Conoscibilità del precetto penale, limitazione dell’interpretazione giudiziale, contenimento dell’arbitrio del Sovrano, garanzia del singolo contro un’applicazione dispotica della legge penale: questi i principi che hanno determinato l’emersione ed il consolidamento del monismo legislativo. Negli ultimi anni, però, il principio di legalità – e i suoi imprescindibili corollari – sono entrati in uno stato di parziale obnubilamento. Una delle cause maggiori, la prorompente emersione di un moto creativo del diritto nell’attività giurisprudenziale, di fatto una surrogazione pretoria che deve essere fortemente imputata anche all’estrema vaghezza e genericità con la quale sono costruite le più recenti opzioni incriminatrici. L’idea di una prevalenza della singolare sensibilità etico/politica dell’organo giudiziario, ancorché motivata da apprezzabili ragioni di giustizia sostanziale, non può lasciare indifferente la coscienza del giurista attento agli equilibri istituzionali e al massimo rispetto del principio della separazione dei poteri.

Il vivere assieme postula una complessità che, da sempre, ha avvertito l’esigenza di un momento disciplinante. Risponde a questa logica la risposta sociologica alla genesi del diritto: ubi societas ibi ius. Ogni uomo, infatti, è portatore di una carica ineliminabile di conflitto, una tensione che tende ad acuirsi nel momento dell’incontro con l’altro. Una delle spiegazioni genealogiche della scienza giuridica pone proprio l’accento su questa necessità di mitigare la carica conflittuale -che altrimenti deflagrerebbe in condizioni di anomia- attraverso una regolamentazione che sia conoscibile da parte dei consociati. Quindi, il diritto come momento disciplinante, come auspicio conformativo di una realtà sociale abitata da quell’assurdo che è la moltitudine di coscienze [1] potenzialmente in conflitto costante fra loro. Una logica non dissimile informa le ricostruzioni teoretiche di stampo giusnaturalista riconducibili al “contratto sociale”: basti pensare alla filosofia politica di Locke, di Hobbes o di Rousseau. Diverse le concezioni dell’originario “stato di natura”, le metodologie di dispiegamento del contratto, le ragioni di fondo che determinano la scelta del vivere assieme; ma comune l’idea di un diritto quale elemento di regolamentazione dei rapporti in una societas. L’idea di un momento regolativo è foriera della volontà di impedire che il potere sia esercitato in maniera dispotica, secondo l’arbitrio del Principe, e che coloro che sono soggetti alla forza di tale potestà possano essere esposti alla nuda volizione del Sovrano, totalmente disarmati anche sotto l’angolo di visuale della possibilità di conoscere le modalità di estrinsecazione del potere. Al contrario, il diritto deve (o dovrebbe) orientare tale potestà, per far sì che la stessa possa svolgersi entro canali procedurali ed espressivi la cui conoscenza non sia previamente preclusa ai consociati. Questa la matrice distintiva dello Stato di Diritto, ove lex facit regem e non più rex facit regem. In questo senso, il diritto – segnatamente quello penale, in quanto massima espressionedell’esercizio della potestà del Sovrano sul singolo consociato – può esistere in quanto espressione dell’attività di chi, secondo procedure predeterminate ed in base a criteri di assegnazione razionali, è detentore del potere legislativo: quel potere di porre in essere aspettative di conformazione della realtà sociale ad una volontà politica. Un enorme problema concerne l’individuazione del detentore di tale vertiginoso potere, delle fonti di produzione delle norme in vigore in un preciso momento storico e in un determinato contesto sociale.

È oltremodo evidente come la questione sia tanto più sensibile nella materia penale,laddove sono contemplate le situazioni di potestà in grado di incidere con più forza e drasticità sulla posizione soggettiva dei consociati e su beni fondamentali dell’individuo. A seguito delle tre grandi rivoluzioni liberali e con l’affermarsi del modello di Stato liberale, tale potere è – perlomeno nei Paesi di civil law – concentrato nelle mani delle Assemblee rappresentativedei consociati, in ragione dell’investitura popolare che legittima le stesse e della massima valorizzazione del principio della separazione dei poteri. In ossequio a quest’ultimo, infatti, la complessa microfisica del potere è ripartita secondo criteri di checks and balances, ossia di controllo ed equilibrio reciproco fra le varie potestà statali, in modo tale che nessuna istituzione sia depositaria di un potere incontrollato nel fine e incontrollabile nei mezzi. L’idea di una ripartizione delle potestà è funzionale all’obiettivo di rimarcare uno stato di alterità rispetto all’Assolutismo che aveva imperato fino all’avvento delle suddette rivoluzioni, attraverso il contenimento e la controllabilità del potere e la salvaguardia delle garanzie e dei diritti fondamentali degli individui-non più semplicemente sudditi deferenti. Tradizionalmente la funzione legislativa è stata attribuita ai Parlamenti, quella esecutivo/amministrativa ai governi e quella giurisdizionale agli organi giudiziari, ed ogni potere è stato dotato degli strumenti necessari al fine di vigilare e limitare loscorretto ed irrazionale esercizio della potestà da parte degli altri. Non è casuale che la funzione nomotetica sia stata tradizionalmente attribuita ai Parlamenti: organi composti da membri elettivi, legittimati da un’investitura democratica all’esercizio delle proprie funzioni, oltreché luoghi prediletti del confronto dialettico fra i rappresentanti dei vari gruppi sociali. È proprio nella dialettica parlamentare che dovrebbe riposare quel principio partecipativo che permette anche alle minoranze (se adeguatamente rappresentate) di prendere parte coscienziosamente al processo di formazione delle leggi e di esprimere efficacemente le proprie posizioni politiche. Il primato delle Assemblee rappresentative e la conseguente elevazione della legge quale fonte di produzione del diritto si radicano nel complesso sostrato assiologico, culturale e politico sviluppatosi a partire dall’Illuminismo giuridico, quale forma di reazione ad un arbitrio giurisprudenziale nella gestione e nell’interpretazione del diritto che aveva caratterizzato l’Ancien Régime. Come si sa, prima dell’avvento della “era delle codificazioni”, vigevano sistemi normativifondati sull’integrazione del diritto comune con i singoli particolarismi giuridici locali, con un ruolo decisivo dell’attività giurisprudenziale nell’attività di reperimento, sistemazione, interpretazione e applicazione della norma giuridica al caso concreto. È in risposta a questo enorme e difficilmente controllabile potere che si avverte la necessità di una razionalizzazione e sistemazione del complesso ed elefantiaco sistema normativo attraverso l’emanazione di codici e la massima valorizzazione del principio di legalità [2] : nullum crimen et nulla poena sine lege. La produzione del diritto diventa prerogativa delle Assemblee Rappresentative – laddove siedono i rappresentanti del popolo democraticamente eletti – e si iniziano a delineare alcuni fra i corollari nervali del principio di legalità in materia penale, su tutti il principio di tassatività e determinatezza, quello di irretroattività della legge penale, la riserva di legge e il divieto di analogia. In questo modo il cittadino ha la possibilità di orientare il proprio comportamento nella consapevolezza di andare esente dalla responsabilità più penetrante che l’ordinamento postula, ovverosia quella penale. Lapredeterminazione della fattispecie tipica e delle relative conseguenze sanzionatorie garantisce non solo certezza del diritto e previa conoscibilità dei valori tutelati dall’ordinamento penale, ma anche possibilità per il singolo di conformare la propria condotta di vita allo schema assiologico che l’ordinamento presidia, nella quasi certezza che una condanna non dipenderà – perlomeno in astratto – dall’arbitraria applicazione di una norma di difficile conoscibilità o dalla eccentrica torsione ermeneutica che norme lasche e plurivoche inevitabilmente permettono. Conoscibilità del precetto penale, limitazione dell’interpretazione giudiziale, contenimento dell’arbitrio del Sovrano, garanzia del singolo contro un’applicazione dispotica della legge penale: questi i principi che hanno determinato l’emersione ed il consolidamento del monismo legislativo. Negli ultimi anni, il principio di legalità – e i suoi imprescindibili corollari – sono entrati in uno stato di parziale obnubilamento, a causa di una pluralità di ragioni difficilmente sintetizzabili in questa sede [3] .

Una delle cause maggiori che ha determinato tale stato di crisi è rappresentata dalla prorompente emersione di un moto creativo del diritto nell’attività giurisprudenziale, attraverso quella “interpretazione creativa” che porta ad una sempre maggiore distanza fra il contenuto dispositivo della fattispecie – secondo la voluntas legislatoris – e la potenzialità di espressione semantica della stessa a seguito delle torsioni ermeneutiche attivate dalla giurisprudenza. Un’attività giurisprudenziale che, lungi dal limitarsi alla semplice interpretazione del precetto nei limiti del senso palesato dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse [4] , si spinge sempre maggiormente verso un’opera di vera e propria creazione della norma, sostituendo alla variante interpretativa conforme all’intenzione del legislatore, quella maggiormente rispondente alle esigenze del caso concreto, se non alle valutazioni politico-criminali dell’organo giudicante [5] . Una surrogazione pretoria che dipende fortemente dall’estrema vaghezza e genericità con la quale sono costruite le più recenti opzioni incriminatrici, in forza di una tendenza sempre più perniciosa del nostro legislatore a delegare ampi spazi di concretizzazione ermeneutica agli organi giudiziari, frustrando quelle esigenze di certezza e conoscibilità dell’agire illecito che si pongono alla base di un diritto penale autenticamente liberale. La tecnica di redazione delle fattispecie appare sempre più approssimativa e sciatta, il linguaggio utilizzato sempre meno tecnicamente valido e le fenomenologie evocate sempre più evanescenti e difficilmente suscettibili di verificazione empirica in sede processuale. Uno stato di decadimento dell’ars legiferandi che se da un lato è indice di colposa auto-deresponsabilizzazione del legislatore, dall’altro apre spazi di manovra eccessivi a forme di supplenza pretoria nella costruzione del significato complessivo della fattispecie. E, lo si sa bene, l’abbrutimento delle forme è il primo stadio di decadenza sostanziale, anche nel mondo del diritto [6]. Se l’idea – di montesquiana memoria – di un giudice bouche de la loi appare sicuramente inadeguata alla complessità dei tempi presenti e alla necessaria opera di adattamento della fattispecie al caso concreto attraverso l’attivazione delle normali prerogative ermeneutiche, l’univoco tenore letterale e le inequivoche scelte legislative devono rimanere il limite ultimo di ogni attività interpretativa. La non manifesta infondatezza di un dubbio di compatibilità costituzionale potrà legittimare il sollevamento di una quaestio legitimitatis, facendo sì che il Giudice delle Leggi possa pronunciarsi sulla questione, nel rispetto degli equilibri istituzionali e della massima valorizzazione possibile della Carta Costituzionale, quale elemento di legittimazione di ogni opzione legislativa nella materia penale. Al contrario, l’idea di una prevalenza della singolare sensibilità etico/politica dell’organo giudiziario, ancorché motivata da apprezzabili ragioni di giustizia sostanziale, non può lasciare indifferente la coscienza del giurista attento agli equilibri istituzionali e al massimo rispetto del principio della separazione dei poteri. Come è stato giustamente sostenuto [7] il “coraggio del giudicante è anche e soprattutto quello del self-restraint”, al quale fa da pendant il coraggio del legislatore – a dire il vero sempre meno razionale e sempre più emotivo – nel compiere scelte di politica criminale. D’altronde se il diritto penale non è la panacea di ogni disfunzione sociale, né tantomeno uno strumento di perequazione economica e/o sociale, e se la giustizia non è il cerimoniale della lotta all’ordine costituito né la liturgia della catarsi sociale, allora anche il giudice – quale interprete privilegiato del diritto e fondamentale attore processuale – non può essere inteso quale solipsistico esecutore di ragioni di giustizia sostanziale, tali da poter disattendere quei baluardi di ogni Stato di Diritto che sono, rispettivamente, la separazione dei poteri e la necessaria legittimazione democratica di chi è investito del potere legislativo [8] .

1 A. CAMUS, Il mito di Sisifo, Milano, 2016.
2 Per un valido approfondimento si veda AA.VV., Tempi del diritto. Età medievale, moderna, contemporanea, Torino,
2016; G. INSOLERA – N. MAZZACUVA – M. PAVARINI – M. ZANOTTI (a cura di), Introduzione al sistema penale, I, Torino, 2012.
3 Per una ricostruzione delle diverse variabili che hanno inciso sul “tramonto della legalità” si veda, ex plurimis, G. FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Bari-Roma, 2017.
4 Così l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, in materia di interpretazione della legge.
5 Per un’autorevole disamina del fenomeno si veda G. INSOLERA, Declino e caduta del diritto penale liberale, Pisa, 2019.
6 Si veda M. AINIS, Referendum, dpcm e decreti: la forma della democrazia, ne La Repubblica, 21 Agosto 2020.
(https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/08/21/news/costituzione_democrazia_referendum_taglio_parlamentari_dpcm_decreti_coronavirus-265147019/).
7 G. PORTONERA, Il coraggio del judical self-restraint, su extremaratioassociazione.it, 9Luglio2020(https://extremaratioassociazione.it/il-coraggio-del-judicial-self-restraint/).
8 In questa direzione, particolarmente significativo è anche l’art. 101, comma 2°, della Costituzione a norma del quale:“I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.