La cronaca giudiziaria che diventa intrattenimento, dedicando la propria attenzione pressoché esclusivamente ai rappresentanti della pubblica accusa, è un connubio penoso ma ormai assai rodato e funzionante. Il film “YARA” rappresenta soltanto l’ultimo episodio di una lunga serie di questo genere. Forse anche per questo l’ultimo film di Tullio Giordana occupa una posizione nella top 10 di Netflix: al primo posto in Italia, al secondo in Spagna, al terzo in Francia, al sesto in USA e Gran Bretagna.


Il film si riferisce alla vicenda giudiziaria di Yara Gambirasio, la ragazzina uccisa a Brembate di Sopra nel 2010, con la pretesa di raccontare l’indagine che ha portato a trovare il profilo genetico del presunto assassino, prima, e l’analisi a tappeto con l’individuazione di Massimo Bossetti quale indagato, poi. Un caso, dunque, mediatico in Italia ma sconosciuto al resto del mondo, che solo attraverso una piattaforma digitale ha avuto la possibilità di rendersi fruibile al di là dei nostri confini. Non entro nel merito della validità del prodotto-film, anche se, a mio gusto, non suscita alcuna emozione o empatia nei confronti di nessuno dei personaggi che si alternano a vario titolo nella storia. Esso appare, al più, un freddo racconto che, oltre ad alcuni riferimenti al sessismo sui posti di lavoro e ai contrasti tra politica e magistratura, risulta del tutto banale nei dialoghi e nelle scelte narrative. Si potrebbe definire quasi un articolo di “servizio”. Non discuto neanche la scelta di concentrarsi solo ed esclusivamente sulla figura del pubblico ministero ignorando completamente il resto, perché evidentemente non si può sindacare la valutazione artistica degli autori, che però avrebbero fatto meglio a dedicare il film all’inquirente, e non alla vittima. Discuto tuttavia, ed anche a gamba tesa, come e perché un tale film possa essere proposto in questo modo all’opinione pubblica, soprattutto a quella italiana, che ha seguito il destino della povera Yara e del Bossetti, narrato in tutte le salse possibili e immaginabili da 10 anni a questa parte attraverso gli organi d’informazione. Ma facciamo un piccolo passo indietro.

Il rapimento della tredicenne, avvenuto la sera del 26 novembre 2010, di ritorno dal centro sportivo dove era solita allenarsi, divenne immediatamente l’argomento principale di tutti i programmi di approfondimento – e non solo – di qualsiasi canale televisivo. Le prime indagini portarono all’arresto quasi spettacolare di Mohammed Fikri, operaio marocchino di 22 anni che lavorava in un cantiere edile a Mapello, luogo in cui le unità cinofile avevano rilevato le ultime tracce di Yara. Il giovane operaio, però, si dimostrò quasi immediatamente estraneo ai fatti e l’autorità giudiziaria continuò a brancolare nel buio; finché, purtroppo, il 26 febbraio 2011, la Gambirasio venne rinvenuta cadavere in un campo di Chignolo d’Isola. Subito dopo il ritrovamento del corpo, quasi mummificato, gli inquirenti repertarono tracce di sangue sui leggins e sugli slip di Yara, appartenenti ad un’altra persona. Tale profilo di DNA venne denominato “Ignoto 1” e fu la base di una campagna di prelievi – molto dispendiosa e mai verificatasi prima – di campioni genetici tra la popolazione di Brembate di Sopra per identificare il sospetto. Sarà questa campagna a portare all’arresto di Massimo Bossetti, muratore di 45 anni, condannato oggi definitivamente per omicidio pluriaggravato pur continuando a dichiararsi innocente. Il film in questione, dunque, pur avendo la possibilità di raccontare un fatto di notevole interesse investigativo e pur trattando di una vicenda che, sebbene definita dal punto di vista processuale, lascia spazio a numerosi interrogativi nel suo evolversi, decide (per pregiudizio, per limitata conoscenza della macchina processuale o non saprei) di adottare la lettura perniciosa dei fatti e di riportare sullo schermo esclusivamente le chiacchiere da bar e le inchieste giornalistiche già note, escludendo completamente il dramma umano vissuto da tutti i protagonisti. Non c’è traccia e non emerge nulla rispetto all’effetto che quell’indagine genetica senza precedenti, portata avanti dalla procura, ha generato all’epoca nel mondo giuridico, né dell’iter processuale, né delle questioni sollevate dalla difesa dell’imputato, nonostante il regista sostenga di aver consultato gli atti. Anzi, quello che più lascia l’amaro in bocca è che la funzione difensiva appare relegata quasi al ruolo di macchietta, se non a semplice comparsa; tanto che, dopo la requisitoria del PM – che sembra una pedissequa lettura del capo di imputazione, priva di alcuna enfasi –, si assiste direttamente all’entrata in aula della Corte per leggere il dispositivo di condanna. Col risultato (pessimo) non solo di oscurare completamente un contraddittorio – potenzialmente avvincente, quanto meno per lo spettatore –, ma di censurare del tutto i dubbi insinuati dagli avvocati di Bossetti alla ricostruzione del PM. Lo si ribadisce, nel rispetto dell’idea del regista di incentrare la storia esclusivamente sul pubblico ministero che ha seguito l’indagine: una ricostruzione più aderente alla realtà non avrebbe impedito al film di ottenere lo stesso risultato, senza nondimeno apparire uno stucchevole elogio alla funzione “gloriosa” del pubblico ministero e dileggiare la difesa non solo di Bossetti, ma di qualunque imputato in un processo penale.

Forse è per questo che molti passaggi significativi delle indagini non sono stati mai affrontati, come ad esempio il fatto che il 2 aprile del 2011, una volta estrapolato il DNA dai vestiti della vittima, è stato isolato il campione di Silvia Brena, l’istruttrice di palestra che avrebbe visto Yara nel giorno della scomparsa. Ed ancora, è probabilmente per tale ragione che i genitori della vittima non sono mai stati contattati, né dalla produzione né dal regista. Stessa sorte è toccata ovviamente ai difensori dell’imputato, zittiti in merito alla possibile mancanza di analisi sul DNA mitocondriale, che indica se una donna è madre biologica di un individuo e ha ricondotto alla famiglia Bossetti. Per non parlare degli errori e delle false informazioni che emergono dalla fiction, secondo cui sarebbe possibile stabilire l’esatta posizione di un telefono cellulare, ed addirittura la via precisa, soltanto considerando le celle telefoniche; peraltro, in questo caso, la via porta a niente meno che il cognome della PM, quasi a voler sottolineare una sorta di predestinazione nell’assegnazione e nella risoluzione del caso. Una tale precisione non è possibile nemmeno oggi, figuriamoci dieci anni fa; le tecnologie attuali, infatti, ci consentono di identificare esclusivamente una zona, attraverso la triangolazione fra più ripetitori. Pertanto, il film sull’omicidio di Yara Gambirasio non solo non offre una visione reale e completa di come Bossetti sia arrivato a processo e poi ad essere condannato, ma, al di là del merito della specifica vicenda, rappresenta l’ennesima fiction che propaganda meramente il punto di vista della procura, senza nessun accenno alla devastazione emotiva che un’indagine di questo tipo ha causato alla famiglia di Yara o alla famiglia dell’imputato, che addirittura ha scoperto in quell’occasione la vera paternità del Bossetti. Neanche un accenno al fatto che la raccolta a fini investigativi e la conservazione dei profili genetici non è un’azione “eroica”, ma pone delicati problemi di compatibilità delle esigenze investigative con il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Il risultato è quello di accrescere nell’opinione pubblica l’idea terribile (e purtroppo ormai diffusa) che la giustizia sia perseguita esclusivamente con angoscia e dai “buoni”, gli inquirenti, ostacolati dai “cattivi”, gli avvocati, che, presidiando la tutela dei diritti, minacciano l’accertamento della loro “verità”.