La depenalizzazione delle sostanze stupefacenti è una giusta soluzione?
La lotta alla diffusione delle sostanze stupefacenti e alla dipendenza da droghe è da sempre al centro dell’agenda politica di tutti i partiti europei e non. Varie volte l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha rilasciato dichiarazioni come: “Il dramma della droga è uno dei pochi fenomeni in aumento in Italia” – qualsiasi cosa ciò voglia dire – “La droga, che qualcuno a sinistra vorrebbe legalizzare o reintrodurre, va combattuta senza se e senza ma”. Anche il Presidente USA Donald Trump si è speso molto su questa tema, affermando che dopo più di due anni la sua amministrazione ha ottenuto “incredibili progressi” nella lotta agli oppioidi (ad oggi, negli Stati Uniti, si conta una morte per overdose ogni 7 minuti). Probabilmente un’analisi più approfondita potrebbe fornire maggiore chiarezza su un tema che non ha mai smesso di dividere.
La lotta alla droga è sempre stata al centro delle politiche europee e di oltreoceano e, mentre fino agli anni duemila i paesi europei non hanno fatto altro che scimmiottare gli americani e la loro celebre “war on drugs”, negli ultimi decenni si è assistito ad un cambiamento di strategia da parte di alcuni Stati, Portogallo in particolare, ma anche Germania, Spagna, Austria, per citarne qualcuno. In questi paesi, proprio sulla scia della rivoluzione attuata in Portogallo a partire dal 2001, si è cominciato a depenalizzare i reati legati all’uso e al possesso di sostanze stupefacenti, quantomeno nei casi di “modica quantità”, prevedendo quindi non più una sanzione penale, bensì una sanzione amministrativa, accompagnata, dove necessario, da percorsi di recupero per le persone dipendenti da droghe. Ma andiamo per ordine.
Negli anni ’90, in Portogallo, l’1% della popolazione era dipendente da eroina e il paese registrava il più alto tasso di infezioni da HIV nell’Unione Europea. Inizialmente il governo decise di affrontare questa situazione con una politica di repressione simile a quella statunitense, criminalizzando qualsiasi condotta che concernesse l’uso o il possesso di sostanze stupefacenti, anche quelle che sovente vengono definite “droghe leggere” (come hashish o marijuana) indipendentemente dalla quantità, e prevedendo la pena della detenzione in ogni caso. Il risultato fu il formarsi di una vera e propria popolazione carceraria di tossicodipendenti, con il 50% del totale dei detenuti che rispondevano di reati relativi alle sostanze stupefacenti. Alla luce di ciò, il governo portoghese cambiò strategia, abbandonando la “war on drugs” e adottando, con la legge 30/2000 un ambizioso progetto di depenalizzazione dei reati di consumo, acquisto e possesso di tutti gli stupefacenti (eroina e cocaina comprese) per uso personale, nel caso il quantitativo non ecceda la media di un consumo per un periodo di dieci giorni. Per i trafficanti continua ad essere prevista la detenzione, mentre per coloro che rientrano nella soglia fissata è previsto l’affidamento ai servizi sociali dove poter intraprendere un percorso di recupero e disintossicazione. Nel 2015, dopo quindici anni, le stime erano le seguenti: le morti da overdose sono calate fino ad essere cinque volte inferiori alla media UE; le infezioni da HIV sono passate da 104,2 per ogni milione di abitanti a 4,2; la tossicodipendenza è quasi scomparsa tra i giovani tra i 15 e i 24 anni e la percentuale dei detenuti per reati legati agli stupefacenti è passato dal 50% al 24%. Il cambio di strategia si è rivelato un successo, motivo per cui altri paesi ne hanno seguito l’esempio, depenalizzando gli stupefacenti, investendo in programmi di cura e di sostegno, ponendo sostanzialmente la salute pubblica prima della punizione e della incarcerazione. Invece cosa succede invece nel nostro paese? In Italia, in materia di stupefacenti, dopo una pronuncia della Corte Costituzione nel 2014 (Corte cost. n. 32/2014), vige una legge del 1990, il T.U. 309/1990. La l. 49/2006 ha novellato il Testo Unico depenalizzando l’uso personale di droghe leggere. Per il resto, come la stessa Corte ha affermato nella suddetta sentenza, lo spaccio o il possesso oltre certe soglie di droghe “leggere” è punito con la pena della reclusione da due a sei anni (per avere un’idea, più di quanto è previsto per la lesione personale volontaria o l’omicidio colposo), mentre per lo spaccio di droghe “pesanti” è prevista la detenzione da sei a venti anni (quindi potenzialmente corrispondente alla pena comminata per l’omicidio doloso). Se però i fatti previsti risultano essere “di lieve entità”, allora la pena si riduce alla detenzione da sei mesi a quattro anni. In breve, non ci possiamo definire il paese europeo più proibizionista, ma certamente non rientriamo tra quelli che hanno deciso di affrontare la questione delle droghe con gli strumenti della sanità e della scienza piuttosto che con il diritto penale. Tralasciando la urgente necessità di dotarci di una legge, come dire, “al passo coi tempi”, una riflessione su un possibile cambio di strategia sarebbe quanto meno doverosa, senza dover per forza adottare una misura di portata ancor più ampia come la legalizzazione. Come ha mostrato uno studio condotto dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) basato su dati ufficiali del Dipartimento delle Politiche Antidroga, dal punto di vista dello Stato, e soprattutto della comunità, gli effetti di una depenalizzazione applicata a tutte le sostanze stupefacenti sarebbero più che benevoli: risparmi nelle spese per la sicurezza, per le carceri e per i detenuti, deflazione del carico giudiziario sovraffollato (il 79% delle segnalazioni per uso personale di droga riguarda la cannabis), diminuzione del numero di detenuti (1/4 del totale è in carcere per crimini connessi agli stupefacenti), liberazione di risorse disponibili per le forze dell’ordine e magistratura impegnate invece sul fronte delle droghe leggere (attualmente il 95% dei sequestri riguarda cannabinoidi, il 4% cocaina e il restante 1% tutte le altre sostanze).
È bene tenere a mente che ogni esperienza va analizzata nel particolare contesto in cui avviene: non è matematico che la medesima strategia applicata altrove conduca agli stessi risultati. Ciò chiarito, è però altrettanto evidente come, al momento, i dati ci dicono che ad avere fallito è la “war on drugs” a stelle e strisce, ossia la criminalizzazione di tutto ciò che concerne gli stupefacenti. Un approccio che ha portato il sistema giudiziario USA ad avere tanti arrestati per crimini di droga quanti sono i diplomati (un arresto ogni 25 secondi è la media), ad avere una morte di overdose ogni 7 minuti, facendo sì che i morti per tossicodipendenza siano superiori al totale dei morti nelle guerre in Vietnam, Afghanistan, Iraq messi assieme. Per non parlare dei nuclei familiari che vengono distrutti ogniqualvolta i genitori vengono arrestati e i figli consegnati ai servizi sociali, o dei trilioni di dollari spesi dallo Stato americano per combattere questa “guerra” senza ottenere alcun successo. Non c’è traccia di un solo numero che sia a favore di una tale politica. E il più grande fallimento consiste nella mancanza o nella inutilità dei trattamenti e delle cure per i tossicodipendenti nelle carceri dopo che sono stati arrestati. Chi entra tossico esce tossico: questa è la conseguenza di una società che sceglie di usare il diritto penale per risolvere una questione che invece avrebbe bisogno di ben altre soluzioni. È una questione di salute pubblica, non di repressione penale.
A tal proposito, può risultare utile illustrare il programma che la città di Seattle ha deciso di adottare per risolvere la tossicodipendenza dilagante e che ha raccolto larghi consensi tra gli esperti. L’amministrazione si è resa conto che la prigione e la persecuzione non erano la risposta giusta, ma che portavano, invece, all’isolamento di persone che in realtà hanno bisogno di essere aiutate ma che in questo modo non avevano la possibilità di richiedere sostegno. L’eliminazione della pena, e dello stigma che essa porta con sé, aiuta le persone a farlo. La città di Seattle ha dunque depenalizzato l’uso e il possesso al di sotto di una certa soglia di ogni tipologia di stupefacente, prevedendo che coloro che vengono fermati vengano portati in centri dove possono fruire di alloggi, vestiti, pasti e personale medico in grado di seguirli in un percorso di disintossicazione. Coloro che escono da questi centri hanno il 58% di probabilità in meno di essere riarrestati rispetto a prima, la loro possibilità di trovare un alloggio dopo la riabilitazione è raddoppiata e quella di trovare lavoro è cresciuta del 46%. È certamente costoso (si parla di 350 dollari mensili per persona), ma tutti concordano che si tratta comunque di un costo inferiore a quello che l’arresto e l’incarcerazione comporta, e i benefici in termini di salute pubblica sono evidenti. Come detto, ogni esperienza ha una storia a sé, ma una riflessione anche in Italia, al giorno d’oggi, pare più che doverosa.