I dati ISTAT del 2017 ci consegnano un quadro che non si presta ad interpretazioni alternative: su circa 6.500 procedimenti aperti, le sentenze irrevocabili di condanna per abuso d’ufficio sono state soltanto 57. La tendenza è confermata dai dati del Ministero della Giustizia, secondo cui dei 7.133 procedimenti definiti nel 2018 dagli uffici Gip /Gup, 6.142 sono stati archiviati (373 per prescrizione). Alla luce di queste statistiche ma non solo- una riflessione (e un intervento) sull’art. 323 del codice penale non è più rimandabile: sarà sufficiente una riforma della fattispecie o sarà invece necessaria l’abrogazione?

Le travagliate vicende concernenti il delitto di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. s’ inseriscono nel quadro di complessiva inadeguatezza della legislazione penale degli ultimi anni. La necessità di modificare spasmodicamente l’impianto normativo, infatti, riemerge ciclicamente – o meglio, sistematicamente – ad ogni inversione di rotta politica, dando vita ad una sorta di lottizzazione del diritto penale. All’incessante bisogno di riforma s’ affiancano le costanti operazioni di chirurgia interpretativa della giurisprudenza, orientata talvolta a supplire alle inadeguatezze sopra evidenziate, talaltra ad allargare le maglie applicative delle fattispecie di reato. Certamente, tra i settori maggiormente “lottizzati” da parte del legislatore di turno ed abusati dal punto di vista interpretativo v’è quello dei delitti contro la Pubblica Amministrazione. La tendenza ad inasprire il trattamento sanzionatorio, da un lato, e la volontà di perseguire ad ogni costo detta tipologia d’ illeciti, dall’altro, finiscono per generare effetti distorsivi che s’ infrangono, nella prassi applicativa, sulle fattispecie di reato e financo sui principi fondanti lo Stato di Diritto.[1] Una delle norme che maggiormente ha subito gli effetti distorsivi di cui si andava dicendo è proprio quella che prevede l’abuso d’ufficio. Le vicende modificative che hanno interessato il delitto in esame sono note ed oltremodo lunghe per essere ripercorse in questa sede [2]; basti accennare che tutti gli interventi riformatori – ad eccezione della modifica introdotta nel 2012 [3] – hanno condiviso il comune intento di delimitare l’operatività della norma all’interno di una tipicità mai compiuta. In verità, le modifiche apportate all’art. 323 c.p. con la legge n. 234 del 1997 mediante l’introduzione di plurimi elementi tipicizzanti parevano aver circoscritto, almeno in una fase iniziale, l’ambito applicativo del delitto de quo. Nell’attuale formulazione, infatti: 

  1. la condotta tipica si estrinseca mediante la violazione di “norme di legge o regolamento” ovvero di un dovere di astensione; 
  2. l’evento del reato è costituito dalla realizzazione di un danno ingiusto o di un vantaggio (patrimoniale) ingiusto;
  3. l’azione deve essere sorretta dal più alto coefficiente psicologico, il dolo intenzionale.

Dunque, la fattispecie astratta parrebbe ad oggi strutturata in maniera più selettiva ed in linea con quelle che erano le istanze riformiste dell’epoca, quando le ragioni di fondo miravano a limitare il controllo giudiziario alla sola attività vincolata della Pubblica Amministrazione, scongiurando la possibilità di ingerenza nell’attività discrezionale. [4] Nell’immediatezza della riforma, infatti, la Corte di Cassazione adottò un’ interpretazione aderente alla littera legis, che escludeva la configurabilità del delitto in questione ritenendolo realizzato solo in presenza di una specifica violazione di norma di legge o di regolamento. La formulazione previgente, dunque, consentiva al giudice penale di compiere “dirette incursioni in un ambito di discrezionalità amministrativa, che il legislatore ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato”[5 Tuttavia, come spesso accade, la fattispecie astratta deve essere osservata, in concreto, nella prassi applicativa, laddove con il mutare degli indirizzi interpretativi sono maturate le storture denunciate a più riprese dalla dottrina. Ed infatti, l’intervento riformatore del 1997 è stato in sostanza aggirato mediante il ricorso – da parte della giurisprudenza – all’art. 97 della Costituzione, elevato a norma di legge la cui violazione costituirebbe – di per sé – realizzazione della condotta tipica.[6] Seguendo l’interpretazione offerta dal giudice di legittimità, dunque, detta norma avrebbe portata immediatamente precettiva, svincolata dalla mediazione di una legge ordinaria volta ad attuare i principi costituzionali ivi sanciti. [7]

Si è giustamente osservato come, operando in tal senso, “la giurisprudenza più recente – animata dalla finalità di una più incisiva repressione degli abusi all’interno della p.a. – ha finito col riproporre un’interpretazione della norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio in tutto e per tutto analoga a quella corrente nel vigore della precedente formulazione”[8] Ora, appare evidente come detta operazione ermeneutica comporti una vera e propria commistione tra condotta del reato e bene giuridico tutelato dalla norma. In sostanza, il comportamento del pubblico funzionario che si discosti dai principi di buon andamento ed imparzialità – sebbene non si ponga in contrasto con specifiche disposizioni, come richiesto dalla fattispecie – sarebbe sussumibile nell’alveo dell’art. 323 c.p. per generica violazione dei menzionati principi. Manifesta, a parere di chi scrive, l’artificiosità di una simile ricostruzione, così come evidente la vanificazione di qualsiasi sforzo di delimitare l’operatività dell’abuso d’ufficio.

Resta da domandarsi, a questo punto, quale sia la reale utilità della norma così come interpretata e, soprattutto, se vi sia equilibrio nel rapporto costi/benefici derivante da una simile applicazione. Anzitutto, un dato è eloquente: v’è una forte sproporzione tra procedimenti iscritti per ipotesi di abuso d’ufficio e sentenze di condanna passate in giudicato. I dati ISTAT del 2017 ci consegnano un quadro che non si presta ad interpretazioni alternative: su circa 6.500 procedimenti aperti, le sentenze irrevocabili di condanna sono state soltanto 57. La tendenza è confermata dai dati del Ministero della Giustizia, secondo cui dei 7.133 procedimenti definiti nel 2018 dagli uffici Gip /Gup, 6.142 sono stati archiviati (373 per prescrizione). [9]. A ciò si aggiunga che la “spada di Damocle” dell’art. 323 c.p., costantemente pendente in capo ai pubblici funzionari, ha finito per generare – mutuando dall’ambito della responsabilità medica – il fenomeno della cd. “amministrazione difensiva”, ossia un atteggiamento iper-prudenziale dei pubblici dipendenti che si riverbera, irrimediabilmente, sulla speditezza del procedimento amministrativo ed in generale sul funzionamento della macchina pubblica. L’impressione è che l’ago della bilancia sia fortemente puntato verso la fase delle indagini, mentre sostanzialmente irrisorio resta il numero delle condanne. Gli effetti del massiccio utilizzo di questa norma, invece, sono sotto gli occhi di tutti e si riverberano sulla vita quotidiana dei consociati che debbono confrontarsi con le lungaggini degli uffici pubblici. Tutto ciò, con buona pace degli equilibri tra costi e benefici che la norma produce.

Last but not least, occorre evidenziare che le condotte qualificate come abuso d’ufficio si traducono, spesso, in fatti di modesta entità, dove il disvalore penale della condotta è talmente impercettibile da confondersi con la mera irregolarità amministrativa.[10]Ed allora ben venga il proposito espresso dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, di ridurre il rischio penale gravante in capo ai pubblici funzionari mediante la riforma del delitto di cui all’art. 323 c.p;[11] occorre comprendere, però, in quali termini.

Appare condivisibile quanto osservato, quasi provocatoriamente, da attenta dottrina, secondo cui: “potrebbe essere sufficiente non coltivare le notizie di reato più labili e incerte, limitare le indagini ai casi di condotta illegittima evidente sin dall’inizio e, soprattutto, recuperare quell’orientamento interpretativo – manifestatosi subito dopo la riforma del 1997 e poi abbandonato – che, in conformità alle indicazioni del legislatore, circoscriveva la punibilità ai soli casi in cui l’abuso nascesse dalla inosservanza di precise disposizioni legislative o regolamentari disciplinanti l’assetto sostanziale degli interessi in gioco” .[12]Tuttavia, il recupero del principio di sussidiarietà ed extrema ratio del diritto penale appare di ben lontana realizzazione se si tiene conto della recente prassi giudiziaria, specie inquirente.

Avrebbe senso, dunque, una nuova riscrittura?

Resta pur sempre il pericolo che l’aggiunta di ulteriori specificazioni ad una norma già dettagliatamente formulata possa essere vanificata, di poi, per il tramite di una nuova lettura estensiva da parte della Magistratura. Stando così le cose, l’unica via percorribile volta ad eliminare definitivamente le problematiche sopra evidenziate parrebbe essere – ad opinione di chi scrive – l’abrogazione dell’art. 323 c.p. Ed infatti, osservando il fenomeno da un’ angolazione meramente tecnica, ci si accorge che il vuoto di tutela conseguente all’eventuale eliminazione della norma in esame sarebbe più apparente che reale, stante il contenuto disvalore penale delle condotte qualificate come abuso d’ufficio. L’argomento è ancor più avvalorato – e forse, a parere di chi scrive, tanto basterebbe – se si tiene in considerazione il potenziale giovamento che la macchina pubblica ne trarrebbe in termini di performance. È vero, una simile scelta non sarebbe in linea con gli scellerati interventi che hanno caratterizzato la legislazione penale degli anni più recenti, tuttavia – seppure con giustificata sfiducia – attendiamo l’atto di coraggio.


[1] Ci si riferisce alla frizione tra la fattispecie di cui all’art. 323 c.p. ed il principio di tassatività.

[2] Per un’analisi approfondita si rinvia a: L. Stortoni, I delitti contro la PA, in AA. VV., Diritto Penale, Lineamenti di parte speciale, settima edizione, Milano, 2014, p. 189 ss.

[3] Con la l. 6 novembre 2012 n. 190 i limiti edittali sono stati innalzati dai precedenti 6 mesi – 3 anni agli attuali 1 – 4 anni.

[4] C. Cupelli, Delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, in Diritto e Procedura Penale, a cura di B. Romano e A. Marandola, 2020, UTET, p. 273 ss.

[5]Cass. pen., Sez. VI, sent. 10 novembre 1997, n. 1163.

[6] L. Stortoni, “Migliorare le performance della pubblica amministrazione, riscrivere l’abuso d’ufficio”, Salerno, 6 – 7 ottobre 2017, a cura di Andrea R. Castaldo, Giappichelli Editore, Torino, 2018, pp. 117 – 121.

[7] Cass. pen., Sez. VI, sent. 12 febbraio 2011, n. 27453; Cass. pen., Sez. VI, sent. 12 giugno 2014, n. 38357.

[8] M. C. Ubiali, Abuso d’ufficio e atti discrezionali della pubblica amministrazione: l’archiviazione del procedimento nei confronti del Presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, in Sistema Penale, 21 maggio 2020.
[9] Molti processi, poche condanne – Ma l’abuso d’ufficio frena la Pa, di Antonello Cherchi, Ivan Cimmarusti e Valentina Maglione, Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2020. 

[10] L. Stortoni, “Migliorare le performance della pubblica amministrazione, riscrivere l’abuso d’ufficio”, Salerno, 6 – 7 ottobre 2017, a cura di Andrea R. Castaldo, Giappichelli Editore, Torino, 2018, pp. 117 – 121.

[11] Cfr. lettera del Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte pubblicata sul Corriere della Sera in data 28 maggio 2020.

[12]Riformare, abolire? C’è una terza via per il reato fantasmatico dell’abuso d’ufficio, G. Fiandaca e A. Merlo, il Foglio del 24 giugno 2020.