Quella di mercoledì scorso, 25 settembre 2019, è una giornata destinata ad entrare nella storia del nostro paese.
La Corte costituzionale ha infatti scritto il capitolo conclusivo della vicenda giudiziaria che ha coinvolto Marco Cappato, attivista e politico radicale, vicenda iniziata nel febbraio 2017, quando decise di rispondere al grido di aiuto di Fabiano Antoniani e di accompagnarlo in Svizzera per permettergli di porre fine alla sua vita.

Fabiano, anche conosciuto come DJ Fabo, viveva infatti dal 2014 in uno stato di profonda sofferenza fisica e spirituale, da quando, a seguito di un incidente, era rimasto cieco e tetraplegico. Una condizione che lo stesso Fabo descrisse come quella di chi vive immerso in una notte senza fine. Di qui, la sofferta scelta di mettere fine al suo travaglio e abbandonare un corpo divenuto ormai una prigione.
Tale scelta, tuttavia, ha dovuto inevitabilmente scontrarsi con le limitazioni impeditive della legislazione italiana, la quale, almeno fino ad ora, non solo non prevedeva la possibilità di offrire assistenza a chi, dolorosamente ma con piena facoltà di intendere e di volere, sceglieva di portare a termine la propria esistenza, ma anzi criminalizzava siffatte condotte. Ed è qui che si inserisce il ruolo di Cappato che, con un atto di coraggio prima che di disobbedienza, ha deciso di rispondere, per passione civile oltre che per compassione umana, alla richiesta di solidarietà avanzata da DJ Fabo. La decisione di accompagnare Antoniani in Svizzera, con la conseguente esposizione a una responsabilità penale di gravissima entità, è una scelta che ha avuto e avrà un grande peso nella storia delle libertà civili.

Il 27 febbraio 2017 Fabiano, in una clinica svizzera, lontano dal suo Paese, pone fine alla sua vita e alle sue sofferenze. Qualche giorno dopo Cappato si reca dai Carabinieri per autodenunciarsi, dando avvio ad una vicenda processuale che lo vede imputato di fronte alla Corte d’Assise di Milano ai sensi dell’art. 580 del codice penale, che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio.
La fattispecie criminosa tracciata all’interno dell’art. 580 c.p. rientra, senza dubbio, tra quelle che più manifestano la distanza culturale ed assiologica intercorrente tra il codice fascista del 1930 e la Costituzione democratica del ’48. Nella sua ratio originaria, infatti, la norma intendeva tutelare il bene vita non tanto in quanto bene individuale e personalissimo, bensì in quanto bene collettivo – di cui solo lo Stato, e non il singolo, poteva disporre – rivelando una concezione della vita umana perfettamente aderente all’atteggiamento statolatrico proprio di quel periodo storico.

La problematica coniugazione tra la norma in esame e la dimensione valoriale fatta propria dalla nostra Carta costituzionale emerge, peraltro, in maniera preponderante, laddove ci si trovi di fronte a vicende come quella coinvolgente Fabiano Antoniani e Marco Cappato. Vicende in cui il soggetto non si trovi, come nell’ipotesi pensata dal legislatore, in uno stato di vulnerabilità che lo renda vittima indifesa da dover tutelare e proteggere da chi ne voglia favorire o agevolare la morte, ma in cui, al contrario, il soggetto che sceglie di porre fine alla propria vita lo fa per portare a termine le sofferenze di un corpo divenuto ormai null’altro che un sostrato organico inerte, che non permetta più di condurre un’esistenza concordante con il proprio concetto di dignità.
Ed è di questa contraddizione che la stessa Corte costituzionale ha preso atto, dapprima con l’ordinanza n. 207 del 2018 e poi, finalmente, con la sentenza emessa a seguito dell’udienza del 24 settembre. Con tale sentenza, di cui si attendono ora le motivazioni, i giudici di Piazza Quirinale hanno infatti ritenuto “non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.” Attraverso tale decisione la Consulta ha inteso delineare le quattro condizioni, già espresse all’interno dell’ordinanza 207, in presenza delle quali non può configurarsi un’ipotesi di aiuto al suicidio penalmente sanzionabile. Una pronuncia di questo tenore ha finalmente permesso di riconoscere ed evidenziare a tutti, per usare le parole del Prof. Avv. Vittorio Manes, che “la dignità del morire non è diversa né meno importante della dignità del vivere, e che ogni scelta al riguardo deve essere consegnata ai convincimenti e alle scelte dei singoli, all’adesione spontanea dei cuori e al travaglio delle coscienze individuali, e che questa scelta non può essere coartata attraverso la minaccia della sanzione penale.”

Nella stessa sentenza, tra l’altro, è stato il ribadito il monito, rimasto già una volta inascoltato, al Parlamento, sede privilegiata del dibattito democratico e perciò istituzione a cui spetterebbe la decisione in ordine a materie caratterizzate da una così alta sensibilità etico-sociale. Pure a fronte di questa apertura della Corte, occorre tuttavia prendere atto non soltanto del fatto che il Parlamento abbia perdurato nel rimanere inerte, ma che ancora una volta, purtroppo, i progressi normativi in materia di diritti civili vengono promossi da un organo giurisdizionale, anziché da quello legislativo, cui competerebbe l’onere di dare una risposta alle aspettative dei cittadini e di promuovere le libertà fondamentali della persona.

Per concludere, con questa decisione la decisione Consulta, come accaduto altre volte, ha saputo operare, supplendo alle mancanze del legislatore, un bilanciamento tra diritti fondamentali che richiedevano da tempo un riconoscimento. Una decisione che rappresenta, in definitiva, “una testimonianza fulgida, valevole a non dimenticare il coraggio di Fabiano Antoniani e la forza delle persone che fino alla fine lo hanno assistito, a non dimenticare la solidarietà umana di chi ha accolto il suo grido di dolore, e valevole a non dimenticare tutti coloro che avranno il terribile e acerbo destino di finire immersi in una notte senza fine, una notte nella quale non dovranno essere lasciati soli”,
come ha dichiarato Vittorio Manes.