Un’analisi ampia e approfondita sul rapporto tra il principio di legalità e il ruolo svolto dall’accusa nel processo e non solo, con particolare riguardo ai limiti imposti all’azione penale e ai pericoli derivanti dalla gogna mediatico-giudiziaria.
“Le forme danno l’idea al popolo di un giudizio non tumultuario o interessato, ma stabile e regolare”. La frase è di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, § XXXVII, 1764) e ben descrive l’idea che la “forma” in rapporto al processo penale costituisca, ieri come oggi, un’imprescindibile garanzia di legalità e di presidio dello stesso da arbitri e soprusi. Ciò in quanto, si afferma, è proprio attraverso la fruizione “estetica” della forma che il popolo acquisisce contezza non soltanto dei propri diritti ma anzitutto della correttezza e della legalità del metodo di accertamento seguito per giungere al giudizio. Tali concetti sono stati approfonditi, in prospettiva profondamente moderna ed attuale, dal Prof. Ennio Amodio, il quale, nel suo libro “Estetica della giustizia penale” (Giuffrè, Milano, 2016), ha affrontato il tema del connubio tra etica ed estetica nell’odierno processo penale, non certo auspicando una “esasperazione” delle forme, quanto piuttosto scorgendo nel recupero di una estetica giudiziaria un mezzo per accrescere la fiducia dei cittadini nella giustizia.
Spiega, infatti, Amodio che il rito giudiziario è imperniato su ordine, equilibrio e trasparenza.“Sono i segni che, in forza dei principi costituzionali e dei valori ormai consolidati nel diritto europeo, il sistema processuale vuole siano ricollegati allo svolgimento del processo penale (..). Il potere di punire non è affrancato da vincoli e si scontra, invece, con barriere che gli impediscono di esprimersi con la sbrigatività e la implacabilità magari reclamate dalla risposta emotiva che emerge dalla comunità offesa dal delitto. La potestà punitiva si incanala nell’alveo delle forme ordinate e composte da cui si percepisce che il processo è ‘giusto’ nel significato pregnante desumibile dalle carte dei diritti fondamentali (..)”.Cosicché, è proprio il rispetto delle formea far sì che il responso decisionale emesso in esito alla attività processuale venga accettato dai consociati come esercizio del potere giudiziario, anche quando lo stesso può apparire nel merito errato o ingiusto.
Che il magistrato, pertanto, nel mostrare il suo modus procedendi per acquisire legittimazione (che non è certo consenso popolare! ndr.) sia tenuto ad improntare il proprio comportamento nei confronti della collettività a criteri di sobrietà ed equilibrio, non è soltanto un assunto che si ricava dal complesso delle regole deontologiche vigenti, ma assurge a presupposto fondamentale affinché l’estetica della giustizia possa atteggiarsi a garanzia primaria dell’imputato e così realizzare la fiducia della comunità nell’esercizio della stessa giurisdizione. Lo “statuto” dell’estetica giudiziaria fa dunque riferimento al complesso delle garanzie che devono caratterizzare l’esteriorità del processo al fine di frenare le spinte arbitrarie e repressive: la visibilità dell’imputato come persona innocente, l’esibizione dell’imparzialità del giudice nel rispetto del principio di uguaglianza, l’esternazione del rispetto del contraddittorio quale antidoto nei confronti delle asimmetrie partecipative.
Si tratta, a ben vedere, di canoni di comportamento che devono riguardare sia il magistrato “giudicante”, rispetto al quale si pone la necessità di scongiurare esternazioni che appaiono in contrasto con la garanzia di imparzialità connessa alle sue funzioni (la stessa raffigurazione della ‘giustizia bendata’ è espressione dell’assunto secondo cui “la giustizia non guarda in faccia nessuno”), sia il magistrato “requirente”,che è solitamente il soggetto più esposto all’attenzione mediatica, in quanto dominus di tutta la fase procedimentale – le indagini preliminari- che, essendo più vicina alla commissione del fatto di reato, suscita il maggiore interesse dell’opinione pubblica. Orbene, proprio il rappresentante della pubblica accusa non soltanto è il destinatario delle richieste di sicurezza avanzate dalla comunità, ma interpreta altresì quello stesso bisogno, operando nella consapevolezza di avere dalla sua parte non solo lo Stato ma anche l’opinione pubblica ed i media che reclamano “giustizia”. Non deve stupire, pertanto, se proprio tali peculiarità – unite al fatto che l’attenzione mediatica sia ormai eccessivamente sbilanciata sulle fasi iniziali del procedimento penale e sull’ipotesi accusatoria (si veda, al riguardo, la ricerca dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’UCPI: “L’Informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pacini Giuridica, 2016) – facciano del pubblico ministero la figura maggiormente esposta a forme di degenerazione della funzione giurisdizionale in sé considerata e, di conseguenza, dell’intero impianto processuale.
Tra queste forme di degenerazione vi rientra senz’altro quel fenomeno di “populismo giudiziario” che, in un saggio del 2013 dal titolo “Populismo politico e populismo giudiziario”, il Prof. Giovanni Fiandaca ha inteso distinguere dal populismo penal e di tipo “politico-legislativo”, individuando nel primo la circostanza in cui “il magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza se non addirittura di aperto conflitto con il potere politico ufficiale”. Un fenomeno che, facendo leva su obiettive carenze del nostro sistema e sull’allarme sociale generato da gravi forme di criminalità, alimenta sovente nella comunità sentimenti di giustizialismo rinvenibili, ad esempio, nel bisogno immediato di condanna o nell’utilizzo dello stesso processo penale come anticipazione della pena (si pensi, ad esempio, all’attuale problema dell’eccessivo ricorso alla custodia cautelare).
Così, tipica tendenza del “magistrato-tribuno” è il pretendere di instaurare un rapporto diretto con i cittadini, finendo con il far derivare la propria legittimazione non tanto dalla legge scritta dal Parlamento, quanto dal consenso popolare. Di più, proprio perché l’enfatizzazione operata oggi dai mass media fa sì che, per ottenere gli effetti stigmatizzanti del processo penale, sia ormai sufficiente la sola azionabilità dell’azione giudiziaria, un simile comportamento è generalmente teso a “privilegiare un sostanzialismo repressivo poco attento alle questioni giuridiche e insufficientemente sensibile alle esigenze del garantismo individuale”. Non stupisce, del resto, il monito espresso dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, in occasione delle cerimonia di Inaugurazione dell’Anno Giudiziario tenutasi il 31 gennaio a Milano: «L’informazione non è resa nell’interesse del magistrato o della Procura; è un dovere di ufficio e il pm deve attenersi ai doveri di riservatezza e correttezza, come manifestazione e riflesso della imparzialità e della indipendenza. Ne consegue che toni enfatici, tali da generare nell’opinione pubblica la convinzione della definitività dell’accertamento, sono professionalmente inadeguati e lesivi dei diritti degli indagati (..)»
Simili evenienze si sono registrate in passato, e continuano a registrarsi ancor oggi in Italia, quando parte della magistratura rivendica maggiori poteri per combattere la mafia e la criminalità, consapevole per questo di ricevere approvazione e sostegno incondizionati da parte di grandi porzioni della società civile.
E qui veniamo alla problematica di fondo che si vuole portare all’attenzione del lettore. Quella di comprendere, invero, se sia giusto combattere la mafia con poteri illimitati tipici di uno Stato totalitario o, piuttosto, se sia necessario usare un potere confinato ai “binari” tracciati dalle regole di uno Stato di diritto. Più precisamente, ci si chiede: il fine ultimo della lotta alla mafia può spingersi fino al punto di prescindere dal rispetto della “legalità delle forme” imposta a presidio di garanzie individuali come il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza?
La questione si è riproposta nei giorni scorsi in occasione delle polemiche suscitate dalla maxi-operazione “Rinascita-Scott” contro la ‘ndrangheta, condotta dalla Direzione Distrettuale di Catanzaro e dall’Arma. Operazione, quella diretta dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che ha permesso di contare ben 334 arresti, 416 indagati, tremila carabinieri impiegati e quindici milioni di beni sottoposti a sequestro. Insomma “la più grande operazione dopo il maxi-processo di Palermo”, come ha voluto definirla lo stesso magistrato calabrese. Ma al di là delle dimensioni dell’inchiesta, le critiche hanno riguardato soprattutto la “spettacolarizzazione” della stessa e delle operazioni compiute ed annunciate a gran voce in conferenza stampa. Ebbene, a prescindere dal clima da tifoseria che generalmente si innalza quando si è culturalmente indotti a dover scegliere tra il sostenere opinabili metodi operativi delle autorità giudiziarie o il parteggiare per la mafia, la problematiche sollevate da questo o da altri simili casi non dovrebbero lasciarci indifferenti. Piuttosto, dovrebbero indurci a rifuggire dalle facili semplificazioni e riflettere più a fondo sulle conseguenze che un siffatto modus operandi potrebbe provocare (e, per certi versi, già provoca) sul sistema complessivo delle garanzie individuali e dei principi che sorreggono l’ordinamento democratico.
Ritornando all’operazione citata, è quasi doveroso chiedersi se sia degno di un paese civile esporre ad una tale gogna mediatica centinaia di persone che oramai, per il solo fatto di essere state indagate, e a prescindere da quello che sarà l’esito processuale, finiranno per essere additate a vita dall’opinione pubblica come appartenenti al mondo criminale. Non lo vieta soltanto l’art. 27 comma 2 della Costituzione, ma anche, in ultimo, la Direttiva (UE) 343/2016 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che impone agli Stati membri di adottare misure idonee a garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato-imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche – per esempio in conferenza stampa o nell’ambito di interviste – non presentino la persona come colpevole. Si tratta di una garanzia che, per quanto basilare, nella prassi risulta fin troppo spesso disattesa.
Al riguardo, è piuttosto emblematico quanto scrive Angela Corica in un suo articolo pubblicato il 10 gennaio su Il Fatto Quotidiano a sostegno della maxi-inchiesta di Catanzaro: “Non voglio entrare nel merito delle polemiche degli ultimi giorni e nemmeno fare la conta delle misure cautelari revocate. Perché se è vero che alcuni arresti sono sembrati abnormi è anche vero che la revoca di una misura cautelare non equivale alla redenzione dell’indagato, che dovrà comunque affrontare un regolare processo e dimostrare se è innocente o meno”.Come a dire: non importa se un presunto innocente è stato arrestato illegittimamente, perché comunque dovrà dimostrare la sua innocenza nel corso del processo. Si tratta, a ben vedere, di una diffusa impostazione culturale radicalmente contraria ai principi che ispirano un sistema processuale accusatorio come il nostro. La presunzione di non colpevolezza vuole infatti che non sia l’indagato-imputato a dimostrare la sua innocenza, ma chi accusa a dimostrare in giudizio la sua colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
L’idea di una rifondazione morale della società per via giudiziaria (espressa, ad esempio, dalla frasi: “smontare la Calabria come un Lego”, “accolgo la vostra sete di giustizia”), non può che rappresentare qualcosa di contrario alle istanze generali del diritto. Tuttavia, la diffusa propensione a rifiutare a priori un più approfondito dibattito sull’argomento in esame potrebbe spiegarsi con il fatto che il popolo, in generale, non chiede più ai magistrati di pronunciare sentenza secondo diritto, ma di trovare le prove per confermare quella “verità mediatica” di colpevolezza già passata in giudicato nell’opinione comune. Lo scollamento tra “giustizia attesa” e “giustizia applicata” spiega perché quando l’organo giudicante non accoglie l’ipotesi accusatoria degli organi inquirenti si rimane delusi e si grida allo scandalo di una giustizia sbagliata o non funzionante.
Come ben argomentato da Luciano Violante (Populismo e plebeismo nelle politiche criminali, in Criminalia, 2014), a fronte di una siffatta insoddisfazione sempre più crescente nei confronti della giustizia istituzionale, si fa strada nella convinzione comune l’idea che, per contrastare determinati fenomeni di corruzione, mafia e malaffare, il processo penale – e con questo il diritto penale stesso – debba fungere da “tecnica di accoglienza delle istanze vendicative che vengono dalla società e dai mezzi di comunicazione” sempre più propense ad individuare nei giudici o nei pubblici ministeri dei “magistrati di scopo” a cui chiedere, com’è tipico delle fasi populistiche, il conseguimento di finalità generali in luogo dell’accertamento di responsabilità individuali. Ne deriva, in tali evenienze, un rafforzamento delle finalità punitive dell’azione giudiziaria ed un contestuale malcontento verso quelle garanzie difensive viste come un intralcio allo svolgimento della giustizia.
Orbene, per quanto nobile sia indubbiamente il fine perseguito da tutti coloro che giornalmente rischiano la vita per svolgere il proprio lavoro con coraggio e dedizione, la criminalità organizzata non può combattersi con lo “spettacolo” degli arresti e delle manette o con metodi operativi e tecniche comunicative che, oltre a ribaltare la presunzione di innocenza in presunzione di colpevolezza, costituiscono espressione di una subdola negazione della dignità dell’individuo e dei suoi diritti fondamentali, oltre che dei principi liberali che rappresentano l’essenza dello Stato di diritto. Al contrario, per combattere la mafia – a partire dalla sua matrice sociologico-culturale – occorrono più legalità e più diritto.
Un illustre giurista come Piero Calamandrei, nello spiegare ad esempio il motivo per il quale il regime fascista aveva reso gli italiani diffidenti verso le sue leggi, scriveva che affinché le stesse, “le quali non sono che schemi di persuasione”, possano godere di quell’autorità che invita i cittadini a farle proprie, occorre che essi le sentano come espressione della loro stessa coscienza e volontà”; cosa che non poteva avvenire durante il periodo fascista, considerata l’arbitrarietà con la quale la legge veniva formulata ed applicata (Non c’è libertà senza legalità, Laterza, Bari, 2013). Allo stesso modo, seppure in un’ottica differente, Leonardo Sciascia, nel ricordare le imprese del Prefetto Mori nella sua lotta al fenomeno mafioso in Sicilia, spiegava che fascismo e mafia erano stati a lungo concorrenti in quanto costituenti diversa espressione di una medesima avversione alle regole dello Stato di diritto. Il fascismo, secondo lo scrittore siciliano, aveva soltanto anestetizzato la mafia perché, più che sconfiggerla, l’aveva soppiantata e si era sostituito alla stessa quale regime “totale” fondato non tanto sul monopolio della forza, quanto sulla generalizzazione della violenza. Per estirpare la mafia ci voleva ben altro, ma soprattutto ci voleva “per dirla semplicisticamente, più diritto: nel senso che bisognava mettere i siciliani nella condizione di scegliere, appunto, tra il diritto e il delitto e non tra il delitto e il delitto” (Corriere della Sera, 23 febbraio 1986).
La differenza tra uno Stato di diritto ed uno Stato totalitario è dunque resa evidente dalla capacità dello stesso di esercitare la pretesa punitiva entro i precisi limiti stabiliti dalla legge a tutela delle garanzie individuali. Quando, invece, si confonde la giustizia con la vendetta e la discrezionalità con l’abuso, non c’è parametro alcuno che permetta di scorgere una “parvenza” di diritto nell’immagine di un ragazzo tenuto bendato nel corso di un’interrogatorio di garanzia o in quella di un uomo in arresto le cui manette vengono appositamente esposte a favore di curiosi e telecamere.
In conclusione, volendo attualizzare il pensiero degli intellettuali sopra citati, non è importante soltanto che lo Stato e le sue istituzioni si offrano oggi alla collettività quale concreta alternativa alla via della delinquenza, ma è altresì fondamentale che ciò sia reso ben “visibile” a tutti per mezzo delle “forme” e dei “metodi” messi in campo nelle consuete attività di contrasto al fenomeno mafioso. Diversamente – permettendo invero che le “forme” utilizzate fuoriescano dal “modello legale” tracciato dalla legge e dalla Costituzione e, così, facendo apparire lo Stato come un’entità basata sull’autolegittimazione della propria potenza attraverso il ricorso a “metodi” arbitrari e illiberali – il rischio è che tale diversità non venga percepita, prima ancora di poter essere compresa.