In tutti gli ordinamenti liberali, lo statuto delle garanzie previste a tutela della persona di fronte al potere coercitivo dell’Autorità Pubblica viene modellato partendo dagli effetti che un provvedimento è in grado di produrre nella sfera giuridica della persona; non dalle finalità che dovrebbero giustificare quel provvedimento. Anche questo elementare principio di civiltà è messo da parte nel settore delle misure di prevenzione. Qui, la suprema finalità della lotta alla mafia relega ai margini le garanzie individuali. Ed è sempre questa la ragione per la quale gli effetti afflittivi della confisca vengono liquidati come semplici effetti “collaterali” di una misura che ha lo scopo – ed è qui che si pone non a caso l’accento – di purificare il mercato dalla circolazione di beni di origine illecita.Non un diritto penale migliore ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Con queste parole Aldo Moro declinava il diritto penale in chiave di moderno umanesimo, mettendo al centro la “Persona umana” con i suoi diritti inviolabili e non lo Stato con la sua potestà punitiva. Nel nostro ordinamento giuridico esiste, invece, “qualcosa di peggio” del diritto penale. Il riferimento è al sistema delle misure di prevenzione, le cui origini risalgono a prima dell’Unità d’Italia. In estrema sintesi, attraverso questo istituto, l’Autorità Giudiziaria applica provvedimenti che hanno lo stesso grado di afflittività delle sanzioni penali senza però le garanzie proprie della materia penale.


1.Qualcosa di peggio del diritto penale

È noto che nel campo della lotta alla mafia, con il dichiarato intento di dotare gli organi inquirenti di armi efficaci per sconfiggere il male assoluto, il Legislatore ha realizzato i desiderata dei settori più esposti della Magistratura. Tutto ciò ha inevitabilmente capovolto i rapporti tra la politica, sempre più debole e corrotta, e la Magistratura, sempre più forte ed eroica, violando – non nella forma ma nella sostanza – il principio della divisione dei poteri e determinando la netta prevalenza del (malinteso) “bisogno di sicurezza” sui principi del garantismo liberale. I risvolti più peculiari di questa grave distorsione delle regole costituzionali che governano gli equilibri istituzionali si sono avuti proprio nel settore delle misure di prevenzione, le quali sono state da sempre (e trasversalmente) rivendicate dalla politica e dalla Magistratura come uno strumento indispensabile per debellare il cancro mafioso. Nel corso degli anni, sono stati passivamente recepiti in norme di legge i più inediti approdi interpretativi della giurisprudenza che, con una forza creativa senza precedenti, ha esteso oltre ogni limite la portata applicativa delle misure di prevenzione, fino a costituire un vero e proprio “diritto vivente delle misure di prevenzione”, fatto di prassi e regole non scritte. E il focus dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata non è più la persona, riconosciuta penalmente responsabile per uno specifico fatto-reato, ma il patrimonio, considerato intrinsecamente pericoloso, siccome collegato in qualche modo ad un reato che non si riesce a provare. Sul presupposto dell’inadeguatezza del sistema penale tradizionale, “troppo garantista” di fronte alla potenza impressionante manifestata dal “nemico”, il sotto sistema delle misure di prevenzione si è posto con sempre maggiore forza in termini di alternativa rispetto alla risposta sanzionatoria penale. Basti pensare al dato davvero significativo che, ad oggi, l’Agenzia Nazionale dei beni sequestrati gestisce 1.262 procedure, di cui 147 per procedimenti penali e ben 1.115 per misure di prevenzione. La tendenza inarrestabile è quella di colpire beni e persone non più con l’azione penale, ma attraverso un meccanismo che non ha bisogno di sentenze di condanna e che converte la presunzione d’innocenza dell’accusato nella presunzione invincibile di origine illecita del bene, nonostante la prova dell’insussistenza dei fatti addebitati all’indiziato. Si è invertito il rapporto regola/eccezione tra processo penale e processo di prevenzione: le misure di prevenzione – che dovrebbero essere, per l’appunto, eccezionali perché giustificate da una temporanea emergenza – sono diventate la regola. Così, relativamente alla confisca di interi patrimoni, il processo penale è ormai un lontano ricordo. Troppo scomodo rispettare i canoni del giusto processo, troppo impegnativo provare la colpevolezza degli accusati e il nesso di pertinenzialità tra il reato e il bene. Sic stantibus rebus, si può facilmente intuire che nel futuro prossimo le misure di prevenzione soppianteranno del tutto i processi penali. Se a questo aggiungiamo la progressiva espansione del campo di applicazione delle misure di prevenzione (che oggi ricomprende fattispecie del tutto diverse da quelle connesse alla criminalità organizzata di stampo mafioso), si può prevedere che il numero degli innocenti colpiti dalla legge del sospetto è destinato a crescere a dismisura. 

2. La frizione delle misure di prevenzione con il sostrato assiologico del diritto penale costituzionale

Il sistema preventivo si pone in insanabile contrasto con i principi del giusto processo e del diritto penale sostanziale, per diverse ragioni.
In ordine agli aspetti procedurali, basti dire che non vi è alcuna norma che garantisce il contraddittorio nella formazione della prova. L’azione di prevenzione non è soggetta a prescrizione. A decidere la confisca è lo stesso Tribunale – nella medesima composizione fisica – che ha già disposto il sequestro, peraltro inimpugnabile innanzi al Tribunale del riesame. Si attua, come già richiamato sopra, l’inversione dell’onere della prova, nonostante la giurisprudenza di legittimità continui a ribadire, come inutile petizione di principio, che sul cd. proposto(per l’applicazione della misura, ossia il destinatario) gravi un semplice “onere di allegazione”, nella pratica tradotto nell’obbligo di fornire una probatio diabolica. Per finire, il ricorso in Cassazione in materia di misure di prevenzione è limitato alla sola violazione di legge, il che non permette alla difesa (a pena d’inammissibilità) di censurare l’impianto motivazionale posto a fondamento dei decreti emessi dai giudici di merito. Ai tratti inquisitori del procedimento, si somma l’aleatorietà dei presupposti soggettivi e oggettivi. Non è richiesta la condanna per la commissione di uno specifico fatto-reato. Sono necessari semplici indizi i quali, per costante giurisprudenza, non devono essere gravi, precisi e concordanti. Il concetto di “appartenenza alla mafia” è ancora più ampio e indefinito del tormentato concorso esterno, in aperta violazione del principio di tipicità. Di conseguenza, le persone non possono prevedere, con un sufficiente grado di precisione, da quali comportamenti si devono astenere per non subire l’applicazione di una misura di prevenzione.  I sequestri sono disposti in funzione dei successivi accertamenti. Tali accertamenti, nella maggior parte dei casi, sono svolti dai periti nominati dal Tribunale. Sicché il Tribunale – che, disponendo il sequestro, ha già anticipato il suo convincimento sulla materia del contendere – si spoglia di ciò che rimane della sua terzietà per ricercare esso stesso, attraverso la perizia, gli elementi sui quali fonderà la sua decisione. Ciò che dovrebbe costituire, invece, il presupposto oggettivo della confisca -ossia la sproporzione tra i redditi dichiarati e il valore del patrimonio di cui l’indiziato risulta poter disporre- è a sua volta il frutto di più presunzioni. Anzitutto, la disponibilità in capo al proposto dei beni intestati ai suoi familiari è presunta. I redditi sono considerati al netto dei consumi familiari, calcolati sulla base degli aleatori indici ISTAT che, com’è noto, non tengono conto del reale stile di vita dei soggetti coinvolti. Anche il valore del patrimonio viene calcolato attraverso indici e tabelle che non corrispondono a quanto il titolare ha effettivamente pagato per acquistare il bene o ai costi che ha realmente sostenuto per costruire il suo patrimonio. Così, da una sproporzione il più delle volte solo presunta, attraverso una seconda presunzione si arriva alla conclusione che i beni sono il frutto di una qualche attività illecita, di cui però non esiste la prova. Dal canto loro, i Giudici della Consulta hanno più volte salvato il sistema delle misure di prevenzione nei suoi tratti essenziali, con motivazioni più di politica criminale – imperniate sull’asserita “efficienza” nel contrasto alla criminalità mafiosa – che non di carattere tecnico-giuridico. Nondimeno, la singolarità di queste misure – differenti dalle stesse misure di sicurezza – continua a porre una serie d’interrogativi sulla loro legittimità rispetto alla Costituzione e alla Convenzione Europea dei diritti umani, mentre il loro massiccio utilizzo nella prassi applicativa testimonia il fallimento dello Stato nel colpire i crimini della mafia con gli strumenti del diritto penale. 

3. Il consuntivo sulle misure di prevenzione

Quanto sin’ora abbiamo riassunto, pone importanti questioni su cosa, come, nei confronti di chi e perché prevenire. In ordine alla prima questione, possiamo pacificamente affermare che l’intento di prevenire i reati si rivolge non solo al componente dell’associazione mafiosa e all’enigmatico concorrente esterno, ma perfino a chi non ha dato alcun contributo al sodalizio; e non solo a costui, ma anche ai suoi familiari e al soggetto (quarto) entrato in contatto con loro (già terzi). In una situazione in cui gli indizi risultano insufficienti ad avviare un procedimento penale, ci si avvale delle misure di prevenzione. E affinché tali misure siano “efficaci”, il loro campo di applicazione è necessariamente ampio, per cui aumenta il numero dei sospettati che tuttavia non sono mafiosi; viceversa, se colpissero un numero ristretto di persone, verrebbe meno la loro utilità, poiché l’art. 416 bis c.p. già sanziona il reato di associazione mafiosa. La seconda questione – del come si debba prevenire – si pone a fronte di una misura a carattere permanente ed effetti irreversibili, il cui presupposto, oltre al sospetto della “mafiosità” dell’indiziato, è costituito dalla mancata dimostrazione della legittima provenienza dei beni, dimostrazione non agevole se si considera che la misura in questione è una misura “senza tempo”, capace di coinvolgere beni acquistati in epoche assai risalenti. Posto che il tradizionale fondamento giustificativo della prevenzione dei reati risiede nella pericolosità della persona fisica, non ha alcun senso la confisca della res in caso di cessazione della pericolosità della persona, oppure in mancanza della persona stessa. La confisca in danno del cittadino non pericoloso, invece, è giustificata da una sorta di fantascientifica “pericolosità intrinseca” che la res inanimata acquisisce dalla persona, per via di qualche arcano sortilegio. Sulla terza questione (attinente al novero dei soggetti qualificabili come “pericolosi”) s’incorre nell’assurdo di giustificare in chiave special-preventiva l’applicazione di una misura di prevenzione nei confronti di soggetti, tra gli altri, anche assolti dal reato associativo sulla base di una “appartenenza” alla mafia che sfugge a ogni tentativo di definizione. Pertanto, si ricorre all’istituto (neanche a dirlo, di creazione puramente giurisprudenziale) dell’impresa “mafiosa”, dalla quale si fa derivare la pericolosità della persona. Se il prius logico è la persona, da questa si deve partire e a questa ci si deve fermare. Tuttavia, in alcune pronunce giudiziarie esplicitamente si fa derivare la pericolosità del proposto dall’asserita “mafiosità” dell’impresa. Il tutto, per approdare a una confisca generale dei beni non prevista dal nostro ordinamento, in contrasto con le disposizioni costituzionali e convenzionali poste a tutela del diritto di proprietà e dell’iniziativa economica privata. Le altre perplessità attengono al perché – al contempo causale e finale – della prevenzione. Le gigantesche proporzioni dei beni confiscati in Sicilia introducono una grave distorsione nell’economia di mercato propria degli ordinamenti democratici: l’Autorità Giudiziaria diviene essa stessa agente-protagonista della dinamica economica, al punto tale che alcuni autorevoli autori si sono spinti a parlare di “dirigismo giudiziario dell’economia”. Dal 1982 al 31 ottobre 2018, i beni immobili definitivamente confiscati e destinati alla collettività sono stati 15.037; altri 17.318 immobili restano in mano all’Agenzia perché la confisca non è definitiva; 944 aziende sono state destinate, mentre 3.023 aziende sono ancora in gestione. In Sicilia, le aziende in gestione sono 816, mentre quelle destinate sono 485. E il tipo di destinazione, per tutte quelle già destinate, è la liquidazione. Questo, testimonia chiaramente il fallimento dello Stato nel gestire le aziende in amministrazione giudiziaria. Sempre in Sicilia, gli immobili in gestione ammontano a 6.314, quelli già destinati a 6.362. Basta digitare su Google “aziende confiscate” per rendersi conto che 9 aziende su 10 tra quelle oggetto di misure di prevenzione, falliscono. Si stima una perdita dei posti di lavoro che va da 80 mila a 100 mila unità, a cui devono aggiungersi la riduzione del PIL, mancati investimenti, il clima di generale incertezza che avvolge i rapporti giuridici in corso di esecuzione al momento del sequestro. Il riferimento è ai fornitori, ai dipendenti e alle banche che non vengono pagati; ai mutui bancari, ai contratti di locazione e agli appalti che vengono sospesi; alle tasse e ai tributi che non vengono corrisposti. Non è per niente azzardato supporre che l’applicazione massiccia delle misure di prevenzione nel nostro territorio, a tecer delle interdittive, costituisce, insieme alle altre ragioni storiche, uno dei principali motivi del divario fra Nord e Sud. Non può non destare apprensione sapere che un soggetto titolare di poteri coercitivi faccia il suo trionfale ingresso nella dinamica del libero scambio economico; tanto più quando si giova di ulteriori e addizionali “privilegi” che non competono agli altri. Se la più grande “azienda” siciliana è gestita dagli organi pubblici, l’economia di mercato ha già lasciato il posto all’economia di Stato. È dunque lecito domandarsi se il più grande trasferimento coatto di proprietà mai realizzato nell’area occidentale non sia figlio delle ideologie totalizzanti del XX secolo, le quali, in diversa guisa ma concordemente, propugnano l’assoluta prevalenza dello Stato, depositario dei valori etici, sulle libertà dei singoli individui.

4. La capacità afflittiva come limite all’efficienza

La questione veramente cruciale è stabilire fino a che punto in un ordinamento costituzionale si possa assolutizzare la lotta alla mafia per applicare provvedimenti iper sanzionatori nei confronti di persone colpevoli di nulla. In tutti gli ordinamenti liberali, lo statuto delle garanzie previste a tutela della persona di fronte al potere coercitivo dell’Autorità Pubblica viene modellato partendo dagli effetti che un provvedimento è in grado di produrre nella sfera giuridica della persona, e non dalle finalità che dovrebbero giustificare quel provvedimento. Anche questo elementare principio di civiltà è messo da parte nel settore delle misure di prevenzione. Qui, la suprema finalità della lotta alla mafia relega ai margini le garanzie individuali. È questa la ragione per la quale gli effetti afflittivi della confisca vengono liquidati come semplici effetti “collaterali” di una misura che ha lo scopo – ed è qui che si pone non a caso l’accento – di purificare il mercato dalla circolazione di beni di origine illecita. Noi riteniamo, invece, che non si possa prescindere dagli effetti. Per riassumere in termini realistici la portata di una misura di prevenzione, siamo costretti ad abbandonare il repertorio linguistico proprio della scienza giuridica. Solo il vissuto dei destinatari di queste misure – che Nessuno Tocchi Caino ha meritoriamente raccontato sulle pagine de Il Riformista – permette di comprendere appieno di che cosa stiamo parlando. I destinatari delle misure di prevenzione sono testimonianze viventi del potere superiore dello Stato di disarticolare alcuni fondamenti morali del sistema sociale: la certezza dei diritti di proprietà, la sacralità del lavoro, la perpetuazione del sistema successorio, il legame tra unitarietà patrimoniale e identità familiare che una confisca può cancellare per sempre. Le misure di prevenzione estendono i loro effetti reali – compreso il marchio dell’infamia mafiosa – nei confronti dei collaterali e dei discendenti dei proposti. La percezione che la società ha di un sequestro di prevenzione è quella di una misura punitiva disposta nei confronti di un “mafioso” da cui è necessario prendere le distanze. Del resto, non potrebbe essere diversamente: basta riflettere sui titoli di giornale che accompagnano le notizie dei sequestri di prevenzione (“beni confiscati alla mafia”), per rendersi conto di come l’opinione pubblica venga indotta a ritenere che si sia in presenza di soggetti condannati per mafia a cui lo Stato ha giustamente sottratto i beni. I danni d’immagine causati dall’accostamento alla mafia sono incalcolabili: essi non possono essere compensati neppure da un verdetto che statuisce l’estraneità ai fatti contestati. I cosiddetti “proposti” assistono impotenti al deperimento delle proprie sostanze, vengono emarginati nel consorzio sociale; con il sequestro, perdono d’un tratto l’azienda, il lavoro, la casa e ogni mezzo di sostentamento.

5. Conclusioni

Se questi sono gli effetti delle misure di prevenzione, come può ancora non revocarsene in dubbio il carattere punitivo-afflittivo? Ci chiediamo pure se di tutte queste implicazioni il giurista debba tenere conto nei suoi dotti inquadramenti dogmatici oppure se il Diritto, sulla base di pretese velleitarie di asetticità, non debba considerare i reali effetti che i provvedimenti antimafia producono sulla vita dei cittadini e sul tessuto sociale ed economico d’intere regioni. La difesa a oltranza del sistema delle misure di prevenzione (ovvero, all’apposto, la reazione liberale a un sistema così autoritario) dipende dalla risposta alla seguente domanda: è giusto confiscare tutto il patrimonio a una persona che non ha commesso alcun reato? La risposta non può che essere netta. Essa non ammette posizioni di compromesso e dipende precisamente dall’idea che ciascuno di noi ha del rapporto autorità/libertà. Noi riteniamo che il nostro Paese abbia davvero smarrito le tracce della sua millenaria civiltà giuridica e abbia imboccato la strada che conduce al sacrificio dei diritti della Persona, in nome di una malintesa ragion di Stato.