E’ già iniziata, e si protrarrà fino al 30 settembre, la raccolta delle 500 mila firme necessarie ad indire – stante l’art. 75 cost. – il referendum sull’eutanasia legale, promosso dall’associazione Luca Coscioni. Il quesito referendario segnala chiaramente la portata parzialmente abrogativa dell’art. 579 c.p., rubricato “Omicidio del consenziente” e, di fatto, incriminante l’eutanasia attiva. Come già suggerisce il disallineamento nominale tra la rubrica della norma e la scelta di fine vita in questione, l’estensione semantica della prima comprende e supera la seconda, che, nei Lavori preparatori del codice penale del 1930, con altre parole venne appunto definita «la troppo angusta categoria delle uccisioni pietose».
1.L’eutanasia attiva
L’eutanasia attiva consiste in un trattamento – scelto da un soggetto malato, sulla base del suo consenso qualificato e di determinate condizioni cliniche accertate – intenzionalmente volto a causare direttamente «l’uccisione indolore di persona affetta da malattia incurabile, allorché la morte sia incombente o imminente e i mezzi antidolorifici risultino impotenti ad attenuare l’intollerabilità o la tormentosità delle sofferenze fisiche; l’uccisione indolore per troncare le sofferenze di persona colpita da malattia mortale o anche soltanto inguaribile, pur non presentandosi la morte a breve scadenza». L’obiettivo di attenuare o eliminare al massimo le sofferenze del paziente, quindi, viene mediato dalla deliberata e consensuale abbreviazione della vita del sofferente, determinata, in via diretta, dall’intervento medico. In Italia, è una pratica criminalizzata. Appartiene al più ampio ventaglio delle scelte (terapeutiche) di fine vita, di cui, secondo la tassonomia tradizionale, anche: l’eutanasia passiva (riconosciuta, attraverso il diritto al rifiuto informato alle cure anche salvavita, sancito dalla L. n. 219/2917); il suicidio medicalmente assistito (criminalizzato dall’art. 580 c.p., anche se, con la sentenza 242/2019, la Corte costituzionale ha ricavato un margine di liceità al suo interno). In breve, delle due, la prima consiste nell’astensione del medico dall’iniziare o continuare una terapia, così lasciando che la malattia compia il suo decorso fatale; la seconda, invece, nell’azione personale dello stesso malto di procurarsi la morte, aiutato dal sostegno decisivo ma ancillare di un soggetto terzo (il medico prescrive e porge il prodotto letale).
2.L’art. 579 c.p.
L’art. 579 c.p. difetta scientemente di una qualsiasi menzione allo stato di malattia della vittima o al movente dell’autore del fatto. Il comma 1 recita: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni». Pertanto, in disaccordo con la normale capacità scriminante del consenso dell’avente diritto – causa di giustificazione all’art. 50 c.p., sempre che lo stesso possa validamente disporre del diritto leso o posto in pericolo –, l’art. 579 c.p. sanziona il consenso sia come elemento determinante la condotta illecita sia come degradante il reato, al quale viene dedicato un trattamento sanzionatorio (la reclusione da sei a quindici anni) ben più mite dell’omicidio comune ex art. 575 c.p. (reclusione non inferiore ad anni ventuno). La ratio benevolentiae del Legislatore del 1930 prospera nell’accordato minor disvalore complessivo del fatto, a fronte dell’attenuazione tanto della riprovevolezza dell’autore quanto della correlata gravità del delitto, offensivo sì del bene vita, ma non anche – grazie proprio al consenso – della libera volontà della vittima. Per lo stesso ordine di motivi, al comma 3, l’articolo prevede l’applicazione del più grave regime sanzionatorio dell’omicidio comune in una serie di casi distinti, al contrario, da vizi genetici del consenso («contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno») o da presunzioni d’invalidità dello stesso, quando proveniente da una persona che si ha motivo di ritenere non in grado di assumere la decisione in modo pienamente libero e responsabile («contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti»).
3.Il principio d’indisponibilità della vita
La sopracitata mitezza, tuttavia, non estingue il risultato finale, ovverosia la sotterranea dichiarazione del principio d’indisponibilità della vita; indisponibilità che, però, a livello ordinamentale, non può ritenersi totale, a fronte della considerazione che il diverso fenomeno del suicidio stricto sensu è qualificabile come un mero fatto, se non lecito, almeno tollerato, in quanto sostanzialmente ricompreso all’interno di uno spazio di cosiddetta “neutralità debole” tendenzialmente libero dal diritto. Il principio predetto, tuttavia, per essere compreso, necessita di essere succintamente letto in virtù della sua risalenza all’ideologia fascista; un’operazione ben lungi dallo stigmatizzare la valutazione del suo merito, ma necessaria all’esame della sua intimità giustificativa e teleologica, termine di paragone indefettibile per identificare le durezze differenziali che, al contrario, oggi vivificano il nostro ordinamento. Assumendo che la conservazione dell’integrità fisica dei cittadini rispondesse a un «prevalente interesse sociale», la norma in questione ipostatizzava, come sottolinea Veronica Rossetto, richiamandosi alla Relazione Ministeriale al Progetto di codice penale del 1930, «la visione autoritaria e paternalistica dello Stato fascista, che pretendeva di sostituirsi ai singoli anche nelle decisioni più private, per salvaguardare un ordine superiore a cui tutti erano chiamati a contribuire in modo totalizzante». In questo modo, un delitto contro la persona, come sarebbe dovuto essere il suddetto, doveva in realtà intimamente considerarsi un delitto volto a tutelare l’interesse statale alla potenza demografica della Nazione. L’omicidio del consenziente, in conclusione, intendeva colpire «un bene che è nella persona, ma non è più della persona». L’uomo veniva degradato a mero oggetto materiale del reato, e il soggetto passivo del reato non era l’individuo, ma lo Stato.
4.L’art. 579 c.p. riscritto dalla vittoria referendaria
Per questo, come scrive Tullio Padovani, «eliminando le parole che la proposta di referendum si propone di abrogare, l’art. 579, c.p. ruota agli antipodi», secondo un movimento che potrebbe dirsi suscitato, prima, dal principio personalistico che innerva il tessuto ideologico e valoriale della Carta costituzionale – entrata in vigore nel 1948 –, la quale, contrapponendosi alla concezione utilitaristica dei beni della persona, considera l’uomo un fine in sé e preclude ogni sua strumentalizzazione per ragioni collettivistiche; poi, dalla L. n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che ha sancito espressamente l’autodeterminazione terapeutica del malato all’interno del rapporto di alleanza paziente-medico (secondo un ordine terminologico per niente ingenuo, ad evidenziare sia l’antecedenza del paziente rispetto al medico sia la non esclusione, e la correlata collaborazione, di quest’ultimo). Pertanto, l’articolo “riscritto” che verrebbe restituito in caso di vittoria referendaria testimonierebbe quel principio di disponibilità della vita che, benché ora strozzato, risuonerebbe senza stonature negli angoli dell’ordinamento appena citati. Non può tacersi, però, l’urgenza di una legge – a quel punto improcrastinabile per il Parlamento – destinata a coordinare i risultati referendari con una proceduralizzazione dell’eutanasia legale nell’ambito dell’alleanza terapeutica paziente-medico, in maniera tale da restringere il campo di condotte che, sulla base della sola abrogazione, resterebbero altrimenti scusse di un’adeguata tutela penale.
Così, la disposizione “novellata”:
«Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso: Contro una persona minore degli anni diciotto; Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613 2]»
In questo modo, la persistenza dell’articolo varrebbe a marcare sia la particolare difesa di soggetti più deboli sia, a contrario sensu, la normalità per cui, quando validamente prestato al di fuori dei casi vietati, come istruisce il già citato art. 50 c.p., il consenso dell’avente diritto elide l’antigiuridicità del fatto.
5.Legge sul fine vita
Da luglio 2019, il Parlamento ha interrotto la discussione sul fine vita, non riallacciandola nemmeno dopo la sentenza della Corte costituzionale (242/2019) che ha parzialmente aperto al suicidio medicalmente assistito. L’ordinamento italiano ancora oggi langue per l’assenza di una chiara disciplina sul fine vita, tale da garantire il principio dell’autodeterminazione in una fase non ancora squalificata dalla propria esistenza, attraverso il riconoscimento di un diritto chiaro, sancito e regolato entro termini legali e nelle sue varie declinazioni fenomeniche. Per questo, proposte come quella in discussione, benché mirata specificamente all’eutanasia attiva, si candidano ad una proiezione più ampia: la progressione verso una vita non più soltanto «bene nella persona», ma anche «della persona».
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