Alcune riflessioni dopo l’ennesimo scontro frontale tra politica e magistratura. Un’analisi a margine dell’inchiesta riguardante la Fondazione Open vicina a Matteo Renzi, per capire quali sono le responsabilità dei partiti e quali quelle dei togati, quali quelle del legislatore e quali quelle del potere giudiziario. Questa vicenda, in fondo, può essere anche l’occasione per superare definitivamente l’incubo del finanziamento ai partiti che ci perseguita da Mani Pulite: si può tornare a parlare di finanziamento pubblico o si può regolare il lobbying come avviene negli U.S.A così da garantirne la trasparenza. Soprattutto si potrebbe finalmente dare piena attuazione al dettato costituzionale con una regolamentazione dei partiti politici che assicuri la democraticità interna degli stessi.
“Avendo la politica cessato di essere vera e buona, vale a dire giusta, anche la giustizia svierà e diventerà politica. […] E poiché il potere giudiziario si trova in rapporti più stretti e intimi che non ogni altro con la società, poiché tutto mette capo o può metter capo a processi, sarà per l’appunto il potere giudiziario a essere chiamato a uscire dalla sua sfera legittima, per esercitarsi in quella ove il governo non è potuto bastare.[…] Alla giustizia è stato imposto […] di abbandonare infine il suo seggio sublime per discendere nell’arena dei partiti”. L’analisi è di François Guizot e riguarda la Francia del 1800 (François Guizot, Giustizia e politica, a cura di Carlo Vallauri, Gangemi Editore, pagg. 16 e 17) ma spiega molto bene quanto successo in Italia negli ultimi decenni. La politica (per debolezza, incapacità, crisi di rappresentanza e di fiducia) ha abdicato al proprio ruolo di guida della società in favore della magistratura: è la “Giuristocrazia” (termine coniato dal canadese Ran Hirschl), si affidano alla magistratura decisioni che spetterebbero alla politica (ad esempio sulle questioni di bioetica). Se tale fenomeno non è certo un’esclusiva italiana, ciò che caratterizza il nostro Paese è il peculiare rapporto tra politica e magistratura. Il delicato equilibrio tra poteri dello stato è saltato minando il principio della divisione dei poteri. Il problema è esploso con Tangentopoli e con l’abolizione dell’immunità parlamentare classica, contraltare previsto dai costituenti rispetto all’indipendenza della magistratura. Da più di 25 anni assistiamo allo stesso stanco canovaccio che si ripete ad ogni scandalo, ad ogni arresto di un politico: la fuga di notizie, l’abuso della carcerazione preventiva, la presunzione di colpevolezza, la gogna mediatica. Sempre uguali sono le reazioni alle inchieste: chi dichiara di “aver fiducia nella magistratura” e chi critica le “inchieste ad orologeria”. Sempre uguale il gioco delle parti: amici dell’indagato ad invocare la presunzione d’innocenza, avversari pronti a cavalcare e strumentalizzare i fatti.
Proprio questo è uno dei principali errori commessi dalla politica: cadere nella facile tentazione di utilizzare le inchieste a fini elettorali, sperando nell’aiuto giudiziario per sconfiggere l’avversario anziché sconfiggerlo alle urne, senza comprendere che nessuno è immune dalle inchieste. Copione che si sta ripetendo a margine dell’inchiesta riguardante la Fondazione Open vicina a Matteo Renzi, nuovo atto (troppo facile scommettere che non sarà l’ultimo) dell’opera che va in scena da anni. Qui non si parlerà del merito della vicenda, sia perché non si conoscono gli atti sia perché non si vuole prendere parte al processo anticipato, ci si limiterà ad alcune considerazioni generali sui rapporti tra politica e giustizia.
Se una prima ondata di antipolitica, legata a Tangentopoli, portò all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ora si corre il rischio di criminalizzare e demonizzare anche il finanziamento privato. Una democrazia però ha dei costi, i partiti hanno dei costi. I partiti sono lo strumento democratico ed indispensabile tramite il quale tutti i cittadini possono concorrere a determinare la politica nazionale (art. 49 Costituzione). L’inchiesta può essere un’occasione per ripensare il finanziamento alla politica: si può tornare a parlare di finanziamento pubblico o si può regolare il lobbying come avviene negli U.S.A così da garantirne la trasparenza. Soprattutto si potrebbe finalmente dare piena attuazione al dettato costituzionale con una regolamentazione dei partiti politici che assicuri la democraticità interna degli stessi.
Questo è il compito che spetta alla politica che dovrebbe intervenire prima che le inchieste della magistratura dettino l’agenda.Vi è un altro interessante spunto di riflessione sollevato dall’Avvocato Cataldo Intrieri su Linkiesta (https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/29/open-fondazione-matteo-renzi-magistrati/44559/ ). La Procura di Firenze, mediante l’interpretazione estensiva di una norma amministrativa introdotta dalla c.d. Spazzacorrotti che equipara le fondazioni ai partiti politici, ha considerato “le prime soggette come i secondi alle disposizioni delle Leggi 195/74 e 659/81 che puniscono l’illecita e non dichiarata erogazione di denaro e di utilità oltre che a «ai membri del Parlamento nazionale, ai membri italiani del Parlamento europeo, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali» anche a «favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative»”.Applicazione retroattiva che pone un evidente problema di compatibilità con il principio di legalità. Ha quindi pienamente ragione Marco Taradash nel dire che il potere delle Procure è frutto delle leggi votate dal Parlamento che hanno fornito tanti e tali strumenti. Sull’onda di una fantomatica “emergenza corruzione”, negli ultimi anni sono state approvate leggi che hanno aumentato le pene dei reati contro la P.A., introdotto nuove fattispecie di reato fumose (come il traffico di influenze illecite contestato proprio nell’inchiesta sulla Fondazione Open) ed esteso ai reati contro la P.A. strumenti eccezionali previsti per i reati più gravi (dall’estensione del regime delle misure di prevenzione all’inserimento nel catalogo dei reati ostativi per l’accesso alle misure alternative). E’ il populismo penale: si crea una nuova emergenza mediatica alla quale si risponde allargando il perimetro del diritto penale che invece dovrebbe essere l’extrema ratio. L’eccezione diviene regola, le garanzie dell’indagato vengono considerate un salvacondotto per il colpevole. Se dopo decenni di inchieste, arresti e scandali, la corruzione continua ad esistere, si ha la prova dell’inefficacia della sola repressione penale a risolvere un problema che ha cause profonde e merita soluzioni politiche. Solo la limitazione della burocrazia e dell’intervento dello Stato nell’economia può ridurre il rischio di fenomeni corruttivi. Torniamo, quindi, alle parole di Guizot. Il problema non è solo la politicizzazione della magistratura, visione ormai obsoleta e superata. Il tema principale è quello dei rapporti e dell’equilibrio tra poteri. La politica deve riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità senza cercare capri espiatori o nemici esterni.