande nel bunker di Torino. Le udienze si rincorrono e ogni giorno precipita nella notte, che si prende tutto dei suoi vent’anni spericolati per restituirgli solo la disperazione di un tempo immoto, perché il giudice già s’è fatto negromante e ha letto il suo unico futuro possibile: fine pena, mai. Per i crimini di stampo mafioso, il diritto non conosce pace nella persecuzione, senza una moneta in cambio. Ma Salvatore non parla, non collabora, allora se ne sta sotto la finestra della cella, rannicchiato con tutti i suoi torti e le sue ragioni, a guardare il paese lontano che ripete luci e misteri. E la giovinezza gli sfila via, quando pensa che i giorni rimasti in carcere sono più numerosi delle stelle nel cielo. Ma a chi nasce negli angoli untuosi della periferia catanese, la vita lascia un sentiero lastricato e mille sterrati che sembrano non portare in nessun luogo. “O la tomba o la galera per noi”, si ripete. La sentenza non è stato altro che il riverbero di una condanna pregressa, una sentenza orfana di giudice e d’ appello: la maledizione. Quella di chi vive nella miseria della speranza che esista un altro mondo possibile, la stessa che soverchia le priorità dell’adolescenza e lancia ragazzi nelle gerarchie delle bande, fino alla cima del “gruppo di fuoco” della mafia di provincia. “Noi siamo maledetti. Cosa ci s’aspetta, da chi nasce nel Bronx di Catania?”.

Salvatore lo urla anche alla penna che corre sbilenca su quei fogli agitati poi fermi sulle mani del Presidente della Corte Elvio Fassone; lo stesso che, dopo averlo condannato, ha interrotto la sua solitudine inviandogli Siddharta di Herman Hesse, come a suggerirgli che “mai un uomo o un atto è tutto samsara o tutto nirvana”, e che “questa pietra sarà terra, e di terra diventerà pianta, o bestia o uomo, nel cerchio delle trasformazioni”. Il regalo scuote la certezza di un tempo sempre uguale a se stesso: un gancio d’umanità al quale Salvatore, nel baratro della sua guerra al mondo intero, s’aggrappa con centinaia di epistole, dando vita al carteggio che Fassone racconta nel suo libro, per mostrare ciò che gli atti processuali non possono raccontare, l’uomo al di là delle grate. “Lei per me è stato molto più importante di quello che lei stesso pensa, e forse non lo saprà mai[…] Se un giorno avrò dei figli, gli racconterò il rapporto bellissimo che è nato fra me e lei, però so che non mi crederanno”. Salvatore scava nell’inchiostro della penna del magistrato e trova per la prima volta della sua breve vita l’ombra della speranza di un cambiamento. Analfabeta, insegue con ferocia bulimica titoli e diplomi, attività e responsabilità: la licenza elementare, la terza media, il corso di grafica e cartellonistica, le mansioni da giardiniere, il teatro e la direzione della cucina della mensa. Ma negli intervalli dei suoi successi, s’insinuano pianti e trasferimenti, i desideri e le loro interruzioni, la caduta del regime di massima sicurezza e la parziale libertà, il cattivo rapporto con gli altri detenuti e lo scoramento, le poesie d’amore e le parole di Rosi, che non ha più quindici anni ma più di trenta quando davanti al portone del penitenziario dice che l’amore della sua giovinezza è ormai appassito, appesantito e schiacciato da quelle già poche ore di colloqui che sembravano sempre meno, celebrate da una guardia come fosse un sacerdote. “Presidente, la mia vita è dolore, il dolore dato e quello avuto”. Ed è inevitabile: Salvatore, dopo vent’anni di detenzione, non si sente più lo stesso di prima, ma questo è inconciliabile con le ristrettezze alle quali è destinato a vivere per il resto dei suoi giorni.

Quando il magistrato racconta i mille ostacoli che il riscatto di Salvatore incontra nei suoi trent’anni complessivi di reclusione, la lettura si fa trafelata. Dietro lo spigolo di ogni parola, c’è la sensazione che tutto ciò che è stato conquistato precipiterà a breve e di nuovo, come poche pagine prima, perché tutto è irriducibilmente travolto da un’equità testarda e puntuale. E nelle lettere che insistono a legare queste due persone così diverse, Salvatore ripete il motivo per il quale i due dolori, quello inflitto e quello inferto, tardino a pareggiarsi: “Lei è di un altro pianeta, Presidente. Ma lasci stare, io sono maledetto, c’ho il marchio”. Un timbro che non conosce né sanatoria né stanchezza, un concetto ereditato dalla civiltà greca che non appartiene soltanto all’immaginario comune, ma che conosce una sua applicazione anche nella legge, la stessa che avvince Salvatore: la sua condanna non solo soffoca e attarda l’accesso a quei benefici utili ad accompagnare il detenuto nel suo ritorno alla vita comune (il cd. regime progressivo, che gradualmente attenua la prigionia totale al fine di una graduale risocializzazione), ma estingue anche la seconda possibilità di libertà: deve morire in carcere. Nell’ergastolo ostativo, la rieducazione non è possibile, non esiste salvezza; rimangono soltanto la sacralità della vita e le ragioni preventive ‒ a tutela della collettività ‒ a giustificare un’esistenza mai completamente libera. Qui, la giustizia umana degenera in quella divina, vestendosi di fatalità, di un marchio indelebile: il condannato non è soltanto punito, ma dannato alla punizione. Lo Stato segna una linea divisoria tra noi e gli altri, dove l’inferno sono gli altri, i dannati che non possono più tornare tra noi, non completamente. Non più un patrimonio umano da rieducare ai principi utili al reinserimento nella società. Cesare Beccaria, nell’opera Dei delitti e delle pene, parla di una necessaria proporzionalità della pena, affinché nel segmento di “sproporzione” non si verifichi un arbitrio dello Stato, in cui il condannato ineluttabilmente percepirà l’ingiustizia della sua punizione, vanificando così ogni sforzo rieducativo. Un pensiero che riecheggia nelle parole dell’autore: “C’è una stagione, ignota agli altri ma vera, nella quale il detenuto ha maturato la convinzione di avere pagato il giusto. Se siamo capaci di cogliere quel tempo, è salvo lui con tutto il percorso fatto, e siamo salvi noi. Se siamo sordi, è salvo solo lui”. La storia di Salvatore è quella di una storia sbagliata, dove nessuno era salvo già prima che decidesse di scavalcare le grate della sua cella con uno sgabello e una corda. Ancora oggi l’ergastolo ostativo, nonostante la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, resiste, insieme a quella linea immaginaria. A noi, l’eredità di scegliere di scavalcarla. “Perdonate i miei drammi ‒ perdonate i miei poveri epigrammi ‒ se sapeste che pena è riconoscer d’essere qualche volta uno di voi. Ma qualche volta lo sapete, e siete allora uno di me. Salvatore.”