La lunga marcia del movimento Me Too, nato nel 2006 come comunità di sostegno ed inclusione per le vittime di violenza sessuale, ha raggiunto l’apice della popolarità dopo il caso Weinstein nel 2017. Ora, promuove (anche) un’idea di giustizia illiberale ed esplicitamente contraria alla presunzione d’ innocenza. Considerare il processo penale come un mezzo di rivalsa e di perequazione sociale è un pericolo per lo Stato di Diritto.

Il movimento Me Too, letteralmente “anche io”, nasce nel 2006 in USA per fornire supporto alle donne straniere -specialmente nere- vittime di violenza sessuale, che non avevano sporto denuncia per le motivazioni più disparate, dalla mancanza di documenti alla paura di ritorsioni. Grazie al lancio dell’hashtag #metoo, divenuto virale in pochi mesi sui vari social network (Twitter in particolare), la causa ha avuto una grossa risonanza ed è stata conosciuta in tutta la nazione. Oggi, il movimento Me Too si dichiara come un movimento estremamente inclusivo, poiché considera persone di qualsiasi colore, orientamento sessuale ed identità di genere; infatti, il filo rosso che collega tutti è l’essere “survivors”, sopravvissuti, in grado di raccontare la propria esperienza per contribuire sia al sostegno delle altre vittime sia alla discussione quanto più oggettiva, trasversale ed inclusiva sulla sessualità. Sono ormai migliaia i militanti, sostenitori che formano la sempre più grande community di donne e uomini che si oppongono alle violenze sessuali e si prodigano per fornire mezzi non solo alla sensibilizzazione delle nuove generazioni, ma anche per ottenere sostegno e giustizia per le vittime di violenze e abusi.

L’apice della popolarità del movimento Me Too, che l’ha portato a essere un vero e proprio inno mondiale, si deve all’esplosione del “caso Weinstein”, anno 2017. Inizialmente si parlava di accuse di molestie e aggressioni sessuali da parte del famosissimo produttore cinematografico hollywoodiano ai danni di sue giovani dipendenti, ma in breve tempo è cominciata una vera e propria pioggia di rivelazioni, scoop e dichiarazioni di diverse attrici e modelle che hanno a loro volta accusato l’uomo di molestie e violenze risalenti a diversi anni prima, tra cui l’ uso costante del cosiddetto couch casting, ossia la richiesta di prestazioni sessuali in cambio del lavoro. Tutto viene accompagnato dall’esplosione dell’hashtag #metoo su Twitter, e vengono invitate le vittime a raccontare la propria esperienza. Da quel momento, il movimento Me Too diventa globale e la lista delle accusatrici di Weinstein si allunga, dando vita ad una reazione a catena capace di coinvolgere, sotto lo stesso capo d’accusa, altre personalità dello spettacolo, soprattutto americano. Così, il Me Too diventa un’onda che travolge lo star system americano lasciando ben pochi superstiti, agevolando il diffondersi del sospetto e servendosi della gogna mediatica come mezzo principale: stampa ed opinione pubblica condannano ancora prima della pronuncia del giudice, come nel caso di Kevin Spacey, accusato da un dipendente e da un altro assistente di molestie risalenti a decenni prima; tutti addebiti che verranno successivamente archiviati, non prima della distruzione della sua reputazione e carriera.

Al netto di tutto, sono evidenti gli effetti negativi che l’esplosione del movimento ha comportato, legati per lo più alle frange interne più estreme; uno su tutti, l’erosione progressiva del principio di innocenza per chi viene accusato di molestie: l’individuo accusato agli occhi della collettività risulta colpevole, senza la necessità di ulteriori indagini, e le garanzie che sono alla base del giusto processo sembrano diventare un lusso prescindibile. Si diffonde così la cultura del sospetto e della paura, tanto degli uomini quanto delle donne. Le relazioni interpersonali diventano rischiose, ed ai luoghi in cui queste si intrecciano è richiesto di dotarsi di qualsiasi strumento dissuasivo: in diversi Stati, è stato stabilito l’obbligo nei luoghi di lavoro di dotarsi di politiche anti-molestie, e di attuare programmi di formazione e sensibilizzazione; sono anche frequenti i cosiddetti love contract, che stabiliscono il numero massimo di inviti ad uscire, ed in generale le interazioni fra colleghi vengono limitate, per evitare che avvengano sopraffazioni o abusi di potere. Se, nelle intenzioni, alcune di queste proposte possono anche essere accolte con favore, l’immediata conseguenza, tuttavia, è stata l’esclusione delle donne in molti ambiti lavorativi, per cercare di risolvere alla radice il problema. Anche nei campus americani, è stata sollevata la problematica delle violenze sessuali e così, oltre alle campagne di sensibilizzazione sul tema, dal 2015 vengono firmati veri e propri contratti, tramite applicazioni come “weconsent” e “sasie“, per dare il proprio consenso al rapporto sessuale. Ed è proprio quella del consenso la questione più dirompente sollevata dal Me Too. Viene infatti superato il tradizionale sì, che non è più sufficiente: si comincia a parlare di “affirmative consent”, politica già adottata negli stati di New York (“yes means yes”) e California (“enough is enough”) per contrastare le aggressioni e le violenze che avvengono nei campus universitari. Quanto sopra, viene definito come un affermativo, volontario e cosciente accordo di avere un rapporto sessuale, revocabile in ogni momento e perciò necessariamente oggetto di rinnovata conferma; infatti, è specificato che non viene considerato scontato nemmeno in caso di una relazione precedentemente instaurata. Può essere verbale o non verbale, e in ogni caso non risulta valido qualora ci si trovi sotto gli effetti di sostanze stupefacenti o alcool. Questa visione, sicuramente articolata, vuole chiarire in maniera inequivocabile cosa voglia dire acconsentire ad avere un rapporto sessuale. La criticità, però, potrebbe emergere nel punto per cui la chiarificazione avviene soltanto a livello teorico, risultando per certi versi limitante e dai risvolti, soprattutto pratici, complessi: diventa difficile distinguere un consenso esplicito, espresso dal linguaggio non verbale, da una mancanza di consenso non espressa. Se si considera quanti gesti, comportamenti, messaggi più o meno impliciti precedono e compongono un rapporto sessuale, una visione del genere mette in dubbio l’intera manifestazione di volontà, portando all’oggettiva difficoltà di comprendere il consenso nella sua inequivocabilità, dunque ad una condizione di dubbio determinata dall’eventualità di errori interpretativi. L’affirmative consent vuole essere uno strumento che agisca a livello culturale e giuridico, portando consapevolezza e comprensione della tematica della violenza sessuale. Al momento, però, risulta una pericolosa lama a doppio taglio, che favorisce il sospetto e le paure, da entrambe le parti. Sono diversi, oggi, gli strumenti che permettono di firmare contratti di consenso al rapporto sessuale: il loro utilizzo non è solo questione di convinzione e sostegno alla causa, perché molto spesso tale scelta risulta quasi obbligata dal timore di accuse derivanti da fraintendimenti.

Con la diffusione e la presenza sempre più costante nel dibattito nazionale (e non solo) delle tematiche affrontate dal Me Too, lo stesso movimento è diventato un vero e proprio movimento politico. Uno degli slogan più importanti (e sicuramente uno dei più controversi) è “believe all women”, con cui si chiede che si creda alle accuse di “tutte le donne” in materia di violenza sessuale. Chiaramente una denuncia deve essere presa sul serio, e non deve essere in alcun modo scoraggiato un serio approccio al riguardo; inoltre, è di grande importanza che le vittime di qualsiasi abuso si sentano tutelate dalla legge, nonché ascoltate. L’idea che una denuncia debba essere accolta con la dovuta attenzione non è assolutamente sbagliata, né criticabile. Il problema sorge in maniera evidente, invece, quando sostenere di dover “credere a tutte le donne” equivalga a utilizzare il “principio di colpevolezza” verso gli accusati. Soprattutto, stabilire che una persona debba essere creduta (o meno) in virtù del suo genere non solo è inutile al fine della ricerca di verità e giustizia, ma pretende di innalzare una categoria- quella femminile- a detentrice di verità a priori, mettendo in secondo piano l’accertamento e la verifica delle accuse mosse, quindi il giusto processo. In conclusione, quando “credere a tutte le donne” significa considerare sacrificabile la presunzione d’innocenza, non solo ci si trova davanti a un concetto profondamente sbagliato, ma anche ad una stortura del concetto di giustizia, che rischia di scivolare molto in fretta nella vendetta.

L’argomentazione che viene portata a sostegno di questo slogan si basa anche sulla reale condizione di disparità e asimmetria che ancora oggi, in molti ambiti, interessa le donne. In questo senso, si arriva anche a parlare del “sacrificio necessario” di qualche innocente, accusato ingiustamente per abbattere il leviatano del patriarcato. Emerge un’idea molto confusa del significato e dell’utilità della sanzione di comportamenti individuali -come quello di violenza sessuale- e soprattutto della giustizia, che nello schema finora descritto custodisce la pretesa di agire su un’intera categoria di colpevoli o presunti tali, tanto per riparare ad errori del passato quanto per porre fine agli abusi attuali. Questo è il limite evidente di tale pensiero: considerare il processo penale come un mezzo di rivalsa e di perequazione sociale, e non come naturale luogo di accertamento delle responsabilità, nel pieno rispetto delle garanzie dell’imputato e dei principi dello Stato di diritto.