L’avvocato Pittelli si trova ristretto da ormai otto mesi in una situazione che non pare giustificarsi vista la peculiare condizione dell’imputato in esame. E la sistematicità di storie come questa concorre inesorabilmente alla triste realtà del nostro sovraffollamento carcerario. Siamo di fronte ad uno dei frutti più aspri di quella cultura giustizialista che impera da tempo. Quel sentore che l’avvocato sia un complice del proprio assistito, che cerchi in tutti i modi di assecondarne l’attività criminosa, palesa nella maniera più infima il degrado culturale che si cela dietro queste correnti di pensiero.
L’avvocato Giancarlo Pittelli, noto penalista calabrese, si è visto rigettare, per la terza volta consecutiva, una richiesta di revoca della misura della custodia cautelare in carcere. Il medesimo si trova in tale regime coercitivo da diverso tempo, essendo stata la misura disposta in regione delle accuse di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso e di abuso in atti d’ufficio, all’interno della maxi operazione Rinascita della DDA di Catanzaro. I legali dello stesso hanno chiesto l’ottenimento di una misura che, pur garantendo le esigenze di cautela, potesse essere maggiormente consona alla specifica situazione dell’ex parlamentare, quando la Corte di Cassazione aveva già avuto modo di dichiarare l’illegittimità della misura, relativamente però all’ipotesi accusatoria dell’abuso in atti d’ufficio. Per il Giudice, tuttavia, continua a pesare come un macigno proprio l’addebito di concorso esterno. Ci troviamo innanzi all’ennesimo caso di uso spropositato e sproporzionato della misura cautelare custodiale inframuraria, ormai una costante delle nostre realtà procedimentali. Eppure, nel caso in esame, i presupposti cautelari (rischio di reiterazione del reato, rischio di inquinamento delle prove, rischio di fuga: debbono necessariamente sussistere perché possa legittimarsi la custodia) non parrebbero essere tali da non poter ricorrere ad un’altra misura meno invasiva come, per esempio, gli arresti domiciliari. La custodia, dunque, rimane in piedi.
L’avvocato si trova ristretto da ormai otto mesi in una situazione che non pare giustificarsi vista la peculiare condizione dell’imputato in esame. E la sistematicità di storie come questa concorre inesorabilmente alla triste realtà del nostro sovraffollamento carcerario. Al netto dell’innegabile stravolgimento esistenziale che Pittelli sta patendo, non si può negare come l’intera vicenda influirà negativamente anche sulla reputazione professionale dello stesso. Siamo di fronte ad uno dei frutti più aspri di quella cultura giustizialista che impera da tempo. E quel sentore che l’avvocato sia un complice del proprio assistito, che cerchi in tutti i modi di assecondarne l’attività criminosa, palesa nella maniera più infima il degrado culturale che si cela dietro queste correnti di pensiero. Si rammenti che la fattispecie del concorso esterno, in questo caso, si attanaglia in quella zona d’ombra tra la commissione di un fatto reato e il legittimo esercizio di una professione atta a garantire e tutelare uno dei più importanti diritti costituzionalmente garantiti. Si noti, inoltre, che è un reato di matrice giurisprudenziale, mai positivizzato, mai divenuto legge (con buona pace del principio di legalità e della riserva di legge in materia penale). Per questo motivo, fino a quando non vi sarà una pronuncia definitiva sul punto, additare un avvocato come mafioso solo perché legittimamente si prodighi nella difesa dello stesso resisterà come uno dei fondi perversi dell’attuale panorama culturale giuridico.
In conclusione, quasi un terzo dei detenuti delle carceri italiane, il 33%, si trova in detenzione cautelare. Si tratta di un numero consistente. Stando agli ultimi dati ufficiali disponibili del Ministero della Giustizia, si tratta di 17.437 detenuti su 53.619: siamo ai primi posti in Europa per detenuti in attesa di giudizio e condannati non definitivi. Giancarlo Pittelli, dunque, è uno delle migliaia di questi rinchiusi innocenti fino a prova contraria. Della sua vicenda parliamo per via delle gravissime accuse, per di più mosse nei confronti di un avvocato, e per il trattamento particolarmente aspro a lui riservato (è risultato pressoché irraggiungibile dai familiari e dai difensori), ma purtroppo il fenomeno di cui è vittima è largamente diffuso. Davanti a cifre di questo tipo, è lecito domandarsi se sia ancora rispettata la natura di extrema ratio, quindi di ultima risorsa possibile, della detenzione cautelare in carcere, e se la sua eccezionalità non abbia ceduto il passo ad una ordinaria prassi di carcerizzazione preventiva, dando vita a un vero e proprio abuso, in contrasto con quanto previsto in maniera stringente e tassativa dalla legge.
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