Il Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha reintrodotto – nel peggiore dei modi – il tema della commercializzazione della cannabis light all’interno del dibattito politico, dichiarando quanto segue:
“La droga è un’emergenza nazionale: da domani darò istruzioni agli uomini della sicurezza per andare a controllare uno per uno i presunti negozi turistici di cannabis, luoghi di diseducazione di massa. Vanno sigillati uno per uno. Saranno proibite e vietate anche tutte le cosiddette feste e sagre della cannabis – aggiunge – siamo contro ogni sperimentazione e regolamentazione della cannabis”.
L’intervento di Matteo Salvini è stato seguito dalla pronta emanazione di una Direttiva avente ad oggetto gli indirizzi
operativi in materia di commercializzazione di canapa e normativa sugli stupefacenti. A ben vedere, però, non può che trattarsi di una sterile ripicca politica quella del leader della Lega che non tiene conto del fatto che l’intero settore della cannabis light è già regolamentato da una legge e, più in generale, che trascura l’esistenza di un meccanismo legislativo a garanzia di simili scelte. Ma andiamo con ordine: In Italia, i prodotti a base di cannabis sono legali purché rientranti nel tetto fissato per la dose di Thc (tetraidrocannabinolo) contenuta, ossia lo 0,6%. Con l’entrata in vigore della legge 242/2016 recante norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), infatti, è necessario distinguere tra una cannabis con principio attivo inferiore allo 0,6% che, come espressamente previsto dalla citata legge, non rientra nell’ambito di applicazione del T.U. in materia di sostanze stupefacenti, ed una cannabis con principio attivo superiore allo 0,6%, che continua ad essere assoggettata alle disposizioni di cui al D.P.R. 309/1990.
Nello specifico, la normativa in parola, che si propone di incentivare la filiera agroindustriale della canapa, consente all’agricoltore la coltivazione delle 62 varietà di cannabis sativa L. incluse nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali vengono quindi escluse dall’ambito di applicazione del testo unico in materia di stupefacenti (D.P.R. 309/1990).
Si tratterebbe, pertanto, di sostanza che, al pari delle altre varietà vegetali della stessa canapa, non rientra tra quelle inserite nelle Tabelle allegate al predetto Testo Unico.
La citata Legge, però, sebbene disciplini la produzione della cannabis non disciplina (né vieta) la commercializzazione delle relative infiorescenze, dando luogo ad un vuoto normativo che ha generato, tra gli altri, una serie di contrasti giurisprudenziali sul tema, tanto è vero che si attende per la fine di questo mese la pronuncia delle S.U. della Suprema Corte in ordine alla destinazione d’uso delle infiorescenze.
Orbene, al di là dell’opacità legislativa e pur tralasciando i numeri e le statistiche, quello della canapa legale resta un settore in enorme crescita, il cui rilancio apporterebbe benefici (non solo per le casse dello Stato) che vanno ben oltre le più ottimistiche previsioni. Trascurando, poi, lo standard legislativo europeo ed extraeuropeo in materia nonché le istanze di legalizzazione provenienti, oramai, dai più disparati gruppi politici, è opportuno sottolineare l’incapacità del leader leghista di misurarsi, prima che col tema della legalizzazione, con le leggi che ne governano il settore. Questo perché, dopo l’ennesimo intervento a caldo, il Capitano ha dovuto fare i conti con la realtà dei fatti e, dopo aver annunciato a gran voce di voler chiudere tutti i negozi di cannabis legale insieme al suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi, ha partorito una Direttiva che di fatto non prevede nulla in più di quanto fosse già previsto in seno alla legge 242/16 ed alle pronunce giurisprudenziali in materia ovvero che se i prodotti rispettano le soglie di legge e le certificazioni previste dalla stessa sono legali!
Peraltro, il Capitano ha omesso di menzionare nella citata Direttiva proprio la sentenza della Corte di Cassazione che ha chiarito come la commercializzazione della cannabis sia lecita purché rientrante nei parametri fissati dalla legge, ritenendo incongruo non estendere le guarentigie previste per la produzione di infiorescenze alla fase della commercializzazione alla quale il frutto della coltivazione perviene senza alcuna modifica.
Sulla carta, perciò, nulla è cambiato ma resta ferma l’inopportunità di un simile approccio (anacronistico e pericoloso) ad un tema, quale quello del consumo di cannabis, tanto complesso quanto importante, che dovrebbe andare ben oltre gli slogan elettorali.