L’Italia, ad oggi, si trova ai primi posti per tasso di sovraffollamento penitenziario in Europa e, allo stesso tempo, presenta lo “scarto” maggiore tra suicidi dentro e fuori dal carcere: difficile pensare che non esista un rapporto tra affollamento delle celle, riduzione della vivibilità e elevato livello di suicidi. Nel 2018 i casi di suicidio sono stati 64: un numero che ha segnato un picco di crescita rispetto all’anno precedente (50 nel 2017) e che ha raggiunto un livello che non si riscontrava dal 2011. Nei primi tre mesi del 2019, 10 persone si sono tolte la vita in carcere, circa una a settimana. L’alto tasso di suicidi della popolazione carceraria, di gran lunga superiore a quello della popolazione generale, è aggravato dalle presenti condizioni di marcato sovraffollamento degli istituti e di elevato ricorso alla incarcerazione. La recrudescenza di questo tragico fenomeno nel corso degli ultimi anni rende ancora più urgente richiamare su di esso l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica.

Sebbene l’atto di togliersi la vita contenga una irriducibile componente di responsabilità individuale, la responsabilità collettiva è chiamata in causa per rimuovere tutte quelle situazioni legate alla detenzione che, al di là del disagio insopprimibile della perdita della libertà, possano favorire o far precipitare la decisione di togliersi la vita.
Il richiamo alla responsabilità sociale è rafforzato dalla considerazione della particolare vulnerabilità bio-psico-sociale della popolazione carceraria rispetto a quella generale: i detenuti sono più giovani, più affetti da malattie, più poveri, meno integrati socialmente e culturalmente. Nonostante l’importanza del fenomeno e la sua persistenza nel tempo, sono scarsi gli studi
sistematici in merito; i pochi sono per lo più orientati nella prospettiva clinico individuale, senza concentrarsi sulle variabili sociali e istituzionali incidenti sul comportamento di suicidio.

Secondo recenti studi, ci si toglie la vita in carcere con maggior frequenza nel primo anno di detenzione; ciò si pone in stretta correlazione all’impatto traumatico con l’ambiante carcerario quale fattore di precipitazione verso il gesto autosoppressivo. Si rileva altresì una profonda relazione tra gli eventi suicidali e l’affollamento degli istituti penali: il sovraffollamento, oltre a limitare gli spazi e a provocare il deterioramento delle condizioni igieniche, pregiudica le relazioni col personale e limita le possibilità di accedere alle opportunità ricreative, formative, lavorative. Anche il disagio legato al sovraffollamento sarebbe un fattore di precipitazione, oltre che predisponente.

Un altro elemento riguarda i segnali antecedenti il suicidio: una considerevole parte dei suicidi possono dirsi “suicidi annunciati”, in quanto gli autori versano in condizioni di grave o gravissima depressione o avevano già posto in essere tentativi di togliersi la vita.
Un numero inferiore di suicidi si registra fra i condannati in via definitiva. Dunque si suicida di più chi è in attesa di rinvio a giudizio o di sentenza di primo grado o di appello, seppure con oscillazioni rilevanti. Rimane, però, il problema dalla sovra-rappresentazione dei suicidi fra i non definitivi rispetto all’intera popolazione carceraria non definitiva. Ciò significa che, tra i definitivi, la propensione al suicidio è notevolmente inferiore a quella registrata fra i non definitivi. Quanto all’età, in carcere si uccidono per lo più giovani uomini. Considerando i casi di suicidio nelle varie fasce d’età e confrontandoli con la distribuzione della popolazione carceraria nelle medesime, si evidenzia una più forte propensione al suicidio tra i 18 e i 34 anni.

Confrontando tali riscontri anagrafici con quelli relativi alla popolazione generale, emerge come in carcere, ci si uccide
circa 50 volte di più di quanto ci si uccida fuori. Inoltre, il restringimento degli spazi e il deterioramento delle relazioni, insieme alla scarsità di opportunità, sono correlabili non solo col suicidio, ma più in generale con l’autolesionismo e con la reattività aggressiva nei confronti del personale e dei compagni di detenzione. Tali fenomeni sono più frequenti in quelle sezioni dove si trovano i detenuti meno dotati di risorse personali e sociali, che hanno minori capacità di adattarsi e di cogliere le scarse opportunità che il carcere, in particolare nelle situazioni di sovraffollamento, offre. Da queste constatazioni, ne esce confermata l’ipotesi di E. Goffman sulle istituzioni totali e il cosiddetto “sistema di reparto”: nella competizione che si attiva, la parte meno dotata si ritrova a vivere nelle condizioni peggiori in quel contesto e ciò innesca una spirale di marginalità e sofferenza. Di recente si va affermando una prospettiva secondo la quale l’elemento manipolativo non esaurisce le motivazioni alla base dell’autolesionismo carcerario, c’è un continuum di autodistruzione che parte dalle condotte autolesive meno cruente fino ad arrivare a quelle auto soppressive. Ciò non significa leggere l’insieme dei fenomeni in chiave psicopatologica, bensì tentare di coglierli come espressione di un disagio che può assumere forme diverse, di maggiore o minore gravità, in rapporto alle capacità di elaborare strategie di adattamento dei soggetti nelle, specifiche, situazioni stressanti.
«Era la prima volta che vedevo un impiccato il cui cadavere non fosse appeso al cappio di una corda. Il detenuto aveva fissato il nodo, formato da diversi pezzi di tessuto, al bordo interno dello sportello, sul quale aveva intagliato pazientemente due scanalature su ambo i lati. Quindi aveva verificato che la lunghezza del suo busto fosse insufficiente per permettergli di sedersi, una volta impiccato, assicurando con questo mezzo uno strangolamento progressivo dovuto al peso del corpo». (Daniel Gonin, Il corpo incarcerato). Anche nella prospettiva psicodinamica, è difficile individuare la specifica dinamica di base di questo atto autodistruttivo che annulla interamente ogni aspetto di auto-conservazione insito nella natura umana. Non mancano le contraddizioni: per certi versi, il suicidio si presenta come l’atto solitario per eccellenza, di negazione della relazione con l’altro/altra; ma, cercando di scavare oltre l’atto in sé, se ne può cogliere l’aspetto meta-comunicativo: mentre sul piano cosciente il suicidio sembra voler negare il rapporto col mondo, a livello inconscio l’atto è rivolto agli altri, in una tensione drammatica di rapporto affettivo, sia positivo che negativo. «I minuti di ispezione furono lugubri. Tutte le precauzioni prese dal detenuto per suicidarsi ci resero in primo luogo così certi del suo decesso che impiegammo un certo tempo prima di staccare, non senza sforzo, il cadavere dal palco del supplizio. Ma come avevamo potuto ignorare il suo progetto che, senza dubbio, aveva richiesto lunghi giorni di preparazione minuziosa?» (Daniel Gonin, Il corpo incarcerato). Quanto al suicidio in carcere, vanno considerati da un lato i fattori di vulnerabilità individuale, e il ruolo nella condotta di suicidio di alcuni disturbi psicologici e psichiatrici; dall’altro, non si può prescindere né dalle particolari caratteristiche patogene/stressanti del contesto carcerario, né dagli specifici livelli di salute psicofisica delle persone detenute, più bassi di quelli della popolazione generale. La combinazione delle due variabili fa sì che l’Organizzazione Mondiale della Sanità consideri i detenuti come gruppo in sé vulnerabile rispetto al suicidio. Più complesso, e più controverso, è individuare, all’interno del gruppo, gli individui particolarmente vulnerabili al suicidio per le loro caratteristiche psicopatologiche individuali.

In più, nel carcere, a differenza che fuori, ogni atto autolesivo tende ad essere letto nella logica custodiale, come resistenza/ribellione del custodito all’istituzione carceraria. Si pensi alla dimensione “comunicativa” degli atti autolesivi: essa è in genere interpretata come parte intrinseca della sofferenza, quale forma di espressione del disagio dell’individuo. Al contrario, per i detenuti, si ragiona sulle
condotte auto aggressive, cercando di distinguere fra atti “manipolativi” e atti che esprimono un “reale”
disagio.

In ultima analisi, la perdita della libertà si sostanzia nella “consegna” del corpo all’istituzione carceraria. Il corpo è dunque lo spazio di comunicazione che viene ad essere comune sia al detenuto che all’istituzione. In questo senso, il carcere è il luogo per eccellenza del “linguaggio del corpo”. È la modalità immediata e regressiva che il detenuto ha per esprimersi pubblicamente, per comunicare ad altri il proprio disagio, a volte per rivendicare i propri diritti. È un “parlare” attraverso il corpo ferito che tradisce un’impotenza relazionale e un profondo turbamento della comunicazione.

Ancora, nell’ottica del “carcere che ammala”, è nota la riflessione sulle “istituzioni totali”, ad iniziare da E. Goffman: tutti gli aspetti della quotidianità dell’internato sono posti sotto un’autorità altra, col risultato di annullare la dimensione privata e l’individualità.
Secondo il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), da queste osservazioni ne deriva che il carcere è un luogo che crea il rischio suicidio, in quanto la detenzione in sé e per sé è un evento stressante che priva la persona di risorse basilari; ma è anche un luogo che importa il rischio suicidio, per lo stato precario di salute psicofisica della popolazione carceraria.

Da qui la cautela verso un approccio rivolto a individuare i soggetti “a rischio”, quale forma privilegiata di prevenzione del suicidio: in una parola, a “psichiatrizzare” il suicidio in carcere. Tale approccio, che la letteratura psicosociale ha da tempo definito come “eccezionalista”, focalizzato sui soggetti etichettati come portatori di deficit, ha il difetto di aumentare la stigmatizzazione individuale,
col rischio di non cogliere l’interazione fra individuo e ambiente. È dunque preferibile un approccio “universalista”, che veda nel potenziamento delle opportunità ambientali l’ambito più favorevole alla promozione delle abilità dei soggetti, a partire da quelli più deboli. È l’approccio di promozione della salute, anche e soprattutto in ambito carcerario. Il CNB rileva due vantaggi derivanti da tale approccio: allontanare i suddetti pericoli della psichiatrizzazione del suicidio, particolarmente insidiosa nel carcere, poiché esso offre un terreno culturalmente fertile al recupero della tradizione custodiale propria della psichiatria fino a non molti decenni fa; evitare gli eccessivi “specialismi”, a favore di un approccio comunitario che coinvolga il personale tutto e i detenuti stessi nella creazione di un carcere più “sano” o, almeno, meno “malato”. Scegliere un approccio universalista di prevenzione in ambito di salute psicofisica implica privilegiare una prospettiva ecologica, che considera la posizione del soggetto nell’ambiente di vita e la relativa interrelazione che ne scaturisce; di contro all’idea, saldamente radicata, che il suicidio sia una manifestazione psicopatologica di un disordine individuale.

Nella prospettiva di cogliere l’interazione fra l’individuo e il contesto, uno dei modelli più accreditati di interpretazione del disordine psicologico è quello dello stress-vulnerabilità e della mutua influenza fra fattori psicologici individuali e fattori ambientali. L’evento traumatico della condotta auto aggressiva è visto come una reazione sintomatica ad una combinazione di forze ambientali avverse: la gravità del disagio è proporzionale ai fattori di vulnerabilità individuale, quali risultano dal rapporto fra fattori avversi e fattori protettivi, accumulati nel tempo. Ne deriva il preciso dovere morale a garantire un ambiente carcerario che rispetti le persone e lasci aperta una prospettiva di speranza e un orizzonte di sviluppo della soggettività in un percorso di reintegrazione sociale; ma prima ancora a riconsiderare criticamente le politiche penali che siano di per sé causa di sovraffollamento, poiché così facendo si pongono direttamente in contrasto col principio di umanità delle pene.
Il Comitato Nazionale ha chiesto, e continua a chiedere, se il carcere, per come è oggi, rispetti il principio secondo cui la detenzione possa sospendere unicamente il diritto alla libertà, senza annullare gli altri diritti fondamentali (come quello alla salute, alla risocializzazione e a scontare una pena che non mortifichi la dignità umana): rilevando che in molti casi esiste una contraddizione fra l’esercizio di questi diritti e una pratica di detenzione che costringe le persone alla regressione, all’assenza di scopo,
in certi casi perfino a subire violenza.

Infine, che il carcere in sé possa risultare un’istituzione totale patogena, o un induttore di turbe psico-fisiche che determinano nel recluso, sotto forma di sofferenza legale, un surplus di afflizione, e quindi di condanna, è un’ipotesi in fase di sviluppo e di approfondimento. La sofferenza legale sembra essere la causa principale della destrutturazione e debilitazione del recluso. Essa determina quelle “malattie dell’ombra”, quell’aura “patogeno-afflittiva” che autori come Nils Christie hanno considerato come caratteristiche fondamentali del carcere immateriale.