A causa dell’aumento della presenza di telefoni cellulari nelle carceri italiane, il Ministro Bonafede ha proposto l’inserimento nel codice penale di una nuova fattispecie incriminatrice rubricata “accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti”. Nel Regno Unito, al contrario, il Segretario di Stato alla Giustizia David Gauke, davanti ad una situazione statisticamente più grave della nostra, ha pianificato l’installazione di un telefono all’interno di ogni cella entro il 2020. Un rapporto della Camera dei Lord, infatti, aveva rilevato che i buoni rapporti familiari sono “indispensabili” per la riabilitazione dei detenuti, e una ricerca citata dall’esecutivo aveva mostrato che coloro che ricevono visite familiari hanno il 39% in meno di probabilità di essere recidivi. Detto ciò, se da un lato è doveroso evitare di perdersi in slanci comparatistici scriteriati o superficiali, dall’altro non si possono non notare il differente approccio del governo e la profonda distanza di metodo (oltre che nel merito) tra la gestione del fenomeno in Italia e quella riscontrata in altre importanti democrazie europee. L’impressione, infatti, è che l’intervento in discussione, come avviene ormai da tempo, si riduca a un’opzione meramente afflittiva e simbolica, che punta a saziare le richieste di un’opinione pubblica accecata dall’ossessione punitiva piuttosto che essere il prodotto di una ricerca o di un dibattito politico approfondito (l’unico realmente utile a garantire un bilanciamento dei diversi interessi in gioco e a risolvere sostanzialmente il problema in questione). Introdurre nuovi reati è semplice, gestire la realtà penitenziaria valorizzando i precetti costituzionali e tutelando i diritti dei detenuti è, al contrario, molto più complesso. Eppure, dovrebbe rappresentare l’obiettivo minimo di ogni Guardasigilli.
Il quotidiano del Ministero della Giustizia ha riportato che a settembre 2020 nelle carceri italiane, durante le perquisizioni delle celle, sono stati trovati 1761 telefoni cellulari . Nel 2019 se ne registravano 1206, mentre erano 394 nel 2018 [1]. Davanti alla crescita di questo dato, il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha voluto proporre, a mezzo del c.d. “Decreto sicurezza bis” (già approvato dal Consiglio dei Ministri, ma ancora in attesa d’essere presentato alle Camere per la relativa conversione in legge), la creazione di una nuova figura di reato con l’introduzione nel codice penale dell’art. 391-ter, rubricato “accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti”. Nella disposizione, viene prevista la pena della reclusione da 1 a 4 anni sia per il detenuto che indebitamente riceva o utilizzi un apparecchio telefonico sia per chi, altrettanto indebitamente, glielo abbia reso disponibile o ne abbia consentito l’utilizzo. Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense, la pena risulta aggravata (da 2 a 5 anni – chiaramente, l’aggravamento è previsto soltanto per chi introduce, e non per chi riceve, ça va sans dire). Infine, è stato modificato di conseguenza l’art. 391-bis c.p., concernente gli stessi fatti quando, però, sono coinvolti i ristretti sotto il regime del 41-bis. Qui, da una parte vengono innalzate le pene previste per chi agevoli le comunicazioni (da 2 a 6 anni, mentre da 3 a 7 anni nel caso in cui si tratti di pubblico ufficiale, di incaricato di pubblico servizio o di chi svolge la professione forense), dall’altra viene estesa la pena della fattispecie base (appunto, da 2 a 6 anni) anche allo stesso detenuto sottoposto al regime del cosiddetto “carcere duro”. Rimane da chiedersi se la criminalizzazione di questi fatti (prima trattati solo a livello disciplinare e risolti internamente) fosse davvero l’unica strada percorribile. Una scelta, questa, che oltre a riflettere l’atteggiamento politico criminale tutt’altro che improntato all’idea liberale di un diritto penale minimo, riporta inevitabilmente all’attenzione il tema (mai esaustivamente affrontato dal legislatore) del diritto all’affettività dei detenuti. In conclusione, ci si è subito preoccupati − in un momento, tra l’altro, di pandemia − di creare una fattispecie penale ad hoc per reprimere la condotta, invece di provare ad indagarne l’origine e, in un secondo momento, intervenire con una riforma della disciplina penitenziaria più attenta alle esigenze delle persone ristrette. E’ bene sottolineare che l’affettività rientra a vario titolo nel novero dei diritti costituzionalmente protetti, ed è materia ampiamente discussa in ambito europeo. Norme di rilievo sono, ad es., gli artt. 29 e 30 Cost., che tutelano la famiglia e la genitorialità, e l’art. 28 o.p., dove si afferma che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. Viene poi in gioco il diritto alla salute (art. 32 Cost.), intesa come integrità fisica e psichica, nel valutare anche l’impatto psicologico che può avere nel detenuto una così profonda distanza dagli affetti più intimi.
Diametralmente opposta, invece, è stata la reazione ai 10.643 telefonini sequestrati nel 2017 nel Regno Unito in 118 istituti penitenziari (numeri in proporzione molto più alti rispetto ai nostri, come ha scritto Rita Bernardini). Qui, infatti, il Segretario di Stato alla Giustizia, David Gauke, ha elaborato un piano di installazione di un telefono all’interno di ogni cella entro il 2020. Un rapporto della Camera dei Lord, infatti, aveva rilevato che i buoni rapporti familiari sono “indispensabili” per la riabilitazione dei detenuti, e una ricerca citata dall’esecutivo aveva mostrato che coloro che ricevono visite familiari hanno il 39% in meno di probabilità di essere recidivi. Il progetto in questione ha riguardato, inizialmente, solo 50 prigioni di Inghilterra e Galles, ed in un secondo momento è stato esteso a tutti gli istituti inglesi e gallesi. D’altronde, l’iniziativa di destinare un telefono fisso in ogni cella per contrastare il fenomeno del traffico di cellulare e, nello stesso tempo, di consentire legalmente ai detenuti di parlare con familiari e amici (a qualsiasi ora), era stata presa in Francia da Macron nel 2016, e già allora si parlava di “véritable révolution”. In Italia, la possibilità di effettuare colloqui visivi e telefonici con i propri familiari è prevista dall’art. 18 o.p., e al detenuto sono concessi 6 incontri al mese della durata di un’ora, oltreché una telefonata a settimana della durata massima di 10 minuti. Diversamente, in Spagna si può usufruire di 5 telefonate a settimana tramite apposita scheda, senza limiti di tempo e fino ad un massimo di 10 numeri telefonici preventivamente autorizzati [2]. Ora, se pensiamo a quanto è emerso dalle ricerche inglesi e lo poniamo in relazione al nostro art. 1 o.p. – secondo cui il trattamento penitenziario “deve essere conforme ad umanità”, orientarsi al “reinserimento sociale anche tramite i contatti con l’ambiente esterno”, garantire i diritti fondamentali e non ammettere restrizioni “non giustificabili con l’esigenza di mantenimento dell’ordine e della disciplina” -, non possiamo non notare una consistente discrepanza tra come in astratto dovrebbe essere (e, alla luce dell’analisi comparatistica, “potrebbe essere”) e come in realtà è. Se lo scopo della pena è la rieducazione (art. 27 Cost. comma 3) e il recupero sociale del reo in vista del suo ritorno in libertà, garantire un’espressione della sfera affettiva il più vicino possibile alla normalità dovrebbe essere la priorità di ogni percorso trattamentale; di certo, i pochi incontri concessi e la breve telefonata settimanale non rispecchiano quest’obiettivo.
Al contrario, questa realtà tradisce lo spirito che accompagnava la Raccomandazione del Consiglio d’Europa sulle regole penitenziarie europee, adottata nel 2006 dal Consiglio dei Ministri, in cui si legge che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”, e che “i detenuti devono essere autorizzati a comunicare il più frequentemente possibile per lettera, telefono, o altri mezzi di comunicazione, con la famiglia, e a ricevere visite da dette persone” [3]. Anche qui, si ribadisce come le restrizioni possano giustificarsi solo alla luce del mantenimento dell’ordine, della sicurezza, della prevenzione dei reati e della protezione delle vittime dei reati. Non è, però, ragionevolmente presumibile che tali esigenze si riferiscano in maniera indistinta a tutti i detenuti, a prescindere dai reati commessi e dai progressi eventualmente fatti durante la permanenza in istituto. Per concludere, si evidenziano alcune parole della Corte Costituzionale nella sentenza 349/1993, per cui “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”. L’Italia, come è emerso finora, nel panorama delle principali democrazie europee conserva una posizione arretrata, distante dalla realtà statistica (vedi il confronto con il Regno Unito) e dal paradigma della pena utile e umana, anche sul piano della gestione dei rapporti e dei contatti tra i detenuti e l’esterno (in particolare, con riferimento alla sfera familiare e affettiva). L’impressione è che, questa volta come già molte altre, l’intervento del legislatore si riduca a un’opzione meramente simbolica e inutilmente afflittiva. Una risposta che punta a saziare le richieste di un’opinione pubblica accecata dall’ossessione punitiva, invece di riflettere ponderatamente su proposte atte ad operare un equo bilanciamento tra le legittime necessità di sicurezza della comunità e i diritti fondamentali del detenuto, rectius dell’uomo.
- Fiorenza Elisabetta Aini, “Dl Sicurezza: diventa reato introdurre cellulari negli istituti penitenziari“, Quotidiano del Ministero della giustizia
- Per il dato spagnolo: Roberta Palmisano, “Carcere e affettività”, Giustizia Insieme, 9 Marzo 2020.
- Art. 5 “principi” e art. 24 “contatti con l’esterno”
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