Analisi del sequestro preventivo, misura discussa e controversa,del nostro sistema penale, soprattutto per com’è conformata oggi.
La disciplina è contenuta nel d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159, c.d. Codice AntiMafia: una delle ultime perle, si fa per dire, dei vari Legislatori che si sono susseguiti in
quest’ultimo periodo; e da qui partirei. Tale legge è stata approvata dai 2/3 dei deputati, si tratta pertanto di una decisione consapevole, o per utilizzare l’espressione dell’onorevole Bindi, commentando il risultato, di “un regalo al paese”. A dire il vero non pochi dubbi e timori erano stati prospettati dagli operatori del diritto, tra i quali
numerosi professori universitari che, come rarissimamente accade, ma forse di questi tempi più spesso di una volta, avevano formato quasi un’unica voce per esprimere il
loro dissenso (fatto di non poco conto dal mio punto di vista). Uno dei grossi problemi di questa brillante legge è il ruolo assolutamente relegato in cui viene gettato il processo, quello vero. Già il processo, luogo in cui dovrebbero (il condizionale è una provocazione/constatazione) emergere prepotentemente le garanzie e i diritti dell’imputato, dove trova cittadinanza la regola aurea del dibattimento penale, qual è il contradditorio nella formazione della prova, viene messo da parte. Quello che si celebra è il processo per l’applicazione delle misure di prevenzione, un processo senza garanzie perché fondato su indizi e spesso su meri sospetti.
Occorre a questo punto ripercorrere brevemente quella che è la storia delle misure di prevenzione nel nostro paese: misure finalizzate alla prevenzione della criminalità, o di particolari forme di criminalità, ma che prescindono dalla commissione di reati, si rinvengono già a partire dalla formazione dello Stato unitario. Si tratta di misure
tipicamente di polizia incidenti sui diritti e/o libertà del destinatario: formali diffide o ammonizioni; forme speciali di sorveglianza; divieto di soggiorno in dati luoghi;
obbligo di soggiorno in dati luoghi. Nell’ultimo periodo sono state introdotte anche forme di contenuto patrimoniale come la confisca. Introdotte con leggi eccezionali
nell’ambito della lotta al brigantaggio, a cominciare dalla “legge Pica” del 1863, sono state affidate alla autorità di polizia nell’Italia post-risorgimentale in chiave di
controllo del dissenso politico o di particolare categorie di persone (“gli oziosi e i vagabondi”). Inutile poi dire che ne fu fatto largo uso durante il ventennio fascista per
neutralizzare oppositori politici mandati al confino, spesso in piccole isole. Nonostante la critica radicale che storicamente la dottrina penale liberale muove nei
confronti del sistema delle misure di prevenzione, sia da un punto di vista dell’efficacia, sia da quello della legittimità costituzionale, tale disciplina è stata nel
tempo estesa, in particolare con la legislazione antimafia. Dapprima con legge 31 maggio 1965, n. 575 che ha esteso l’applicabilità agli indiziati di appartenere ad
associazioni mafiose; poi con legge 13 settembre 1982, n. 646 che ha esteso l’applicabilità a tutte le associazioni di tipo mafioso (camorra napoletana, ‘ndrangheta calabrese, e simili) e ha introdotto misure patrimoniali. La disciplina è oggi contenuta nel c.d. codice antimafia d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
L’aspetto più problematico delle misure praeter delictum concerne il fatto che rimangano slegate dall’accertamento di un fatto di reato pertanto si traducono, o
possono tradursi, in pene del sospetto. Totale contrasto con l’art. 24 Costituzione (diritto di difesa) e artt. 111 Costituzione e 6 CEDU (diritto a un giusto processo).
Ma veniamo al sequestro preventivo: “Il tribunale, anche dell’ufficio, con decreto motivato, ordina il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è stata
presentata la proposta risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” cosi la lettera dell’art 20 del codice antimafia; scatta poi la confisca quando il destinatario del provvedimento non sia in grado di giustificarne la legittima provenienza, tutto questo,
ovviamente e rigorosamente, a prescindere da una previa condanna penale(!!!). La confisca è disposta, in forma diretta o per equivalente, nei confronti di soggetti
indiziati di gravi delitti (il problema, questa una mia opinione, è che quello che 15-20 anni fa era corruzione, oggi è assimilato a mafia e terrorismo con tutto ciò che ne
comporta. Penso alla vicenda di Mafia Capitale per citare un caso o a quella dell’onorevole Formigoni) o che si ritiene abbiano genericamente tenuto condotte delittuose, indipendentemente dal fatto che siano o meno pericolosi nel momento di applicazione della misura.
Inutile, qui, dilungarsi sulla distinzione tra “frutto” di attività illecite o suo “reimpiego”, è importante comunque evidenziare l’inversione dell’onere probatorio in capo al
soggetto destinatario attraverso il meccanismo della presunzione iuris tantum, ossia quella presunzione relativa che ammette prova contraria. Problema che tra l’altro, si ripresenta ormai sistematicamente oggigiorno nelle aule di Giustizia penale: sembra quasi che oggi sia divenuto l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza e non invece la pubblica accusa a provare la sua colpevolezza.
In conclusione: quando parliamo di diritto penale dobbiamo metterci d’accordo. L’ idea di diritto penale liberale è quella di una materia costruita non per punire, ma
per limitare le modalità del punire, una materia che garantisca non il diritto del potente di imporre la propria forza su chi è governato, ma come diritto del cittadino
di avere una tutela rispetto a un potere cosi forte, in un contesto democratico. Potere che dovrebbero rappresentare la extrema ratio: questo dovremmo sempre ricordarlo.