Matteo Muzio è giornalista, attualmente collabora con Il Corriere della Sera ed è curatore di “Jefferson- Lettere sull’America”, newsletter bisettimanale sugli Stati Uniti. Con lui, abbiamo cercato di capire quanto il tema della sicurezza stia incidendo sulla campagna elettorale americana. Un’intervista per fare il punto sulla situazione statunitense, a pochi giorni dal voto.

Quanto hanno inciso tematiche come sicurezza sociale e giustizia sulla campagna elettorale per le presidenziali USA? 

A livello di sicurezza sociale, in questa particolare situazione imposta dalla pandemia è stato accettato anche dai repubblicani ciò che è stato per molti anni un tema trasversalmente impopolare, ovverosia quello del “big government” e, perciò, dello Stato “pesante” ed interventista nell’economia − pensiamo a Bill Clinton, che già negli anni ’90 affermò: ”the big government era is over”. Hanno addirittura fatto ricorso ad opere assistenzialistiche come l’helicopter money e ad altri interventi di welfare piuttosto incisivi. I repubblicani, però, e sta qui la vera differenza con i democratici, vorrebbero eliminare queste misure appena terminata l’emergenza. Da parte dei democratici, invece, c’è un’intenzione più radicale di riforma del welfare: essi intendono costruire un sistema strutturale e duraturo di supporto alla popolazione, basato sul modello europeo soprattutto in tema di lavoro, maternità e sanità. Per quanto riguarda la giustizia, i temi più importanti sono stati sicuramente la riforma delle forze di polizia, l’incarcerazione di massa e la questione riguardante la Corte suprema: tutti argomenti di cui avremo modo di discutere più avanti. 

Il tema della police brutality ha avuto risonanza in tutto il mondo in questi ultimi mesi, ma non è certo una novità. Quali sono le motivazioni storico-sociali che lo rendono una costante nel sistema americano? È possibile sradicarlo? In termini elettorali, sarà più remunerativa la linea “law and order” di Trump o quella maggiormente attenta ai diritti di Biden?

L’approccio alla tematica è cambiato molto negli ultimi anni. In realtà, ancora oggi ci sono senatori – tra cui Tom Cotton, uno stretto alleato di Trump – che ritengono ci sia un problema di sotto-incarcerazione e di debolezza delle forze dell’ordine. Per capire le cause del fenomeno, però, bisogna partire dal principio. La tendenza all’incarcerazione di massa era diffusa prima degli eventi innescati dal caso George Floyd. Addirittura l’attuale attorney general, Willian Barr, ne era un fiero sostenitore quando ricopriva la stessa carica sotto la presidenza Bush. Successivamente, rappresentò uno degli argomenti con cui Bill Clinton vinse le presidenziali del ’92, sostenendo che anche i democratici avrebbero adottato una linea dura contro la criminalità, quindi favorendo l’incarcerazione di massa. I dem si allinearono a questa tendenza punitiva al punto che per mano di Clinton fu emanata la legge sul “crime bill”, di cui Joe Biden fu uno dei firmatari. Queste tendenze ci fanno capire come all’epoca ci fosse un approccio totalmente differente e una tendenza punitiva bipartisan. Se negli anni ’90 entrambi i partiti maggiori erano concordi sul tema, bisogna rilevare che oggi questa linea sull’incarcerazione di massa ha perso popolarità addirittura tra i repubblicani, tant’è che nell’ultimo dibattito Trump si è addirittura spinto a dire che è stata varata una riforma radicale del sistema carcerario, con l’obiettivo di evitare un eccesso d’ingressi in carcere −in particolare, per reati legati agli stupefacenti. La police brutality è un diretto derivato di questo approccio. Le forze dell’ordine sono state pesantemente militarizzate dal governo e spinte ad adottare una linea sempre più dura nella gestione dell’ordine pubblico. Ciò è anche favorito dalla c.d. qualified immunity, un tipo di immunità legale grazie alla quale un poliziotto può esser incriminato solo se ha violato un diritto costituzionale. In questo, viene esclusa dall’area del penalmente rilevante la violenza in quanto tale. È poi da precisare che, nonostante si parli genericamente di “polizia”, dovremmo più correttamente riferirci alle “polizie”, dato che non esiste un unico corpo di polizia federale. Ogni Stato ha i propri corpi di polizia e le proprie regole, pertanto diventa più difficile analizzare la questione da un punto di vista generale. La police brutality è un fenomeno che si può sradicare? Sicuramente sì, ma non con la linea scelta dall’ala sinistra del Partito Democratico, secondo cui si sarebbe dovuto procedere ad un definanziamento dei corpi di polizia (“defund the police”) per destinare il ricavato a programmi sociali. Sicuramente finanziare programmi sociali può sortire un effetto positivo nel lungo periodo, ma lasciare i corpi di polizia finanziariamente scoperti non è la soluzione adeguata. Tant’ è vero che Biden non ha mai sposato tale linea, e ciò ha pagato in termini elettorali. Per quanto riguarda le rivolte violente che hanno seguito la morte di George Floyd, quelle che hanno avuto rilevanza mediatica e un impatto maggiore hanno interessato zone precise del Paese, come ad esempio Portland e Atlanta, dove sono state fortemente politicizzate. Tuttavia, restano casi circoscritti: le persone che vivono in città meno esposte a tali dinamiche sono molto interessate alle proteste e alla loro gestione. Al contrario, la pandemia ha interessato la generalità della popolazione. Ciò ha fatto sì che durante la campagna elettorale, le attenzioni maggiori siano state rivolte a temi come l’economia e la sanità. Infatti, dopo un mandato presidenziale che nei primi tre anni ha riscosso indubbi successi in campo economico, un quarto anno in cui l’economia è a livelli disastrosi – paragonabili solo a quelli della grande crisi del ’29 – è una grossa debolezza per Trump. I democratici stanno cavalcando questo tema, più che quello della police brutality

Sempre con riferimento alla police brutality e ai tumulti popolari suscitati dal caso George Floyd, ritiene che questo periodo della storia americana assomigli a quello delle battaglie per i diritti civili che degli anni ’60? 

Non credo che questo periodo sia assimilabile a quello dei movimenti per i diritti civili. Nonostante le restrizioni al voto poste in alcuni stati repubblicani come il Texas o la Florida – chiara espressione di razzismo sistemico -, siamo ben lontani da una situazione drastica come fu la segregazione razziale. Quest’ultima rappresentava un sistema istituzionalizzato di oppressione continua, in ogni aspetto della vita: dal viaggio sull’autobus fino alla cene al ristorante, bianchi e neri venivano sistematicamente separati. Al tempo, la segregazione razziale era addirittura un argomento costante di campagna elettorale, sdoganato ed accettato anche in ambiente democratico. Ora la situazione è completamente diversa.

Trump ha reintrodotto la pena di morte federale. Questo argomento sta avendo spazio nel dibattito pubblico?

La pena di morte federale formalmente non è stata reintrodotta perché de iure non è mai stata abolita. Obama l’aveva abolita solo di fatto, sospendendone le esecuzioni. Ai tempi di G.W. Bush, presidente favorevole alla pena di morte, ci furono solo tre esecuzioni a livello federale: Timothy McVeigh, l’attentatore di Oklahoma City, poi Juan Raul Garza, esponente del cartello messicano, ed infine un caso di stupro e omicidio. Tutti casi estremamente gravi, e tutti concentrati nel primo anno del primo mandato di Bush. Prima di questi episodi, l’ultima pena di morte fu irrogata nel ’63, ai tempi della presidenza di Kennedy. Trump, a differenza dei suoi predecessori, ha utilizzato la pena capitale in modo molto più esteso: ne sono state irrogate ben sette negli ultimi sei mesi e altre tre sono in programma, anche se non è escluso che Biden – qualora risulti vincitore – possa sospenderle. Tuttavia, l’abolizionismo resta un argomento marginale in un dibattito pubblico monopolizzato da temi come la gestione economica e sanitaria del Paese. Storicamente, solo Jimmy Carter (Presidente democratico 1977-1981) si spese attivamente per l’abolizione della pena di morte federale, nonostante al tempo fosse osteggiato anche dagli stessi democratici, in particolare nel Sud.  

Le carceri statunitensi sono tra le peggiori nel mondo occidentale per quanto riguarda il sovraffollamento e il rispetto dei diritti dei detenuti. L’unico partito politico attento alla condizione delle carceri sembra essere il partito libertario, guidato da Jo Jorgensen, che sappiamo avere una percentuale minima di consensi. Questo è un tema di cui si sta discutendo in campagna elettorale o, al contrario, Biden e Trump preferiscono evitarlo? 

Il Partito Libertario – nonostante sia marginale nel sistema politico USA – ha prestato un’estrema attenzione a questo argomento, con posizioni pressoché sovrapponibili a quelle del Partito Radicale in Italia. Abbiamo accennato prima al tema dell’incarcerazione di massa. Sul punto, Joe Biden ha espresso una posizione molto decisa auspicando una riforma in tal senso; riforma che, purtroppo, non risulta essere né semplice né popolare. I diritti dei detenuti, infatti, sono spesso un tema trascurato nel dibattito politico per la banale ragione che le persone incarcerate non hanno diritto di voto, quindi non si ha un grande interesse alla loro tutela. Al contrario, la retorica repubblicana sul tema è stata portata avanti all’insegna di slogan come “Biden libererà i delinquenti”, “crescerà l’insicurezza”, “la polizia sarà senza finanziamento”. Emblematico è uno spot raffigurante una signora anziana che sta per essere derubata e, nonostante riesca a chiamare la polizia, non riceve risposta poiché manca il personale a causa del definanziamento. Il tema rappresenta uno dei cavalli di battaglia dei repubblicani, e probabilmente avrebbe trovato molto più spazio nel dibattito pubblico se le elezioni si fossero svolte in uno scenario economico-sanitario normale. 

La morte di Ruth Bader Ginsburg che significato ha avuto? Cosa pensa della proposta di Trump di nominare Amy Connet Barret come sua sostituta?

Da tempo la salute della giudice Ginsburg era precaria: è accaduto ciò che tutti i democratici temevano da tempo. Già Barack Obama nel 2013 le chiese di dimettersi per poter nominare un sostituto d’orientamento progressista, ma RBG non lo fece. Il piano di riportare la Corte Suprema in area conservatrice non è propriamente un’idea trumpiana, bensì è un obiettivo che da diversi anni i repubblicani stanno portando avanti. La Corte Suprema, infatti, è un organo storicamente conservatore. Sia negli anni del new deal che in quelli a cavallo tra l’800 e il ‘900, la Corte ha assunto incisive posizioni conservatrici, ad esempio sancendo la costituzionalità della segregazione razziale (orientamento poi ribaltato dalla Corte di Warren negli anni ’50). A differenza di quanto si pensava, Mitch McConnell (capogruppo della maggioranza repubblicana al Senato) non vuole rischiare di tenere in bilico la nomina della giudice Barrett. Anzi, vorrebbe procedere subito alla sua nomina, scongiurando così – in caso di sconfitta – la possibilità che i senatori repubblicani ritirino il consenso che avevano precedentemente accordato. Tuttavia, la nomina affrettata potrebbe provocare un grave malcontento nell’elettorato, dato che quando morì il giudice Scalia (pertanto a situazione rovesciata) McConnell, in modo spregiudicato e opportunista, rimandò l’elezione del giudice entrante in periodo post-presidenziale, affermando di voler valorizzare il voto popolare. I democratici si troverebbero quindi a fronteggiare una Corte Suprema che conta 6 giudici conservatori contro 3 giudici progressisti. Sembra che Biden abbia addirittura la tentazione di allargarne la composizione aumentando il numero dei giudici fino a  15, come minacciò di fare già Roosvelt nel ’37. Per quanto riguarda la Barrett, è sicuramente la giudice più conservatrice tra quelli nominati da Trump (Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh hanno talvolta assunto le posizioni dell’ala liberal), e si pone in linea con l’originalismo conservatore di Scalia, Thomas e Alito. Il Presidente l’ha nominata per ottenere la massima polarizzazione possibile all’interno alla Corte Suprema. La mossa politica, a mio avviso, ha giovato più a McConnel che a Trump, dato che l’elettorato conservatore non sarà spronato a “salvare” il presidente in vista della nomina della giudice. Anzi, potrebbe sortire l’effetto contrario.