In carcere il corpo si trova in posizione di strumento o di intermediario; il corpo, in questo caso, è irretito in un sistema di costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti. L’ingresso in carcere implica una involuzione di tutta la sensorialità.

 

Il primo ad essere intaccato è il senso dell’equilibrio: molti detenuti subito dopo la reclusione soffrono di vertigini, un sintomo dovuto alla perdita di stabilità e di riferimenti nello spazio e nel tempo. Tutti i riferimenti abituali scompaiono brutalmente. Ciascuno di noi, secondo Gonin, può occupare il suo posto nel mondo solo appoggiandosi agli oggetti investiti di sé, dei quali conosce i nomi familiari, ma entrare in prigione significa innanzitutto penetrare nell’innominabile. «Deportato in un mondo in cui più nulla lo rassicura, egli si perde nel proprio smarrimento. Annega in uno stato di confusione, che gli psichiatri del XIX secolo paragonavano al brancolare in un banco di spessa foschia. I riferimenti dello spazio e del tempo si dissolvono». (Daniel Gonin, Il corpo incarcerato)Così, l’uomo che entra nella cinta sconosciuta e sbarrata della prigione è colpito immediatamente dalla vertigine; essa è il vuoto avvolgente, il nulla minaccioso, il baratro aspirante della morte. Il sintomo diminuisce con l’abitudine alla vita carceraria, ma colpisce ancora una buona percentuale dei reclusi dopo un anno.Infine, quando questi malesseri si manifestano in forme spettacolari, per poco non arrivano a far cadere per terra coloro il cui equilibrio è più precario. Tuttavia, anche se in forme meno gravi, condizionano ogni detenuto, costituendo una sorta di mordenzatura, sulla quale si fissano progressivamente tutte le modificazioni sensoriali del recluso. I detenuti subiscono anche danni alla vista a causa della cattiva illuminazione e della limitazione dello sguardo dovuta alla presenza di griglie alle finestre. Il detenuto è, dunque, condannato ad avere la vista corta; il suo sguardo si arena su una banalità che non riesce ad attirarla. La vista si allontana dall’orizzonte e declina. Così, la segregazione dello sguardo, ristretto dalla vicinanza delle pareti, obbliga l’occhio a una messa a fuoco continua su brevi distanze, senza permettergli mai di riposarsi sulla linea dell’orizzonte. Ne deriva, che lo sforzo dell’organo della vista viene raddoppiato dalla frustrazione ingenerata dalla difficoltà del vedere. In prigione, riporta Gonin, lo sguardo perde la funzione di sostegno della parola: l’occhio non si articola più alla bocca; non è più al servizio dell’espressività del discorso. Lo sguardo del recluso offre, così, una finestra sulla sua intimità. Il suo sguardo non fissa mai quasi mai il viso dell’interlocutore evitando in tal modo di tradire menzogne e verità. In prigione, inoltre, ogni sguardo un po’; insistente viene considerato una provocazione e giustifica il distoglimento degli occhi. Anche l’udito, insieme all’interpretazione del mondo mediante i suoni, subisce notevoli modificazioni. L’udito diventa sempre più acuto fino a diventare esasperato, poiché deve sopperire alla diminuzione della vista: un udito così raffinato mantiene il detenuto così sempre in una insopportabile condizione di allarme. Un’alta incisività dell’esperienza detentiva rispetto al corpo si riscontra anche per l’apparato digerente. Le cause sono riconducibili principalmente a: alimentazione scorretta sia nei valori nutritivi che nell’assimilazione, il cibo in carcere è mangiato e assimilato male, e a fattori di stress tipici dell’ambiente carcerario. Ne sono un esempio le turbe del transito intestinale di tipo diarroico o costipante. La stitichezza viene spesso menzionata come una reazione spontanea all’obbligo di andare di corpo in presenza degli altri. La defecazione è spesso motivo di attriti tra i detenuti che occupano la stessa cella. 

Le emorroidi sono la conseguenza immediata di queste turbe: fonte di angoscia, a loro volta, producono stati di profonda umiliazione e introducono un gelo mortale nei discorsi. Gonin si concentra poi sulla pelle del detenuto; secondo il medico francese, essa è la superficie su cui si formano le immagini che rilevano lo stato di salute dell’individuo, anche quando quest’ultimo lo ignora. La pelle è, quindi, uno dei punti di manifestazione surrettizia del sintomo. Un caso che, nei risultati dell’analisi del medico francese, si verifica frequentemente in prigione. Il soggetto portatore di tale disagio farebbe volentieri a meno di ciò che si manifesta sulla sua pelle, di questa proiezione che deve accettare supinamente. Egli ha la sensazione sgradevole di non entrarci affatto, di non capirci nulla, e tuttavia di non essere estraneo al fenomeno. Spesso viene sopraffatto da un sentimento di vergogna, poiché la sua pelle rivela agli sguardi estranei quello che prova nell’intimo. Lo stato della pelle è indicativo, insomma, di ciò che il detenuto patisce e credeva vanamente di dominare.

Così il corpo, come un tabellone, conserva le tracce delle precedenti affissioni: cicatrici eruttive, ulcere, disegni tatuati o ciò che ne resta dopo i tentativi di cancellazione. Quella che il detenuto inscrive nella geografia complicata della superficie corporea è un’intera storia, la quale, in alcuni momenti di crisi, ricusa come tale e pretende di distruggere. Un fatto per convincersene è costituito dai fenomeni di autolesionismo. Gonin riporta come numerosi detenuti si autoinfliggano, spesso a colpi di rasoio, svariati tagli al braccio, solitamente il destro. Tali ferite, secondo il medico, non possono essere imputate a un tentativo di flebotomia, bensì a motivazioni più recondite. Una probabile spiegazione è il fatto che: i conflitti, le frustrazioni, le angosce, non potendo più essere sopportate psichicamente, vengono trasformate, digerite, anche se parzialmente, nel momento in cui vengono accolte sul corpo. La superficie del  corpo diventerebbe, quindi, il solo spazio ricettacolo di cui disporrebbe il soggetto per gestire le sue pulsioni. Non a caso, la risposta al perché di questi gesti estremi è «mi ha permesso di sfogarmi». Anche l’apparato respiratorio testimonia le sofferenze che caratterizzano la condizione del ristretto. «L’aria mi manca, i miei polmoni restano schiacciati in fondo al torace… sono loro a subire di più la detenzione» racconta al medico un detenuto. L’aria che manca è il triste simbolo della privazione della libertà. L’apparato respiratorio vive dolorosamente la insufficiente aerazione delle celle dovuta al sovrappopolazione nella maggior parte delle carceri, che costringe i detenuti a vivere in spazi chiusi e angusti La sensorialità più attaccata e più compromessa definitivamente è però quella del tatto. Il senso del tatto viene colpito in modo preminente poiché in prigione, come sostiene Gonin, la superficie del corpo non ha più né tatto né contatto. Le sensazioni che il corpo produce in carcere sono principalmente segnali di allarme. Ben presto viene a mancare la piacevolezza del toccare e l’intera gamma tattile, che si possedeva prima della carcerazione, inizia a perdere sfumature poiché molti oggetti di uso comune all’esterno non sono presenti nella struttura detentiva. La privazione più forte e dolorosa è il tatto del tatto, il rapporto della propria pelle con la pelle di un’altra persona: il contatto fisico. Tutto ciò causa un aumento della tensione nei detenuti all’interno delle strutture: tutta la sfera della sessualità viene negata e la pulsione libidica, perché non esploda, deve essere deviata, incanalata o sublimata. La prigione è assenza del piacere. La soddisfazione delle pulsioni deve essere nascosta o non esistere affatto, così la masturbazione permane uno dei piaceri ancora conseguibili al di là di ogni sorveglianza. Vi si aggiunge, inoltre il piacere della trasgressione, di cui la masturbazione è per i detenuti l’unico richiamo. Ma tale trasgressione non è mai ufficiale e non può realizzarsi che al prezzo del silenzio, come ogni attività sessuale in prigione. Secondo Gonin, tutto va per il meglio in reclusione quando regna da una parte all’altra l’ignoranza delle cose. Solo i medici conoscono direttamente tali pratiche le quali, d’altra parte, nessuno ignora, nel momento in cui si manifestano turbe della sessualità che le evidenziano; oppure quando insorgono malattie genitali. Di fatto, l’herpes genitale, malattia virale della quale si consce la reviviscenza sotto l’effetto di forti emozioni, trova in carcere un terreno quantomai fertile. «Il sesso di un altro detenuto era insanguinato, il glande e soprattutto il prepuzio lacerato, il frenulo in parte strappato. Il recluso spiegava di essersi ferito sul bordo tagliente di una tazza del wc, il cui orlo anteriore era sbrecciato. In seguito a verifica venne autorizzata la richiesta di sostituzione della tazza […] qualche mese dopo, il detenuto ritornò con delle ferite simili alle precedenti. […] Fu un codetenuto a far luce sulla situazione. Egli venne a trovarci, per esprimere l’inquietudine, il disgusto e la paura che gli ispirava il comportamento del suo vicino di letto, che dormiva nella branda sottostante. Risvegliato nel cuore della notte dal rumore di va e vieni del letto, aveva sorpreso il compagno di cella in una strana posizione, coricato sul fianco e schiacciato sul muro. Incuriosito il mattino seguente aveva controllato il posto, scoprendo nell’intonaco del muro un buco insanguinato. Messo al corrente di ciò che avevamo appresso l’interessato non negò nulla; rimase silenzioso e triste». (Daniel Gonin, Il corpo incarcerato) Nel suo libro, il medico francese descrive l’episodio riportato sopra come una pratica che, nella sua ostinazione, assume la forma di una mutilazione volontaria, una sorta di amputazione del piacere, un equivalente senza pari di forme suicide. La soluzione più radicale lasciata in eredità dagli studi di Gonin è quella di permettere ai detenuti la possibilità di avere una vita affettiva. L’attuazione di norme apposite avrebbe esiti positivi sul corpo-mente del detenuto: riduzione del senso di vuoto, di superficialità nei rapporti e del senso di frustrazione. Coltivare una vita affettiva renderebbe più facile, più sopportabile l’uscita, soprattutto dopo una lunga detenzione, permetterebbe la possibilità di una continuità nei rapporti con le persone più significative, alleggerirebbe di molto la coercizione che l’istituzione tradizionalmente “totale” ha sempre esercitato e ne provocherebbe una inevitabile rifunzionalizzazione.