Abbiamo intervistato Alessandro Barbano, già Direttore del Mattino, attualmente vice-direttore del Corriere dello Sport ed editorialista del Foglio e di Huffington Post. Proprio due articoli apparsi a sua firma sull’Huffington hanno fornito lo spunto per un’intervista sul tema della crisi della magistratura, a seguito dello scoppio del “caso Palamara”.
In due articoli sull’Huffington Post, uno del 31 maggio e l’altro del 10 ottobre, ha sostenuto, tra le varie cose, che la magistratura stia vivendo una crisi simile a quella della politica. Riprendendo il titolo del secondo articolo, ci spiega in che senso “la magistratura è politica”?
La configurazione che la Costituzione ha pensato per la magistratura è, sostanzialmente, una configurazione politica, in quanto dotata di un’ autonoma soggettività e, per questo, in grado di auto-organizzarsi e di esprimere di conseguenza delle maggioranze. Questa soggettività è lo specchio di una necessità di indipendenza che il Costituente ha sposato per evitare il rischio di sottoporre la magistratura al controllo degli altri poteri, in particolare di quello esecutivo. Il motivo? Uscivamo dal fascismo e i padri costituenti volevano che si garantisse una terzietà che impedisse una involuzione autoritaria. Questa legittima preoccupazione ha prodotto una magistratura indipendente e organizzata in forme che, in un qualche modo, sono politiche. Di questo dobbiamo prendere atto.
E per questo, come ha scritto, non ci si può stupire dell’esistenza delle correnti…
L’articolazione correntizia è un percorso quasi naturale di un “corpo politico”. Quanto alla degenerazione di queste correnti, divenute grumi di potere che rispondono a interessi più o meno privatistici, si tratta di una patologia che la magistratura vive in quanto investita dalla crisi che anche la politica tout court attraversa. Risente dello stesso problema che noi riscontriamo a livello parlamentare e soprattutto partitico. La configurazione politica della magistratura è qualcosa che non possiamo far finta di non vedere, che non possiamo ignorare: è inscritta nel progetto del Costituente. Ciò detto, come sappiamo, questa non è l’unica via possibile. L’alternativa alla forma “politica” è quella della forma burocratica (come per i Carabinieri e la Guardia di Finanza per esempio), fondata su un rapporto gerarchico funzionale in cui il merito è sottoposto ad una valutazione gerarchica delle carriere, perché si ritiene che queste debbano essere gestite legittimamente dai livelli più alti rispetto ai livelli più bassi. Questa è la modalità di configurazione tipica di una burocrazia pubblica, che è chiaramente sottoposta al controllo dell’esecutivo, nel caso specifico al Ministero della Difesa. Una comunità politica, invece, non si organizza attraverso una dipendenza gerarchica ma attraverso forme associative, e misura la sua competenza, la sua responsabilità e le carriere anche attraverso i rapporti di forza che si strutturano attraverso le forme organizzative che si da. E’ evidente che le carriere della magistratura non vengono definite attraverso una valutazione gerarchica, ma sono il frutto di accordi pattizi tra le correnti. Questo non può stupire. Poi, che queste queste transazioni abbiano una forma onorevole di un dibattito che tenga conto dei valori a cui si ispira la figura del magistrato o che degenerino in “do ut des” pattizio tra interessi privatistici che diventano prevalenti, questo sicuramente è da iscrivere a uno scadimento generale della classe dirigente del paese, alle contaminazioni con altri poteri dello Stato e all’esposizione mediatica. Sono questi fattori a giocare un ruolo negativo. Ab origine, però, esiste una dimensione politica che non può essere ignorata, rimossa o sterilizzata in forme che possono apparire la soluzione, ma in realtà ne sono la negazione.
A cosa si riferisce in particolare?
Penso, ad esempio, alla proposta del sorteggio per l’elezione dei membri togati del CSM. Questa proposta mi pare una spia del degrado culturale e civile che la magistratura vive. Allo stesso modo, le correnti non si possono abolire se si mantiene una configurazione politica. L’utopia di risolvere abolendo le correnti è una bugia, è una menzogna nei confronti dei cittadini quando proviene dalla bocca di politici che si propongono con uno spirito moralizzatore.
Quali sono, allora, le possibili soluzioni dal suo punto di vista?
Io non sono tecnico della materia, ma ho ascoltato con interesse le tesi del Professor Di Federico, per esempio. Io mi − e vi − pongo un’ipotesi, su cui non ho certezza: una magistratura organizzata gerarchicamente, come una burocrazia pubblica, con un livello di autonomia speciale rispetto a Carabinieri e altra burocrazia, non sottoposta all’esecutivo ma a una forma di controllo parlamentare – espresso in forme tali da garantire comunque un’ autonomia effettiva -. Questa mi pare un’ipotesi meritevole di essere presa in considerazione. Ciò, partendo dal presupposto che, in una democrazia parlamentare, nonostante la necessità della dialettica dei tre poteri, il Paramento incarna l’essenza della democraticità di un sistema. In tal senso, si potrebbe immaginare una burocrazia altamente indipendente e sottoposta a un vaglio parlamentare. Ribadisco, non sono né un costituzionalista né un teorico dei sistemi giudiziari, questa è una suggestione che meriterebbe un approfondimento. Al contrario, se vogliamo difendere la configurazione attuale, quella che la Costituzione ha dato alla magistratura, dobbiamo immaginare che l’ipotesi di depoliticizzare la magistratura sia una bugia clamorosa. Quello che possiamo e dobbiamo fare, allora, è curare la qualità della dialettica e dell’offerta politica, che significa cambiare in generale la cultura politica del paese. Questo è un fenomeno che attraversa tanto la magistratura quanto il quadro partitico. Dovremmo fare, dunque, il contrario di ciò che si dice: non abolire le correnti ma, al contrario, rilegittimarle, nel senso di dargli una dignità politica e fare in modo che non siano più il mandante o il mandatario estrattivo di interessi esterni o privatistici che s’intrecciano impropriamente con l’esercizio delle funzioni. Si dovrebbe fare in modo, in definitiva, che si carichino di contenuti e valori politici più nobili.
In che modo si può incidere su questo?
Per esempio, riavvicinando il potere giudiziario al sapere giudiziario. Oggi c’è una distanza abissale, percepibile anche nei convegni, nelle posizioni e negli scritti dell’accademia e dell’avvocatura, rispetto a quelli della magistratura. C’è uno scarto incolmabile. Questo probabilmente dimostra che la magistratura si è strutturata come un potere ma che ha rifiutato il suo ancoraggio ai saperi. Intervenendo su questo, si può incidere sulla patologia del sistema.
Per concludere, mi riallaccerei alla questione del controllo parlamentare cui faceva riferimento prima. La soluzione che ha suggerito ricorda un altro tema divisivo, spesso ignorato dall’opinione pubblica ma fonte di un aspro dibattito tra magistratura e avvocatura: l’obbligatorietà dell’azione penale. Vi è chi, infatti, propone un suo possibile superamento affidando al Parlamento, dopo aver audito le diverse rappresentanze associative e istituzionali della magistratura, il compito di stabilire annualmente un elenco di priorità di politica criminale. Cosa pensa a riguardo?
L’obbligatorietà è stata già superata nella prassi. E’ superata dall’ esercizio discrezionale dei p.m. e da un uso spregiudicato della prescrizione da parte degli stessi, che di fatto esercitano questo potere discrezionalmente decidendo cosa deve andare in prescrizione e cosa no. La necessità di configurare delle priorità e delle gerarchie di politica criminale è stata, se ricordo bene, oggetto di uno studio di una commissione quando Michele Vietti era Vice-presidente del CSM. Questo studio giunse ad un’architettura complessa, che passava attraverso una dialettica interna che coinvolgeva i procuratori generali di Cassazione e ancorava questa dialettica ad un controllo parlamentare in forme tutte da costruire. In questo modo, penso si possa indirizzare l’azione giudiziaria verso finalità pubbliche ed interessi democraticamente legittimati (e non frutto di posizioni autocratiche). L’ombrello della funzione di controllo parlamentare può dare a questi indirizzi una sostenibilità. Ripeto, la bozza di quel gruppo di studio istituita da Vietti fu oggetto di un libro che è ancora oggi reperibile, e su cui si potrebbe articolare una proposta modificando i suoi punti di debolezza. Io credo che vada rafforzato il controllo parlamentare sugli indirizzi di politica criminale, perché non può essere patrimonio esclusivo di un potere non elettivo ma deve essere espressivo di sovranità, e non di chi si autoproclama sovranità.
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