L’ergastolo “non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere” ha detto Papa Francesco all’udienza alla polizia penitenziaria, ai cappellani e ai volontari del carcere. Parole importanti, non scontate e che riportano l’attenzione su un tema tanto complesso quanto dimenticato e non troppo considerato dal dibattito pubblico.
Vi proponiamo, quindi, un viaggio per comprendere perché l’ergastolo ostativo va abolito, attraverso le sentenze, l’asprezza della legge e la storia di Carmelo Musumeci.
L’ergastolo ostativo è quella pena che viene inflitta, ai sensi dell’art. 4 bis o.p., a quanti si macchino di delitti quali omicidi efferati, associazione a delinquere di stampo mafioso, strage o terrorismo. Chi viene condannato all’ergastolo ostativo e non collabori con la giustizia (e, tal proposito, bisogna domandarsi se tale possibilità sia riscontrabile in relazione a tutti i reati puniti con il “carcere a vita”), a differenza di chi viene condannato all’ergastolo “ordinario”, non gode dei benefici del lavoro all’esterno dell’istituto di pena, dei permessi premio, delle misure alternative alla detenzione; soprattutto, non può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena. Insomma, l’ergastolo ostativo è una pena perpetua vera e propria.
Tra quelli che sono stati condannati definitivamente alla pena di cui trattiamo vi è Carmelo Musumeci. Per chi non lo conoscesse, Musumeci è nato in Sicilia in un contesto di assoluta e selvaggia povertà e si è trasferito nel Settentrione con la famiglia poco più che adolescente. Proprio lì è iniziata la sua scalata criminale. A seguito di un “regolamento di conti”, nel 1991, è stato arrestato e condannato all’ergastolo ostativo. Musumeci, come più del settanta percento degli ergastolani, è entrato in carcere con la consapevolezza che non ne sarebbe uscito. Per quelli come lui lo Stato aveva deciso di arrendersi, di abbandonare il fine che la Costituzione gli assegna. Non sarebbe stato rieducato, non sarebbe stato ri-socializzato, e, isolato, avrebbe continuato ad esistere ma avrebbe smesso di vivere, avrebbe continuato ad essere un individuo, ma avrebbe smesso di essere persona. Questa, la prospettiva di partenza di chi viene condannato a una punizione con tali crismi. La vicenda di Musumeci, tuttavia, si è evoluta diversamente perché durante gli anni di sofferta reclusione egli ha abbracciato lo studio (conseguendo ben tre lauree) e, ottenuta la semilibertà- primo caso in Italia per un ergastolano ostativo-, ha prestato il proprio lavoro da volontario presso comunità benefiche. Nonostante l’ostatività, dunque, accertata l’impossibilità di collaborare con la giustizia, nel 2014, il Tribunale di sorveglianza di Venezia gli ha riconosciuto la possibilità di usufruire dei benefici penitenziari e nello scorso anno, infine, è stato scarcerato in regime di libertà condizionale. La storia di Carmelo Musumeci ha un finale lieto ma rappresenta anche, per così dire, un’eccezione che conferma la regola.
Infatti, gli ergastolani che hanno vissuto e vivono la loro pena in un’ottica di rigida perpetuità, nel nostro Paese, sono numerosissimi e tanti rimarranno fino a quando il legislatore non opererà una strutturale riforma della normativa in materia vigente volta alla sostanziale eliminazione dell’ergastolo ostativo dal sistema penale italiano, anche allo scopo di renderla all’altezza degli ordinamenti penali più evoluti in senso moderno e liberale, per garantire il rispetto della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Proprio in relazione alla norma contenuta nell’art. 3 della suddetta Convenzione la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha riscontrato l’incompatibilità dell’istituto dell’ergastolo ostativo. Secondo la sentenza della Grande Camera Vinter c. Regno Unito (Corte Edu, Grande Camera, 9 Luglio 2013) l’art. 3 CEDU – che stabilisce il divieto di pene inumane o degradanti – sarebbe rispettato solo laddove l’ordinamento preveda un meccanismo di revisione della condanna alla pena perpetua, che offra al condannato, concrete possibilità di liberazione, decorso un periodo minimo di detenzione. Precisa la Corte che il condannato “ha il diritto di conoscere il momento in cui il riesame della sua pena avrà luogo o potrà essere richiesto (…) Una persona condannata all’ergastolo senza alcuna prospettiva di liberazione, né possibilità di far riesaminare la sua pena perpetua rischia di non potersi mai riscattare”: una conseguenza gravemente lesiva della dignità umana.
Sempre la stessa Corte, accogliendo il ricorso di Marcello Viola (condannato negli anni Novanta per associazione mafiosa), ha stabilito che l’ergastolo senza prospettiva di rilascio costituisce un trattamento disumano con una pronuncia che contiene l’esplicito invito al legislatore italiano a una revisione di quell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario che subordina alla collaborazione con la giustizia l’eventuale accesso ai benefici penitenziari per talune categorie di detenuti. La sentenza si basa sul principio per cui la dignità umana non è nella libera disponibilità di chi detiene, seppur legittimamente, il potere di punire. Dunque, anche a proposito dell’ergastolo ostativo, ossia dell’ergastolo senza possibilità di ritorno in libertà, la Corte ha ribadito che la dignità umana è un bene che non si perde mai. Un detenuto che dimostri partecipazione all’opera di risocializzazione, anche se non ha potuto o voluto collaborare con la giustizia, deve avere sempre una prospettiva di ritorno alla vita libera, diversamente la pena si trasforma in un trattamento disumano o degradante. Nonostante questa pronuncia dalla portata storica, il legislatore italiano, a differenza di quello del Regno Unito (che a seguito del caso Vinter si è mosso in ossequio alle indicazioni della Corte Edu), è rimasto immobile.
A fronte di un parlamento inerme, comunque, la pronuncia della Corte Costituzionale che trae origine dalla vicenda che ha travolto la vita di Carmelo Musumeci (C. Cost., sent. 21 giugno 2018 n. 149, Pres. Lattanzi, Est. Viganò) rappresenta un vero revirement rispetto alle pronunce antecedenti in materia di ergastolo ostativo: per la prima volta una dichiarazione di illegittimità costituzionale investe frontalmente una forma di ergastolo, sia pure una forma di ergastolo che, rivolgendosi ad una ristretta gamma di destinatari, si colloca, almeno dal punto di vista statistico, ai margini del sistema sanzionatori. Per la Corte costituzionale, dall’art. 27 co. 3 Cost. discende il vincolo per il legislatore ordinario a prevedere istituti che incentivino il condannato a pena detentiva (temporanea o perpetua) a intraprendere un percorso di rieducazione e nel contempo consentano al giudice di verificare i progressi compiuti dal condannato in tale percorso. Un ravvedimento sincero e costruttivo non sarebbe possibile a un detenuto privo di qualsiasi prospettiva di libertà che non avrebbe alcuno stimolo a prestarsi a un percorso la cui destinazione (certa ed eterna) è la desocializzante privazione della libertà personale. I giudici che vorranno seguire le orme dei giudicanti il caso Musumeci, da un lato, potranno giovarsi dei precedenti giurisprudenziali provenienti dalla Consulta e da Strasburgo (che suggeriscono implicitamente anche un’illegittimità costituzionale dell’art. 4bis o.p. per il contrasto con l’art. 117 Cost che obbliga lo Stato al rispetto dei vincoli comunitari e degli obblighi internazionali quali quelli espressi anche dall’art. 3 CEDU) e, dall’altro, dovranno tener conto di una normativa che si pone in palese conflitto con la norma contenuta nel co. 3 dell’art. 27 della Costituzione.
Un intervento sul piano legislativo che, dunque, rappresenti dei passi in avanti nel segno del rispetto dei principi della Costituzione, sarebbe auspicabile anche se, concretamente, non sembra arriverà nell’immediato futuro per diversi ordini di ragioni. In primo luogo perché il nuovo esecutivo (giallo-rosso), quanto meno dal punto di vista del programma di governo, non sembra aver riservato particolare attenzione, in generale, al tema della giustizia penale, in secundis, perché, anche se lo avesse fatto, probabilmente, essendovi nella maggioranza una forza politica che del populismo penale ha fatto fonte di consenso, lo avrebbe inteso nel senso opposto a quello auspicato. In più d’una occasione, infatti, in passato, il Movimento Cinque Stelle, utilizzando molto maldestramente il principio della certezza della pena come fondamento dell’esigenza di pene immodificabili in itinere, si è proposto di realizzare controriforme dell’ordinamento penitenziario che facciano piazza pulita di ogni misura premiale, così da assicurare che “chi deve fare vent’anni di galera ci resti vent’anni” e che chi “deve marcire in galera marcisca in galera dopo aver buttato la chiave”.
Ecco quindi che emerge la rilevanza del monito lanciato dalla Corte Costituzionale: un monito a presidio di un diritto penale che non dimentichi mai i fondamentali principi di civiltà che ne stanno alla base, che non si arrenda con misure come l’ergastolo ostativo rispetto alla sua mission rieducativa, che non acconsenta a quella morte de facto che la perpetua detenzione cellulare rappresenta.