“[…] il potere dell’autorità giudiziaria di «censurare» la corrispondenza, i libri, le riviste e  qualunque contenuto informativo, sussiste solo qualora sia ravvisabile un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblici; il diritto all’informazione, allo studio, alla cultura deve essere mantenuto nella sua massima espansione costituzionale, a meno che, ai sensi dell’articolo 18-ter dell’ordinamento penitenziario, sia possibile individuare nel contenuto informativo elementi di sospetto in ordine alla veicolazione di messaggi potenzialmente criminali”.

Il 26 gennaio 2021, il deputato Roberto Giachetti ha rivolto queste parole all’ormai ex ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, nel corso di un’interrogazione parlamentare relativa ad una vicenda poco chiara ma senz’altro meritevole di attenzione. L’on. Giachetti ha raccontato di aver ricevuto una lettera da parte di un detenuto sottoposto a regime speciale di detenzione [1] presso la casa circondariale di Viterbo, raccontando di non aver potuto ricevere due libri di cui aveva richiesto l’acquisto; in particolare, si sarebbe trattato di “Un’altra storia inizia qui” di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, e “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” di Luigi Manconi e Federica Graziani. Dopo aver espresso parere negativo in ordine a tale richiesta, la direzione dell’istituto penitenziario si sarebbe rivolta all’autorità giudiziaria, che avrebbe anch’essa rigettato l’istanza.  Le motivazioni dei provvedimenti – secondo quanto riportato dal deputato in Parlamento – sarebbero state le seguenti: per quanto riguarda il libro della Cartabia e di Ceretti, il possesso di questo “determinerebbe una posizione di privilegio rispetto agli altri detenuti” (nello stesso senso anche il parere negativo del PM, secondo il quale “il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti e aumenterebbe il carisma criminale”); quanto al secondo libro, “la sottoposizione al regime del 41-bis comporta la sospensione alle regole di trattamento degli istituti, specificatamente indicate al comma 2-quater della suddetta disposizione; considerato che la direzione della casa circondariale di Viterbo ha evidenziato la non opportunità dell’autorizzazione all’acquisto del libro indicato, con motivazione alla quale si aderisce integralmente”. In considerazione dei fatti emersi e della ravvisata censura arbitraria deducibile dalla vicenda, Giachetti domandava al Ministro della giustizia l’adozione di interventi di chiarimento normativo anche al fine di scongiurare interpretazioni arbitrarie capaci di ledere il diritto all’informazione dei detenuti. La vicenda riapre un dibattito che si credeva ormai sopito in seguito al pronunciamento della Corte Costituzionale del 2017 (sent. n.122 dell’8 febbraio 2017), che, nel dichiarare infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c) della legge 26 luglio 1975, n. 354 rispetto agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117 co. 1 Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, aveva effettuato un’importante operazione di chiarificazione interpretativa delle norme interessate. In realtà, la sentenza della Corte costituzionale in discorso si colloca “a chiusura” di un’accesa querelle giurisprudenziale che aveva coinvolto anche la Corte di legittimità, e che era incentrata sulle (frequenti) disapplicazioni – operate dai tribunali di sorveglianza – della circolare n. 8845/2011 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Quest’ultima circolare, la cui emissione si era resa necessaria a seguito dell’accertata introduzione, all’interno delle carceri, di materiale stampato contenente messaggi criptati e idonei a rappresentare uno strumento di comunicazione del detenuto con l’esterno, stabiliva il divieto di ricevere dal di fuori e di spedire libri e riviste, anche a causa delle difficoltà riscontrate in fase di controllo nell’individuare, tra la corrispondenza, queste forme di elusione dei divieti. Il contenuto appena esplicitato (poi ribadito e confermato anche dalla circolare D.a.p. n. 3701 dell’11 febbraio 2014 [2]) disponeva anche che i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione potessero acquistare libri e riviste solo per il tramite dell’amministrazione penitenziaria, oltreché disporre di un numero limitato di testi in cella, al fine di prevenirne un accumulo, potenzialmente d’ostacolo alla perquisizione della stessa [3]. In seguito agli esposti dei detenuti e alle plurime disapplicazioni di tali divieti da parte dei magistrati di sorveglianza, è più volte intervenuta la Corte di Cassazione, affermando la legittimità del provvedimento dell’amministrazione penitenziaria che, attraverso la circolare D.a.p. sopra richiamata, non avrebbe che attuato i principi fissati dall’art. 41-bis ord. pen. [4]. In ogni caso, le limitazioni introdotte dal Ministero non farebbero che sottoporre ad un controllo più rigoroso i libri e le stampe di cui il detenuto usufruisce, a causa del rischio che lo scambio di tali oggetti con familiari o soggetti esterni al carcere rappresenti un mezzo di comunicazione con l’esterno, proprio perché idonei a contenere messaggi criptici. Tuttavia, come si diceva, l’art. 41-bis comma 2-quater, lettere a) e c) ord. pen., è stato sottoposto al vaglio della Consulta nella parte in cui, secondo il diritto vivente, legittima l’amministrazione penitenziaria a vietare la ricezione dall’esterno di libri e riviste stampa per scongiurare comunicazioni tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza. La fattispecie che ha occupato il giudice a quo ha riguardato un detenuto a regime differenziato presso la casa circondariale di Terni, il quale ha opposto, a distanza di tempo, più di un reclamo avverso la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che limitava la fruizione della stampa per i detenuti, ex art. 41-bis, in ragione delle restrizioni insite in detto regime di detenzione. Una prima volta nel 2012, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto aveva accolto il reclamo e disapplicato la circolare ministeriale, sostenendo che controlli e limitazioni dei testi entranti all’interno della struttura carceraria spettassero esclusivamente all’autorità giudiziaria. 

È poi intervenuta una pronuncia della Cassazione che ha affermato, invece, la legittimità delle previsioni della circolare D.a.p. del 2011, a cui è conseguita la riconferma delle dibattute previsioni nella (già menzionata) circolare n. 3701/2014. Pertanto, il detenuto del carcere di Terni – che aveva richiesto libri e riviste provenienti dalla famiglia tramite corrispondenza o in occasione dei colloqui – ha opposto nuovamente reclamo sostenendo ancora come le limitazioni previste da tali circolari fossero lesive dei diritti fondamentali all’informazione e alla corrispondenza del detenuto. La Corte costituzionale ha chiarito come la garanzia costituzionale prevista dall’art. 21 Cost. non solo non venga in alcun modo lesa dalla previsione di cui all’art. 18 ord. pen., ma trovi attuazione proprio in questa norma che autorizza i detenuti ad avere quotidiani, periodici e libri in libera vendita all’esterno, ed anche nell’art. 18-ter ord. pen., secondo il quale soltanto l’autorità giudiziaria – e non l’autorità amministrativa – può imporre limitazioni nella ricezione della stampa. Il detenuto è libero di scegliere i testi con cui informarsi ed è preclusa all’autorità amministrativa la possibilità di censurare la stampa e di impedire ai detenuti di accedere a determinate pubblicazioni in ragione del loro contenuto. Come anche ricordato da Giachetti nel corso della sua interrogazione parlamentare al Ministro della giustizia, le misure volte al controllo dei testi di cui i detenuti usufruiscono incidono non sul loro diritto di possedere, all’interno della struttura carceraria, le pubblicazioni da loro scelte, ma esclusivamente sulla modalità attraverso cui possono venirne in possesso. Certo è che se il detenuto è costretto a rivolgersi all’amministrazione dell’istituto penitenziario per ottenere riviste, libri e qualsiasi altra pubblicazione, deve ritenersi assunto, da parte dell’amministrazione, l’obbligo di garantire l’efficienza del servizio in modo da non ostacolare l’esercizio del fondamentale diritto del detenuto di potersi informare. La Consulta, richiamando una precedente pronuncia della Corte di legittimità [5], ha affermato che “l’eventuale vulnus dei diritti del detenuto deriverebbe, comunque sia, non dalla norma, ma dal non corretto comportamento dell’amministrazione penitenziaria chiamata ad applicarla, esulando perciò dalla prospettiva del sindacato di legittimità costituzionale”. Ed è proprio su questo punto che il deputato ha voluto porre l’attenzione. È inevitabile che il regime di detenzione incida (seppur indirettamente) sulle modalità di esercizio di diritti inviolabili della persona, ma questi non possono essere annullati. Il detenuto porta con sé il bagaglio dei diritti inviolabili dell’uomo durante tutto il corso dell’esecuzione della condanna. Egli conserva un preziosissimo residuo di libertà personale che, anche ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 26/1999, non è assoggettabile all’autorità amministrativa competente all’esecuzione della pena. I contenuti del pronunciamento della Corte costituzionale n. 26 del 1999 sono stati richiamati anche dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, che, nell’ottobre 2020, ha accolto il reclamo proposto da un detenuto al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. presso il carcere di Rebibbia. La vicenda, seppur poco conferente con i temi del diritto alla libera informazione dei detenuti, permette di cogliere – ancora una volta – l’incidenza delle modalità previste dalla legge per accedere a strumenti utili all’esercizio dei diritti fondamentali e alla tutela di interessi irrinunciabili per il detenuto, quali, ad esempio, il diritto all’affettività. Nel caso di specie, il detenuto aveva proposto reclamo contro il diniego del magistrato di sorveglianza (e ancora prima della direzione dell’istituto penitenziario) alla propria richiesta di poter acquistare riviste per adulti. Il diniego era stato motivato sulla rilevata sussistenza di un mero interesse e non di un diritto alla visione delle immagini, quindi del rischio relativo alla possibilità di comunicare messaggi criptici attraverso tali riviste. Il Tribunale, nel discostarsi dalla motivazione del primo giudice, ha richiamato la tassatività delle restrizioni e limitazioni che compongono il trattamento differenziato riservato ai detenuti portatori di pericolosità qualificata. Ha inoltre affermato il diritto del detenuto di disporre liberamente della propria sessualità, posizione soggettiva direttamente tutelata dalla Costituzione e che merita di essere garantita ai sensi dell’art. 2 della stessa. Il Tribunale ha contestato la legittimità del rifiuto opposto alla richiesta del detenuto facendo leva sulla insussistenza di un nesso logico e teleologico tra il diritto alla sessualità, tutelabile ai sensi dell’art. 35-bis, lett. b), ord. pen. e definibile anche come forma di espressione della persona umana, e la finalità di tutela dell’ordine e della sicurezza sottese all’art. 41-bis ord. pen.. La motivazione del provvedimento di accoglimento del ricorso ha evidenziato un aspetto molto importante: nonostante la richiesta avanzata dal detenuto sostanzialmente non possa fondarsi sulla tutela del diritto all’informazione, è necessario comunque prendere in considerazione la questione relativa alla tutela dell’affettività in carcere e all’imprescindibile riconoscimento del diritto al rispetto della vita privata, anche per i detenuti sottoposti a regime speciale di detenzione, sebbene nei limiti imposti dalla legge. La questione non si è ancora conclusa: l’amministrazione carceraria ha, infatti, proposto ricorso dinanzi la Suprema Corte avverso l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma, che aveva disposto di procedersi alla sottoscrizione, a spese del detenuto, di un abbonamento ad una rivista per adulti da sottoporre comunque a visto di controllo prima della consegna all’interessato. Ancora una volta, è rimessa alla Corte di legittimità la valutazione relativa all’opportunità del contemperamento tra l’esigenza di tutelare i diritti fondamentali dei detenuti sottoposti a regime differenziato di detenzione, su cui l’esecuzione della pena non deve e non può incidere, e la finalità preventiva e di sicurezza pubblica del regime detentivo. In generale, il bilanciamento sotteso alle questioni trattate ha ad oggetto, da una parte, l’interesse a che le limitazioni proprie del regime di detenzione differenziato siano effettivamente rispettate (pena l’inefficacia delle finalità di prevenzione generale e speciale sottese a questa particolare forma di detenzione) e, dall’altra, la necessità che non si incida eccessivamente sulle modalità di esercizio dei diritti fondamentali della persona da parte dei detenuti. 


[1] È un regime di detenzione carceraria che mira a far fronte a situazioni d’emergenza, ad esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza esterne al carcere impedendo che i detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali di tipo mafioso, terroristico o eversivo mantengano contatti con i componenti delle organizzazioni di appartenenza. 
[2] La circolare Dap n. 3676 del 2017 prevede, all’art. 11, comma 6, il divieto per il detenuto di ricevere libri e riviste dall’esterno e esplicitamente chiarisce che le finalità preventive del regime di cui all’art. 41-bis non limitano in alcun modo il diritto del detenuto all’informazione e allo studio.
[3] Nel 2014, l’ex senatore Dell’Utri, all’epoca detenuto in regime di alta sicurezza presso il carcere di Parma, ha minacciato di ricorrere allo sciopero della fame per protesta contro il regolamento dell’istituto penitenziario che gli impediva di conservare in cella più di due libri.  
[4] Cass. n. 41760/2014
[5] Cass. n. 6889/2015