Come riportato da Il Foglio nell’articolo “La guerra alla presunzione di innocenza”, negli Stati Uniti, in pieno delirio da #MeToo, il principio della presunzione d’innocenza è messo in discussione. Ecco, a proposito di presunzione di non colpevolezza e della necessità di andare “oltre ogni ragionevole dubbio” prima di emettere una sentenza di condanna, pensiamo sia utile riguardarsi un classico americano. Riguardare Angry men, per ricordarsi e riflettere sull’ importanza della presunzione di innocenza.

New York anni ’50. Nell’aula di un tribunale, in piena estate, dopo l’arringa degli avvocati, 12 giurati dovranno decidere la sorte di un diciottenne, accusato di aver ucciso il padre durante una lite in casa. Contro di lui nessuna prova certa. Nessuno che lo abbia visto piantare la lama nelle carni del padre , nessuno che possa accusarlo in maniera certa e inoppugnabile di aver commesso uno tra i delitti più odiosi: il parricidio. Il ragazzo è uno straniero, probabilmente di origine ispanica, e proviene da un quartiere della periferia.   Nonostante la giovane età ha già qualche precedente penale alle spalle e appare dunque come un’anima persa, dimenticata da Dio e messo sotto accusa dagli uomini. In particolare, 12 uomini dovranno decidere il suo destino. Dodici uomini , dodici angry men , come il titolo originale recita, maldestramente tradotto in italiano col conosciuto “La parola ai giurati”. Angry in inglese significa arrabbiato, irato, imbestialito. E quelli di cui parla il film sono proprio così, sono uomini arrabbiati, arrabbiati nella vita, arrabbiati probabilmente per la loro vita. Ed è così che in un giorno con un caldo insopportabile, uno di quelli in cui chiunque, per intenderci, piuttosto che  fare il giurato popolare in una anonima sala di tribunale, preferirebbe fare qualsiasi altra cosa, loro invece sono lì.

Frustrati per l’onere da sbrigare in fretta, allo stesso tempo sembrano compiaciuti del potere di cui godono in quel frangente,   nell’avere tra le mani la vita del malcapitato, di un innocente fino a prova contraria, che per loro, si trasforma in un feticcio da immolare sull’altare della loro vuota quotidianità, una vittima sacrificale su cui scaricare tutte le loro frustrazioni.
Gli “angry men”, nel film, sono dei numeri: di ciascun giurato non viene ricordato il nome o il cognome. Come del resto accade anche per quelli dell’imputato, definito più semplicemente “il ragazzo”, spersonalizzato e senza identità. Anche dei testimoni non sappiamo nulla, solo che sono “un anziano e una vecchia certi di aver visto il colpevole alzare la lama contro il padre. Nient’altro sulla loro persona. Ognuno di essi, tuttavia, rappresenta anche un comportamento umano. Un’indole. Un approccio alla vita. Il sadico, il frustrato, il possibilista, il saggio e via dicendo. E’ in questo contesto di torrido caldo e di numeri che ha inizio la partita, dove la posta in gioco è la vita di una persona. Se ognuno dei giurati rappresenta un archetipo, siamo di fronte a una tragedia greca, di cui Henry Fonda è il protagonista (il giurato numero 8) e Lumet il cantore.

Tutti i giurati, in prima istanza, dichiarano colpevole il ragazzo. Tutti tranne uno: il giurato numero 8. A suo parere, le prove non sono sufficienti per mandare al macello un giovane uomo. Certo, già compromesso dalla vita, ma con tutto il diritto di tentare un riscatto. Ecco, questo è un punto su cui riflettere, il riscatto. E farlo fuor di retorica, senza essere ingenui , ma sempre interrogandosi su cosa sia davvero la Verità e su chi, su questa Terra, abbia il dovere e il diritto di stabilirla. Ma torniamo dentro l’aula. Si riapre il dibattimento. I giurati si risvegliano dal torpore, aprono gli occhi, aguzzano le orecchie e non mancano i colpi di scena a elettrizzare la sonnacchiosa e insofferente atmosfera del primo dibattimento. Per esempio, quando il giurato numero 8 tira fuori dalla tasca un coltello appena acquistato, per mimare l’accoltellamento e dimostrare come nel racconto dei testimoni ci fossero lacune. Ed è così che assistiamo a una pièce teatrale straordinaria. A mano a mano che il dibattito avanza, la macchina da presa si concentra sul volto dei giurati, li scava, ne legge i solchi e i pensieri, ne fa trapelare i dubbi. I loro movimenti , dapprima rigidi , diventano danza, la stanza anonima del tribunale diviene teatro di guerra e di speranza , rendendo tangibile il conflitto vissuto all’ interno della camera che ospita il dibattimento. Magistrale è il direttore della fotografia, capace di antropizzare questo luogo, ripreso con lenti a lunghezza focale sempre maggiore, in modo da rendere gradualmente più visibili il soffitto e le pareti intorno al tavolo dei giurati,  quasi lo spazio si restringesse intorno a loro. Accentuano l’effetto le carrellate sui volti tirati e sudati del coro , pesa il fatto che sia caldo e il condizionatore non funzioni, quasi il regista volesse mostrarli in croce, appesantiti e quasi mangiati dalla loro foga di dover decidere della vita di un uomo. Il linguaggio di Lumet è articolato e personale. Il regista fonde le caratteristiche del racconto televisivo, come l’uso dei primi piani, la messinscena in spazi ridotti, la sintesi narrativa, con le possibilità offerte dal grande schermo. Notevole, ad esempio, appare la sua abilità nell’utilizzo di tutte le sfumature del bianco e nero, a sottolineare  le atmosfere del film, nonché l’organizzazione dei tempi della narrazione, svincolati dalle interruzioni pubblicitarie televisive.

Ora, elementi stilistici e formali a parte, non è forse umano e giusto, in caso di ragionevole dubbio e di concreta mancanza di prove, mettere da parte la pretesa punitiva dello Stato e della società tutta? L’obiettivo del giurato numero 8, in fondo, non è dunque di affermare che il ragazzo è innocente. Lui non è convinto della sua innocenza ma non lo è neppure della sua colpevolezza. Lo muove  il “ragionevole dubbio”. Lumet ,qui, ci ricorda la necessità di una prospettiva garantista, una prospettiva a favore di  tutti gli individui di una società civile e democratica degna di essere ritenuta tale. Così, il giurato numero 8 ribadisce più volte che il ragazzo ha solamente diciotto anni, invitando gli altri giurati a non decidere la vita di una persona in “cinque minuti”, come avrebbero voluto, spinti da una totale disinteresse nei confronti di un altro essere umano, e di non farlo, a maggior ragione, se si tratta di un ragazzo così giovane. Henry Fonda, con la sua grande recitazione, non rappresenta solamente la ragione applicata nella giustizia ma, volendo, anche la ragione applicata nella democrazia. Entrambe infatti, se non supportate da cultura, umanità possono sfociare in situazione drammatiche come ci testimoniano tanti episodi del passato. Nella figura del giurato numero 8 si può, in fondo, intravedere anche un esempio di positiva “minoranza attiva” che non si china davanti  a una possibile “dittatura della maggioranza”, e che dunque  garantisce l’equilibrio democratico. Ancora, questa figura incarna perfettamente l’uomo studiato a lungo e descritto da Serge Moscovici, quell’uomo che pur essendo isolato è capace di resistere, e poi di convincere con la propria coerenza la maggioranza, e poi forse di convincerla a mettere in atto una “rivoluzione” dei valori della società. La giustizia, come sappiamo, non è una scienza esatta, ma un sistema estremamente umano: questo è 12 angry men.

E’ forse terribile, ma la vera giustizia e la vera difesa di una persona dipendono da fragili dinamiche: l’impegno dell’avvocato di difesa, la razionalità e il buon senso dei giudici (o dei giurati nei sistemi che li prevedono) ma anche dalla attendibilità e buona fede dei testimoni. Quest’opera, in fondo, ci ricorda anche questo. Si può certamente affermare, infine,  che con la sua quantità di molteplici significati politici, sociali e filosofici, 12 angry men sia a pieno titolo un classico intramontabile della storia del cinema. Dalla pellicola emerge tutta la critica di Lumet per la pena di morte, ma anche la sferzante requisitoria verso i costumi della “middle class” americana, troppo dedita alla cura di tematiche superficiali per preoccuparsi delle istanze sociali che rischiano di sconquassarla dall’interno. La società e l’essere umano non  sembrano essere cambiati molto da quel lontano 1957, quantomeno sembrano correre il rischio di ripiombarci, in un momento storico, come quello attuale, in cui il diverso torna ad essere percepito aprioristicamente come un nemico, in cui si ridiscute dell’introduzione della pena di morte federale in USA e in cui, appunto, si tenta di scalfire il principio della presunzione di innocenza. Ma forse occorre tempo. Molto tempo. E soprattutto molti giurati numero 8.