Nelle ultime settimane, tra le “top Netflix” spicca certamente “For Life”, ispirata ad una vicenda legale che negli anni ‘90 ha scosso il sistema giudiziario americano: quella di Isaac Wright Jr. La vera storia del protagonista, che si discosta in parte da quanto si vede sullo schermo, è quella di un uomo condannato all’ergastolo poiché ritenuto la mente criminale di una delle più grandi reti di distribuzione di droga tra gli Stati di New York e New Jersey.
La vicenda iniziò a destare l’attenzione dei media nel momento in cui l’uomo, dopo aver intrapreso gli studi come assistente legale durante la detenzione, incominciò ad assistere molti dei suoi compagni di reclusione, ottenendo il ribaltamento di ben venti condanne, ad evidenza dei difetti del sistema giudiziario americano che troppo spesso emetteva decisioni viziate dalla discriminazione razziale. Nel 1996, Wright e il suo avvocato riuscirono a vedere accolta una mozione per la revisione del processo, grazie alla quale ribaltarono la prima decisione, dimostrando così l’illegittimità della condanna. In particolare, provarono che l’allora procuratore della contea, Nicholas Bissell, e i suoi investigatori avevano effettuato impropriamente dei sequestri e fatto pressioni su tre imputati, veicolando le loro testimonianze in cambio di sentenze più leggere. Nicholas Bissell venne successivamente condannato per una serie di accuse di corruzione e la vicenda si concluse drammaticamente con il suicidio del Procuratore. Dopo il rilascio, Isaac Wright Jr. continuò a studiare e, divenuto avvocato nello Stato del New Jersey (2008), iniziò a prestare la sua assistenza legale a clienti ritenuti vittime di ingiusto processo, rendendo dunque la sua storia un esempio di forza e speranza fuori e dentro il carcere. Nella serie TV vediamo, invece, Aaron Wallace, benestante, proprietario di una discoteca e padre di famiglia, che nel momento più felice della sua vita viene ingiustamente accusato di spaccio di droga e poi condannato, a seguito di un’operazione di polizia piena di zone d’ombra e guidata dal procuratore Maskins. Durante la detenzione, dopo aver rifiutato il patteggiamento, il protagonista decide di combattere per la sua innocenza dedicandosi allo studio e riuscendo ad ottenere anche la licenza per esercitare la professione di avvocato da dentro il penitenziario. Aiutato da un senatore e dalla direttrice progressista del carcere, Wallace affronta ostacoli e soprusi di ogni tipo pur di ottenere giustizia per sé e per i suoi clienti, fino al suo riscatto personale. I punti di contatto con la vera storia processuale di Isaac Wright Jr. sono evidenti; ma, al di là di quanto vi sia di strettamente connesso alla vicenda reale, quello che più viene messo in luce è il dramma di un uomo come tanti che viene risucchiato improvvisamente dalla macchina deviata di una parte della giustizia. La vita di Wright-Wallace potrebbe essere, così, angosciosamente e tutto ad un tratto, la vita di chiunque e a qualsiasi latitudine. Del resto, già solo fermandoci a leggere i numeri delle ingiuste detenzioni in Italia, è così già per molti.
Se è vero, certamente, che non tutti gli uffici giudiziari sono corrotti come quello del procuratore Bissel-Maskins il quale, pur di fare carriera e vincere le elezioni in accordo con alcuni appartenenti alle forze dell’ordine, incastrava cittadini americani neri o ispanici, è altrettanto assodato che di sentenze emesse tenendo conto di interessi avulsi da quelli che dovrebbero muovere un magistrato nel decidere della libertà altrui ne abbiamo a iosa anche nel nostro sistema penale. Senza contare le ingiuste detenzioni prodotte dalla superficialità, dall’incapacità e dall’incuria di chi continua a mantenere comunque l’esenzione da ogni responsabilità professionale a fronte dei propri errori. Del resto, molte delle importanti tematiche dell’attuale dibattito politico americano e presenti nella serie, come quelle della discriminazione razziale e sessuale, non mancano neanche nel nostro Paese. È altrettanto d’impatto la fotografia convincente e assolutamente verosimile della vita carceraria all’interno dei penitenziari; americani, sì, ma che ben fanno riflettere sulle anomalie ravvisate anche negli istituti nostrani, dove, seppur non si annienta formalmente l’uomo, al quale è consentito di mantenere una propria individualità e dignità – quantomeno evitandogli di indossare un’asettica tuta arancione numerata –, non si può affermare che lo si guidi effettivamente verso la rieducazione, al fine di reinserirlo adeguatamente nella società una volta libero. Né può negarsi che, a parte poche “felici” realtà nelle quali, grazie alla lungimiranza di direttori, educatori, volontari e personale di Polizia Penitenziaria, si sono create strutture all’avanguardia in cui i ristretti riescono a sviluppare le loro potenzialità e a scontare la propria pena secondo giustizia, sono ancora troppe quelle in cui la popolazione carceraria sopravvive grazie ad espedienti non poi così diversi da quelli visti in TV.
Ed ecco che il penitenziario di Bellmore diventa, in un attimo, il carcere di Santa Maria Capua Vetere, così come (potenzialmente) qualunque istituto in cui la mancanza di strumenti culturali ed economici, insieme con la scomparsa di qualunque punto di riferimento o principio in chi è lì per mantenere l’ordine, conducono, giorno dopo giorno, alla perdita di dignità del condannato e, peggio ancora, di chi è in eterna attesa di giudizio. Una realtà sospesa e spesso inaccessibile, che si trasforma in un vortice che continua a girare ossessivamente allo stesso modo, fino alla inevitabile esplosione violenta, in cui non s’intravedono più i confini tra chi è lì per scontare una pena, sulla carta “rieducativa”, e chi è sopraffatto da un lavoro logorante pur dovendo rappresentare la legge. «È colpa nostra. So cosa diranno tutti, diranno che ce la siamo cercata, che siamo delle bestie, che è per questo che siamo dietro le sbarre», pensa Wallace nel suo momento di massimo sconforto, parlando con sé stesso. E forse è il pensiero di qualsiasi uomo rinchiuso, a torto o a ragione, dopo aver trascorso parte della propria vita privata della libertà, senza altro scopo se non quello di appagare il pensiero di chi nel carcere intravede solo un malsano e sadico strumento punitivo. Serie TV come questa potrebbero essere, forse, un’occasione per riflettere senza pregiudizi anche su chi, dopo aver fatto i conti con le proprie responsabilità, deve conservare il diritto a non aver paura di uscire, a non temere quello che troverà fuori o gli sguardi della gente. Così come potrebbe essere una opportunità, seppur piccola e senza troppe pretese, di considerare che, se si ha la presunzione di ritenersi moralmente ed eticamente infallibili, non ci si dovrebbe preoccupare che il garantire una vita dignitosa in carcere, anche al peggiore dei criminali, rappresenti un pericolo per la società. Perché è esattamente il contrario.
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