Le misure alternative alla detenzione sono state introdotte nel 1975 con lo specifico fine di adeguare il nostro sistema penitenziario alla funzione rieducativa della pena richiesta dall’art. 27 comma terzo della Costituzione il quale, appunto, dispone: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Attualmente, l’ordinamento penitenziario conosce sostanzialmente tre pene alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà.
Misure, queste, che consentono ai condannati che rispettano determinati requisiti (su tutti breve durata della pena detentiva e buona condotta durante il processo e/o in carcere) di trascorrere tutta o parte della pena al di fuori dell’istituto penitenziario, nelle tre diverse modalità che le caratterizzano; cosa che, tra l’altro, ha fatto sì che l’opinione pubblica si dileggiasse nella creazione di appellativi quali “svuota-carceri”, contestando la funzionalità di tali provvedimenti.
Tuttavia, le misure alternative rappresentano l’unico vero strumento del nostro ordinamento che persegue perfettamente quella idea rieducativa della pena che il dettato costituzionale prescrive. I beneficiari, infatti, sono inseriti in percorsi di reinserimento sociale fuori dal carcere (nei servizi sociali o comunque in appositi istituti) o godono della possibilità di trascorrere il periodo della pena nella propria dimora, evitando così il rischio di “criminalizzazione” insito nel sistema carcerario italiano. Non si può negare che la ragione che ha portato il legislatore del 2013 (d.l. n.146/2013) ad ampliare la platea dei potenziali beneficiari è stato soprattutto quello di contrastare (con successo) il sovraffollamento carcerario appena condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2013 con l’ormai celebre Sentenza Torreggiani. Le carceri italiane hanno in effetti registrato una riduzione del numero di detenuti pari quasi a 10.000 tra il 2013 e il 2014.
Dalle statistiche pubblicate dal Viminale risulta, inoltre, che i reati nel 2018 sono diminuiti dell’8,3%, ma i detenuti nelle carceri italiane continuano a crescere, sfiorando quota 60.000 in poco più di 50.000 posti regolamentari – dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati a dicembre 2018. Ad oggi, le misure alternative alla detenzione sembrano essere quindi l’unico valido strumento per contrastare il sovraffollamento ma anche e soprattutto per ottemperare il precetto costituzionale. In molti dubitano della loro reale efficacia, ma i dati, da questo punto di vista, non lasciano adito a dubbi. La principale statistica che consente di misurare l’efficacia delle misure alternative è quella relativa alla recidiva. Da uno studio effettuato nel 2007 dal Direttore dell’Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP) emerge che la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere è del 68,45%, mentre la percentuale scende al 19% se si guarda chi è destinatario di misure alternative.
Tali dati sono stati confermati anche dalla ricerca condotta nel 2012 dall’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief), dal Crime Research Economic Group (Creg) e dal Sole 24Ore, la quale ha dimostrato che, a parità di pena da scontare in carcere, chi ha trascorso più tempo in un carcere “aperto” ha una recidiva inferiore di chi invece è stato detenuto più a lungo in un carcere “chiuso”, con una differenza di 9 punti percentuali. E nella stessa direzione muove anche il dato relativo alle revoche delle misure – fornito sempre dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria – che hanno interessato solo il 5,92% del totale e un numero ancora più piccolo se consideriamo quelle intervenute per commissione di nuovi reati (0,71%).
Da quanto elaborato da questi studi si deduce chiaramente come le misure alternative contribuiscano efficacemente a ridurre la commissione di nuovi reati da parte di chi ha scontato la propria pena; cosa che, invece, non riesce a fare il carcere. Non solo. Le misure alternative sono anche molto meno costose della incarcerazione, visto che devono essere scontate nella comunità. Nel XIII Rapporto dell’Associazione Antigone è stato stimato, infatti, che la spesa giornaliera per detenuto si aggira intorno agli 11€: se si considera, quindi, il numero totale dei detenuti in un anno solare, la spesa complessiva corrisponderà a centinaia di milioni di euro all’anno: costi che non sono invece richiesti per coloro che beneficiano delle misure alternative.
I dati e le statistiche vanno in un’unica e chiara direzione: le misure alternative alla detenzione funzionano, riducono il sovraffollamento carcerario, riducono la percentuale di recidiva, promuovono la risocializzazione del condannato e sono vantaggiose anche in termini di costi. Ma a quanto pare ad alcuni non basta. Oggigiorno questi numeri sono ignorati, le misure alternative sono trattate dall’attuale governo come se fossero degli stratagemmi per rendere la pena meno efficace, per distogliere il condannato dall’unica pena che l’esecutivo concepisce: la detenzione. Le frasi all’ordine del giorno sono “marcire in carcere” o “buttare via la chiave”, con tanti bei saluti alla concezione rieducativa della pena. E questo sentimento si esteriorizza negli azioni dell’esecutivo giallo-verde.
La riforma dell’ordinamento penitenziario messa a punto dall’ex Ministro della Giustizia Orlando poteva essere un punto di svolta: l’attenzione alle pene alternative era molta e si dava la possibilità ai magistrati di sorveglianza di decidere circa l’assegnazione a tali misure di un’amplia platea di detenuti che fino ad ora era rimasta esclusa nonostante debba scontare pene inferiori ai tre anni. Il Governo Conte ha bocciato il testo che riguardava le misure alternative e la giustizia riparativa, senza sostituirlo con altrettante valide misure che possano fronteggiare la crisi che il nostro sistema carcerario sta vivendo. Ma (purtroppo) il Guardasigilli Bonafede ha tranquillizzato tutti, rendendo chiaro come il governo intende agire in tal senso: “Costruiremo nuove carceri, e cercheremo di rendere la vita migliore in carcere”. Tali affermazioni minano le speranze di vedere a breve miglioramenti nel sistema penitenziario. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), nel frattempo, ha avvertito l’Italia che “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria […]. Gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”.