Intervista al Professore Loris Zanatta, Ordinario di Storia e Istituzioni delle Americhe presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna e autore del recente saggio “Il populismo gesuita. Peròn, Fidel, Bergoglio” pubblicato da Editori Laterza. Con lui abbiamo parlato delle origini e della storia del termine “giustizialismo” partendo dall’esperienza argentina del peronismo e ragionando su similitudini e affinità tra esso e il fenomeno giustizialista contemporaneo in Italia. Quali sono le matrici culturali comuni dei due movimenti? Quali le differenze?

 Professore, il termine “giustizialismo” è ormai di uso comune nel nostro paese. Si può dire che sia entrato a far parte del dibattito pubblico in maniera dirompente  all’inizio degli anni ’90 e che, da quel momento, non ne sia più uscito. Le sue origini però sono sudamericane, in particolare argentine. Ci racconta dove, come e quando nasce questo termine e se c’è una correlazione tra le sue origini e l’attuale utilizzo in italiano?

Non conosco la storia etimologica della parola “giustizialismo” in italiano e non so se, quando è stata coniata, si volesse operare un esplicito riferimento al peronismo. Ma procediamo con ordine.   Il peronismo si inventò una dottrina che tuttora si chiama “justicialismo”, tradotta appunto nella nostra lingua in “giustizialismo”. Il “justicialismo” in quanto tale non indica un fenomeno giuridico o non si riferiva a un certo tipo di utilizzo del potere giudiziario, ma faceva riferimento alla “giustizia sociale”, cioè a ciò che il peronismo riteneva, ispirandosi alle encicliche sociali dei pontefici, di introdurre in Argentina. Per inciso, potremmo discutere per delle ore sul significato di “giustizia sociale” e se quella del peronismo lo fosse davvero. Detto questo, la sua origine è tipicamente social-cristiana e si riferisce a quello. Tuttavia, pur non sapendo come abbia assunto il significato corrente in italiano, e non conoscendo il percorso che lega le due parole – ammesso  che tra le due vi siano collegamenti – il nesso culturale tra i due fenomeni c’è ed è evidente: sia il peronismo che il giustizialismo all’italiana concepiscono lo Stato come uno Stato etico. Dunque, non uno Stato di Diritto, ma un’entità che ha la funzione di moralizzazione della popolazione. E’ questa la nota tipica di entrambi i fenomeni.

A proposito di giustizia sociale e di Stato di Diritto, in Italia c’è spesso la tendenza, da parte dell’opinione pubblica ma anche della politica, a concepire il processo penale, e quindi la giustizia penale in generale, non come strumento di garanzia e luogo dell’accertamento delle responsabilità individuali ma come strumento di perequazione sociale, di risoluzione di conflitti di natura sociale. Anche questo è un dato comune alle due esperienze, alle due concezioni che stiamo confrontando?

Sicuramente. Alla base di questo fenomeno c’è un fondamento culturale hegeliano, come direbbe qualcuno per gonfiarsi il petto. Vale a dire, non c’è alla base un’idea dello Stato che si pone la funzione di creare uno spazio neutrale dove vigono diritti universali, ma, al contrario, che si pone l’obiettivo di utilizzare i suoi strumenti per perequare, per “fare il bene”, per “evangelizzare”, per convertire, per catechizzare. Dunque, anche il processo penale diviene strumento per realizzare tutto questo. La stessa idea di giustizia sociale, poi,  è un concetto morale più che sociologico ed economico, d’altronde. E chiaramente, se applicato o addirittura sovrapposto al diritto, si  pone in contrasto come una concezione liberal-democratica dello Stato.

Vede un nesso tra la cultura giustizialista e il fenomeno dell’antiparlamentarismo e più in particolare tra crisi della politica e affermazione del “punitivismo penale”?

Sì, il nesso c’è senz’altro. Il giustizialismo, sia inteso all’argentina che all’italiana, in questo senso fa poca differenza perché si richiama al loro nucleo comune, cioè all’idea etica dello Stato. Se concepisce la politica come una sorta di spazio della redenzione morale, allora gli attori in campo rimangono due: il bene e il male. E la politica diventa una sorta di prolungamento di una guerra spirituale, di una guerra di religione. Appunto, il bene contro il male. Da un lato ci sono coloro che incarnano la morale e dall’altra ci sono gli immorali. La politica parlamentare, invece, per definizione è uno spazio plurale, dove le voci non sono due e soprattutto non sono voci che esprimono esclusivamente una pulsione morale ma esprimono interessi, gusti, visioni del mondo, ideologie, opinioni sostanzialmente. La politica divide ciò che il moralista vorrebbe unire. Ritengo che in fondo oggi, nonostante il pluripartitismo e il ruolo del parlamento, questa visione moralistica della politica aspiri alla unanimità spirituale, ideologica. L’antipolitica, quindi, è una forma di aspirazione alla redenzione morale che riconduca all’unanimità, mentre la politica per sua natura frammenta, divide, riconosce eterna pluralità del mondo. Con il giustizialismo si vuole dividere tutto in buoni e cattivi, con semplificazioni strumentali che producono i risultati che abbiamo ben presente.

Da studioso della politica sudamericana avverte delle similitudini culturali e politiche tra il peronismo e il Movimento 5 Stelle? E’ un paragone eccessivo o ha senso operarlo? Se non nel Movimento, le individua in altri partiti?

No, non è eccessivo. Le similitudini ci sono e non si limitano al peronismo, ci sono in generale con il populismo latino-americano. Non dovremmo meravigliarci di questo. Mi spiego: ho appena finito di leggere il saggio di uno studente italiano-ecuadoriano che, pur appoggiando questa corrente ideale, ha svolto un’analisi lucidissima, in cui riconosce i collegamenti tra il Movimento 5 Stelle, Podemos, il chavismo e il peronismo, d’altronde pienamente rivendicati. Hanno in comune una matrice ostile ai fondamenti filosofici del liberalismo. Vi è alla base l’idea di un popolo omogeneo, in senso morale, che per esempio i 5 Stelle riconducono a Rousseau -quello della volontà generale, in cui il massimo della libertà porta al massimo della tirannia, per dirla con Isaiah Berlin. Un sistema nel quale il popolo “liberamente” finisce per riconoscere di essere unanime, diventando intollerante verso le proprie differenze interne, vivendole come una patologia e non come una fisiologia, come un’escrescenza estranea alla comunità del popolo. Un popolo che, in tal senso, vive la modernità come un peccato, come un male. La modernità è un peccato che erode una comunità spirituale originaria, quasi come fosse l’uomo nel paradiso terrestre prima del peccato originale. La modernità, in questa visione, corrompe ed è vizio, corrompe il popolo pensato come intrinsecamente puro e innocente. Da qui anche un altro elemento che accomuna il Movimento  5 Stelle a tutti gli altri movimenti di cui parliamo: il culto della povertà. La povertà vista come innocenza, la povertà vista come purezza. 

Per modernità cosa intendono questi movimenti più di preciso?

Essenzialmente, nella lettura storica, è l’illuminismo prima, il liberalismo poi e di conseguenza anche l’economia mercantile e il capitalismo. In questo senso, le origini ideologiche del Movimento  5 Stelle (benché non ne sia consapevole, visto che la sua conoscenza della storia è abbastanza limitata e forse arriva a malapena Rousseau) si rifanno a un modello di società organica antica. In fondo noi, come i latino-americani, abbiamo storicamente reagito alle grandi rivoluzioni scientifiche, tecniche e filosofiche del ‘600 e del ‘700 che si sviluppavano soprattutto nell’Europa centro-settentrionale con la Controriforma, con il ritorno all’unanimità confessionale. E’ un fenomeno meridionale, dell’Europa meridionale, e quindi in questo senso comune a quello ispanico e sudamericano. Questa è la nostra storia. Quando l’Italia si guarda nello specchio della Svezia e della Germania, si guarda nello specchio sbagliato; se vogliamo capirci, dobbiamo guardare il retaggio cattolico-ispanico. Ricapitolando, questi movimenti condividono: una visione unanimista dell’ordine politico, il bene contro il male, “noi contro di loro”, la salvezza contro la dannazione; il principio di difesa corporativa, l’individuo è sottomesso alla comunità, la collettività esprime una volontà generale che prevarica e sopravanza sull’individuo, un’idea di comunità estranea all’ethos liberale, dove l’individuo è titolare di diritti inviolabili mai e poi mai subordinabili al bene della collettività; un’idea dello Stato erede di cristiano del passato. Oggi non è cristiano in senso proprio, ma lo è nella misura in cui mira a formare delle religioni politiche, coltivando un’impostazione religiosa della politica, un’idea di Stato etico. Hanno il culto della povertà, un culto antimoderno della purezza originaria perduta a causa della modernizzazione. Non è sorprendente, in questo senso, che i nostri movimenti populisti somiglino a quelli dell’America latina e non a quelli dell’Europa del Nord. Certo, l’Italia del 2020 non è l’Argentina peronista del 1945, ma l’impostazione e i punti di partenza culturali sono condivisi.

A suo avviso, al di là dell’impostazione ideologica, ci sono dei legami concreti tra il legime venezuelano e il Movimento  5 Stelle?

Non entro ovviamente nel dettaglio sulla vicenda dei presunti finanziamenti del governo venezuelano al Movimento 5 Stelle. Mi limito a dire che il regime venezuelano, negli anni, ha avuto come prassi quella di finanziare diversi partiti o regimi per rafforzarsi a livello internazionale o creare relazioni. Questo è un dato acclarato. Non possiamo escludere che ciò sia avvenuto. Il caso più clamoroso è quello della valigetta stracolma di dollari per finanziare la campagna di Kirchner. Detto ciò, se non ci sono prove non si può parlare di questo.

Ovviamente siamo perfettamente d’accordo su questo, non potremmo che esserlo...

Già. Detto ciò, oltre alla comunanza ideologica, ci sono dei solidi legami tra il Movimento e il regime venezuelano. Pensi che mi chiamarono anche a dei convegni con alcuni funzionari venezuelani,  probabilmente vedendo che ero esperto di America Latina pur non avendo mai letto nulla di quel che avevo scritto e non sapendo nulla di quel che pensavo. Più volte, quindi, ho declinato l’invito, chiedendogli come gli venisse in mente di chiamarmi e mandandoli a quel paese. Per me sarebbe stato come andare a pranzo con Stalin. Tutto questo, per dire che i legami c’erano e ci sono, al punto da coinvolgere  esponenti  del regime in convegni in Italia e sicuramente altro.

In conclusione, un’ultima curiosità. Definire il caso “Lava Jato” la Tangentopoli brasiliana ha senso o è una forzatura giornalistica? Forse se ne parla anche per via delle dichiarazioni del giudice federale Sergio Moro, che ha detto chiaramente di essersi ispirato al pool di Mani Pulite? A parte questo confronto, ritiene che l’operazione abbia avuto una connotazione anche politica? Qualche dubbio può sorgere, data la successiva nomina dello stesso giudice al Ministero della Giustizia del governo di Bolsonaro…

Sicuramente definirla “Tangentopoli brasiliana” è un po’ una semplificazione giornalistica, ma questo forse è inevitabile. Il problema è più articolato e complesso. Il Brasile ha una tradizione di corruzione capillare, dilagante e cronica. Non è una cosa di oggi. Forse, se se ne parla di più oggi è perché piano piano in Brasile, come in altri paesi dell’America latina, genera più scandalo che in passato. In questo senso, c’è un cambiamento culturale in atto. In passato la corruzione era data fatalisticamente per scontata; oggi, soprattutto nei ceti medi, anche grazie a una sempre maggiore scolarizzazione, il fenomeno corruttivo è meno accettata. Molti di questi scandali, dunque, dal punto di vista mediatico sono dovuti al fatto che ci sia più attenzione all’argomento di quanta non ce ne fosse prima. Dopodiché nel Brasile di quegli anni, degli anni di Lula, complice anche il fatto che son stati anni di boom economico grazie soprattutto ai prezzi delle materie prime che il Brasile esportava a prezzi molto alti, effettivamente la corruzione si è espansa a macchia d’olio, anche con finalità politiche. Il sistema politico brasiliano è straordinariamente frammentato, in quella fase il Partito dei Lavoratori non aveva la maggioranza in parlamento e quindi “le mazzette” sono effettivamente servite a oliare i meccanismi politici. Questo è un dato, c’era un grande giro di corruzione. Ci sono tante sentenze definitive in merito e quasi tutti i partiti sono stati coinvolti. Chiaramente il Partito dei Lavoratori è stato coinvolto maggiormente perché in quella fase era partito di governo.  Chiarito questo, la figura di Moro ha rappresentato  sicuramente il simbolo della lotta contro una percezione- e una realtà- di corruzione molto elevata, e in questo senso ha assunto un protagonismo mediatico alla “caudillo”, un po’ alla Di Pietro. Anche se devo dire che Moro l’ho conosciuto e ne avevo ricavato un’impressione di una figura ben diversa da Di Pietro. Si presentava in maniera, per così dire, meno ruspante del p.m. italiano. La sua discesa in politica, in ogni caso, almeno dal mio punto di vista, ha bruciato totalmente la sua credibilità. La sua scelta di accettare il Ministero della Giustizia nel governo di Bolsonaro ha fatto venire a tutti più  che dei dubbi; si è intravista una strumentalità politica. Il fatto che sia finita male con il presidente brasiliano, perché hanno avuto divergenze sulle riforme, non è sufficiente. A mio avviso, potrebbe essere una scelta nefasta, anche se non è da escludere che goda ancora di grande popolarità tra la gente e che possa ripresentarsi in politica. Ad ogni modo, da un punto di vista dello Stato di Diritto, del garantismo, è chiaramente inaccettabile che abbia approfittato dei risultati mediatici delle sue inchieste, giuste o sbagliate che fossero, per andare al Ministero.