Con la votazione alla camera di settimana scorsa il parlamento ha dato il via libera al taglio dei parlamentari, storica riforma bandiera del Movimento Cinque Stelle.
La legge di riforma costituzionale che punta a ridurre da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 il numero dei senatori ha ottenuto 553 voti favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti. Non solo la maggioranza ha votato in maniera compatta (nonostante il PD avesse votato no in precedenza), ma anche le opposizioni hanno deciso di aprire le porte a questa riforma, anche se lo sciopero di Lega e Fratelli d’Italia che andava avanti da giorni in protesta contro l’assegnazione del reddito di cittadinanza all’ex brigatista Federica Saraceni. Ferma invece l’opposizione di +Europa.
Occorre valutare la riforma nel merito oltre che nel metodo. Non si tratta infatti di criticarla in difesa delle “poltrone”, quanto dei seggi parlamentari e, in particolare, degli equilibri sanciti a suo tempo in Costituzione per stabilire una legittima rappresentanza reale del paese, che tenesse conto della densità popolare e che garantisse anche alle formazioni minori un peso politico in parlamento. Tutto ciò oggi è stato calpestato in quanto, attualmente, la riforma non prevede una seria riforma organica, se si esclude il documento sulle riforme di garanzia pubblicato dalla maggioranza (omogeneizzazione dell’elettorato di Camera e Senato, eliminazione della base regionale dei senatori e mantenimento dell’equilibrio nell’elezione del Presidente della Repubblica fra i delegati regionali e i parlamentari), documento comune che sa tanto di giustificazione per evitare di dichiarare espressamente una resa ad una riforma populista e distruttrice propagandata dall’ antipolitica firmata Cinque Stelle.
Manca comunque la legge elettorale, attesa entro dicembre: con l’attuale Rosatellum, ad esempio, la Sicilia Orientale perderebbe il 40% dei deputati (da 25 a 12), così anche la circoscrizione Lazio 2 (da 20 a 12), il Friuli il 38,2% (da 13 a 8), la Sardegna il 35,3% (da 17 a 11) ecc. Se poi si considera il Senato i numeri sono ancora più drastici, con le regioni più piccole (Trentino, Liguria, Marche, Umbria, Abruzzo, Basilicata, Calabria) che rischierebbero di non riuscire a eleggere candidati per i partiti minori, una rappresentanza dunque pressoché impossibile delle minoranze politiche in molte realtà.
Inoltre, come opportunamente sottolineato da Salvatore Curreri – «il numero ridotto dei parlamentari eletti rafforza il vincolo che li lega ai partiti di cui hanno condiviso il programma politico e che per questo li hanno candidati e sostenuti dinanzi agli elettori. Sotto questo profilo, dunque, pare evidente che meno saranno i parlamentari, più rigida sarà la disciplina di gruppo e di partito cui saranno sottoposti». Non una lotta alla casta, dunque, ma un rafforzamento della casta stessa.
Il problema principale risiede nell’errore di percezione che ha assunto la riforma nel dibattito pubblico, dove la riduzione del numero dei parlamentari è stata collegata esclusivamente al tema del costo della politica, senza una seria valutazione dei costi per la democrazia. A ben guardare, infatti, il risparmio che deriverebbe da questa manovra pare irrisorio: secondo quanto evidenziato dall’ “Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani”, diretto da Carlo Cottarelli, il risparmio netto generato dall’approvazione di questa riforma sarà pari a 57 milioni annui (285 milioni a legislatura), cioè lo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana. Chiaramente un risparmio molto più basso rispetto ai 500 milioni a legislatura, divulgati a gran voce da alcuni esponenti del Governo.
Concludendo, non di soli numeri si tratta. Questa riforma più che un’operazione di snellimento, ottimizzazione e miglioramento della qualità delle istituzioni sembrerebbe una manovra propagandistica e demagogica che conferma l’ideale pentastellato di superamento del parlamento “non più necessario” coerente ad una visione distorta della democrazia rappresentativa.