Con un post su Facebook, che ha ricevuto più di 15 mila likes, 1.500 commenti e quasi 8 mila condivisioni, Pietro Grasso si è espresso sulle polemiche seguite alla scarcerazione di Giovanni Brusca. Grasso ha criticato duramente «l’indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco», osservando che «con Brusca, lo Stato ha vinto non una ma tre volte», «la prima quando lo ha arrestato», «la seconda quando lo ha convinto a collaborare», «la terza, quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui».
Le parole di Pietro Grasso, forse, sono state tra le “migliori” pronunciate dalla politica in questa occasione (beati monoculi in terra caecorum), eppure anch’esse sono fonte di una qualche preoccupazione. In particolare, non appare condivisibile l’accento posto sull’alternativa tra «sconti di pena forti per chi aiuta lo Stato e prospettiva di ergastolo senza sconti per chi non collabora», con cui si chiude il post: e questo non solo per ragionipolitico-culturali, ma perché – come ben noto – in Parlamento è giunta la questione della revisione dell’ergastolo ostativo, la cui incostituzionalità è stata pronunciata ma non ancora resa efficace, ed è facile pronosticare che la vicenda Brusca sarà impiegata per tentare di depotenziare gli effetti del “monito” della Corte costituzionale. Tuttavia, non è questo l’aspetto che qui attira il nostro interesse. La lettura del post di Grasso ha infatti richiamato l’attenzione sul tema del bilanciamento tra il senso costituzionaledel diritto penale e il senso comunedi esso, e sulla grande domanda che lo riguarda: quanto il primo deve essere disposto a cedere al secondo, e quanto il secondo è tenuto a retrocedere di fronte al primo?
Nel sintagma “diritto penale” – come è stato acutamente dichiarato nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo– si rinviene un’attribuzione di significato non rinunciabile: quella che pone l’accento sul termine “diritto” a scapito di una prevalenza della funzione del punire, così costituendo gli argini necessari a evitare che la potestà sanzionatoria venga asservita al perseguimento di ideologie demagogiche. Detto altrimenti, il diritto penale non è semplicemente la punizione – giacché per punire non è necessario il diritto, essendo sufficiente la forza – né è solo un modo di procedimentalizzare il ricorso alla violenza. Il diritto penale costringe il senso comune del “chi rompe, paga” o dell’“occhio per occhio”, al contempo enucleando e valorizzando principi – come quello della risocializzazione o rieducazione – che sono del tutto alieni alla dimensione primigenia della punizione. Cionondimeno, è evidente che nelle norme incriminatrici si riflette sempre l’opinione dominante di una determinata collettività, in un determinato momento storico, sicché, se il diritto penale – il senso costituzionale di esso – dovesse affrancarsi del tutto da quel nucleo di senso comune, esso rischierebbe di trasformarsi in un corpo estraneo che, alla lunga, verrebbe rigettato dalla società che è chiamato a organizzare. Delle costituzioni è stato detto che esse sono ciò che ci siamo dati da sobri a valere per i momenti in cui siamo ubriachi, ed è senza dubbio un’immagine confortante e persino stimolante: tuttavia, costituzioni scritte solo su carta, e non anche impresse nel sentire diffuso, non sono di alcuna utilità.
Sergio Ricossa, in Straborghese (IBL Libri, 2010), ha dato voce a questo sentimento, là dove ha chiosato che i liberali, «per abolire le carceri, aspettano il giorno in cui non vi siano più delinquenti, non si aspettano che non vi siano più delinquenti il giorno che le carceri siano abolite». È un pessimismo di fondo, uno scetticismo storico, che offre però una linea cui attenersi per affrontare il conflitto, là dove esso risulti più profondo, tra senso costituzionale e senso comune, come fin qui sommariamente descritti. Per tornare alla liberazione di Brusca, pochi dubbi possono esserci sul fatto che essa sia conforme al senso costituzionale (le garanzie della legge valgono per tutti), come è altrettanto comprensibile che essa ripugni al senso comune. Chi ha fede nell’idea del diritto penale liberale non avrà difficoltà ad ammettere che l’adeguamento al senso costituzionale debba risultare preminente, ma non per questo potrà dismettere, con superficialità, i “bisogni” del senso comune (tra cui vanno certamente annoverati l’umano dolore e la concezione del giusto/ingiusto che nessuna legge può soppiantare). Proprio per questi motivi, il post di Pietro Grasso, nonostante i suoi limiti (ma forse proprio a causa dei suoi limiti), ha riscosso non soltanto una ovvia approvazione tra chi è alfiere del senso comune nel diritto penale, ma anche – in modo meno scontato – un qualche consenso tra chi aspira, in sincera buona fede, alla realizzazione del senso costituzionale di esso.
In questo contesto di progressione “incrementale”, un ruolo chiave è ovviamente svolto dal legislatore chiamato a mediare tra il senso comune e il senso costituzionale: da una parte, rimodellando il primo alla luce del secondo, e, dall’altra, non dimenticando che l’accettazione diffusa di quest’ultimo passa anche attraverso un’opera di convincimento aliena da tentazioni palingenetiche e fughe in avanti. Si tratta di un compito che, purtroppo, il legislatore non adempie spesso in modo corretto e soddisfacente, ma è pur sempre una modalità di allocazione dei poteri e delle responsabilità preferibile all’alternativa, al governo per fiat giudiziale cioè. Vi sarà chi – avendo più coraggio, persino più fede nel senso costituzionale del diritto penale – potrà giudicare questa riflessione come una diserzione: prevenendo l’obiezione, è bene chiarire che riconoscere il senso comune non significa adeguarsi acriticamente a esso, non significa abbandonare il cammino dell’incivilimento che passa attraverso la via stretta della persuasione sociale. È piuttosto vero il contrario. Riconoscere il senso comune, misurarne adeguatamente l’estensione e persino l’utilità, è il primo passo da compiere lungo quel necessario cammino.
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