Abbiamo incontrato Marco D’Orazi, giudice presso la II Sezione Civile del Tribunale di Bologna e cofondatore della corrente Autonomia e Indipendenza. Con lui abbiamo parlato del suo pamphlet “Una giustizia degna dell’Italia. Idee sparse per la riscossa della magistratura”, uscito di recente per la casa editrice Pendragon.
Innanzitutto, ci teniamo a ringraziarla perché è sempre più raro trovare magistrati, ed in generale cittadini, disponibili a un dialogo laico e aperto. Soprattutto considerando la diversa opinione su vari temi.
Grazie a voi, per la disponibilità e l’interessamento.
Dalla pubblicazione del suo libro, la più grande reazione è stata la recente radiazione di Palamara, calcolabile e fatale. Per il resto, un affastellamento di proposte sulle quali deve ancora formarsi una maggioranza parlamentare. Innanzitutto, ci dica cosa non è successo che, secondo lei, sarebbe dovuto accadere o avrebbe voluto che accadesse in questo periodo.
Serve una maggiore lucidità nelle risposte che sono state date ai fatti che sono emersi. Bisogna innanzitutto distinguere la risposta punitiva dal problema politico. Il processo punitivo deve seguire la propria strada secondo le sue regole. Queste sono regole di garanzia: all’interno del processo, anche disciplinare, valgono il diritto di difesa e le garanzie individuali; questi aspetti devono interessare il singolo individuo che è colpito, non la magistratura nel suo complesso. La reazione globale del ceto dei magistrati e del decisore politico dev’essere lucida e più incisiva. Questa lucidità per ora è mancata.
Lei struttura il libro ripetendo il calco di una cartella clinica. Di qui, approfondisce quella che chiama “la terapia” della “malattia del sistema di autogoverno”. In un particolare passaggio, espone il rapporto inverso tra perdita di caratterizzazioni ideologiche delle correnti e il particolarismo diffuso, come se alle correnti, pur di sopravvivere, non fosse rimasto che badare a sé stesse. Lei pensa che abbiano mai svolto una funzione sana? E poi, cosa la convince che non rimangano centri particolari di interessi autoreferenziali?
Innanzitutto, bisogna dire che l’inserimento della magistratura all’interno del modello costituzionale è avvenuto grazie all’associazionismo e alle correnti nei grandi momenti degli anni ’60. Nel ’63 nacque Magistratura Indipendente, nel ’64 Magistratura Democratica – fondata proprio a Bologna al collegio Irnerio – e negli anni a venire tutte le successive formazioni. Ai tempi, una magistratura che non aveva ancora accettato il modello costituzionale ha fatto passo avanti enormi: l’ingresso delle donne, la riforma gerarchica della magistratura stessa, la lotta di tutte le correnti per l’evoluzione del codice Rocco e soprattutto la capacità della magistratura di rendersi autonoma e non avere timori nei confronti del sistema politico. Grazie a questa evoluzione, è stato possibile che negli anni ’70, gli anni del terrorismo e dell’associazionismo mafioso, questi fenomeni fossero affrontati con lo strumento del processo penale. Naturalmente con regole un po’ meno garantiste di quello che vorremmo, ma con le regole del processo. Non si può dire lo stesso per altre esperienze, anche in Europa; ad esempio in Inghilterra, quando il terrorismo ha colpito duramente – pensiamo all’aspro conflitto con l’Irlanda del Nord – gli inglesi si sono tolti la parrucca da giudice e hanno fatto leggi speciali che noi non abbiamo mai avuto. In Italia, passata l’emergenza di cui parlavo, a causa della perdita degli elementi ideali delle correnti, queste sono rimaste come crisalidi: strutture ormai svuotate di spinte ideali. Ciò ha portato ad una situazione di stallo che dura da ormai vent’anni. Se pensassimo ad una riforma della magistratura, non credo che sarebbe un problema la permanenza delle correnti. Usando un’espressione di Popper direi che “il decisore non dev’essere un ingegnere, ma un giardiniere”, nel senso che non deve intervenire in modo brutale sulla realtà delle cose, ma deve favorire e sviluppare quella che è già presente. Allora possiamo dire che noi magistrati dobbiamo eliminare la parassitosi dal giardino; che poi resti un sistema con le correnti o senza correnti, non è importante. Purché, beninteso, siano correnti senza correntismo. In caso contrario, il sistema verrà smantellato e le correnti eliminate. A favore del mantenimento del sistema delle correnti, c’è l’esigenza che il pluralismo, inevitabile in ogni potere – anche un potere neutro come quello giudiziario -, si esprima anziché rimanere occulto. C’è la necessità di un confronto culturale con posizioni ideologiche diverse, le quali non sempre sono sovrapponibili a quelle politiche tradizionali e quindi s’intersecano in un modo che l’opinione pubblica non coglie. Contro il sistema delle correnti vi è il fatto che in una società sospettosa e molto faziosa come quella italiana, l’appartenenza ad una di queste possa appannare l’idea d’imparzialità del magistrato. Oltretutto, la presenza di correnti è molto più sviluppata in Italia che in altri paesi.
Lei afferma: “non sembra che i magistrati siano hic et nunc disposti ad abbandonare i loro gruppi”. Poi, scandisce criticamente la cavità delle tensioni correntocratiche. L’immagine restituita, quindi, è di una realtà incancrenita. Posto che l’associazionismo deve essere garantito anche all’interno della magistratura, e che un certo moto particolaristico esisterà sempre perché appartiene all’irriducibile “vita economica dello Spirito”, come la chiamava Benedetto Croce; sembrerebbe necessario un altrettanto radicale contraltare riformistico. Cosa pensa della proposta UCPI, che implicherebbe una revisione costituzionale?
Dobbiamo fare una diagnosi differenziale. Sempre usando una metafora medica, la malattia che affligge la magistratura non è lieve, ma circoscritta. Il problema che è emerso in questi ultimi tempi non ha nulla a che fare con la lentezza della giustizia, che tra l’altro per il civile è sostanzialmente in via di risoluzione nonostante qualche realtà sia ancora problematica da questo punto di vista. Per il penale si farà più fatica perché vi è un problema di rito, mentre per il civile è un problema di flussi. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la politicizzazione della magistratura e con la separazione delle carriere. Separazione delle carriere e aumento della velocità della giustizia sono questioni che meritano altre riflessioni. Per quanto riguarda la proposta delle Camera Penali io sono contrario, su tutti i profili. Il primo riguarda i due grandi sviluppi garantisti della storia del nostro paese. Noi italiani tendiamo a dire che abbiamo una scarsa organizzazione sociale, in realtà non è così. Ci sono elementi nella nostra storia di cui dobbiamo essere orgogliosi, ad esempio siamo stati il primo grande paese ad abolire la pena di morte: di fatto nel 1865, di diritto nel 1889 con il codice penale Zanardelli. L’Inghilterra lo ha fatto nel secondo dopoguerra, la Francia solo nel 1981, negli Stati Uniti c’è ancora. La grande stagione riformista di fine ‘800 che porta il nome di Zanardelli, cioè della sinistra storica, non ha condotto solo all’abolizione della pena di morte ma ad una grande serie di innovazioni. Tra le altre, vi è la scelta di unificare le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, ritenuta elemento fondamentale per un processo più giusto. A differenza del sistema francese, che lascia il PM nelle mani dell’esecutivo, secondo me la nostra è una visione lungimirante che verrà presa a modello da tutta Europa. Sempre Zanardelli stabilì in modo inderogabile il concorso per l’accesso in magistratura; prima di allora, il governo possedeva ancora il potere di nominare qualche giudice. Il mantenimento del concorso è una garanzia che non assicura solo la parità di genere, la meritocrazia e il funzionamento dell’”ascensore sociale”, ma è soprattutto una garanzia di indipendenza: depoliticizza la magistratura e la rende meno partigiana. L’altro aspetto non condivisibile della riforma è il rapporto tra laici e togati. L’aumento dei membri laici potrebbe anche essere accettabile, ma non se questi sono tutti di nomina parlamentare. Quest’ultima ipotesi avrebbe come effetto quello di rendere il CSM ancora più politicizzato. Bisogna poi rilevare come l’organo di autogoverno sia un’invenzione introdotta dal Costituente italiano, che tutta Europa ci ha copiato negli anni a venire, utilizzando pressoché il medesimo rapporto tra laici e togati.
Lei parla di una necessaria “inversione etica o antidoto morale”, quindi di un’azione commissiva sull’etica. Tuttavia, l’etica è innanzitutto un moto irregolare e spontaneo, la convergenza di una somma di corse morali che non possono riguardare soltanto il professionista, ma richiamano l’uomo, dunque le sue provenienze più intime. In questo senso, un “intervento etico” sarebbe problematico. Lei dissente da questa definizione oppure, rimettendo davvero l’etica all’individuo, riconosce come unica opzione necessaria e praticabile la creazione di un ambiente il più possibile immunizzato dal particolarismo?
Che domanda difficile! Sì, mi riconosco in questa visione, ma cercherei di essere più semplice riguardo l’aspetto etico dei magistrati. Io, come ho scritto, faccio una prognosi favorevole poiché, guardando la magistratura da un punto di vista complessivo, questa si rivela essere un corpo sano. L’assunzione è legata ad un concorso meritocratico, e questo conferisce un senso di libertà interiore per cui una persona è consapevole che diventa magistrato perché se lo è meritato. In secondo luogo, il tasso di corruzione tra magistrati è sostanzialmente inesistente. Questi recenti fenomeni patologici che si sono palesati all’interno della magistratura non sono accettati dai magistrati (ed è certamente positivo), ma c’è troppa indifferenza. Il vero problema è che non c’è stata una reazione adeguata. Ciò, però, non significa che vi sia stata un’adesione implicita. Confido che questa spinta proveniente dall’opinione pubblica riesca a darci una scossa. Il Costituente ci ha conferito l’autogoverno, affidandoci la gestione e le chiavi della “casa”. Questo passaggio rappresenta il compimento della teoria della separazione dei poteri, ma la casa ora la dobbiamo pulire noi.
È stato più volte menzionato il tema della meritocrazia: quanto incide il sistema delle correnti a livello di nomine?
Non molto. Anche qui con una precisazione: anche le correnti hanno cura di selezionare i migliori. Ci sono però dei punti critici, ad esempio quello per cui i magistrati non iscritti in correnti vengono penalizzati, ed è questa una realtà degli ultimi anni. Quando non viene applicato il criterio meritocratico puro, penalizzando i magistrati non iscritti a correnti, si realizza un grave danno, in primis ai cittadini.
C’è un evidente sproporzione, in tutti i ruoli apicali, tra pubblici ministeri e giudici. Mi può spiegare il motivo?
Al CSM no, perché c’è una composizione esattamente parificata. Anche all’ANM ricordo che la maggior parte dei recenti presidenti sono stati giudici. Io questa sproporzione non la vedo, vedo una distinzione in altri termini. Possiamo dire che, in via tendenziale, il lavoro del civilista è un lavoro molto tecnico e con un minore impatto politico immediato; il lavoro del penalista, rientrando il diritto penale nel diritto pubblico (e quindi nella gestione della res publica), ha un maggiore impatto politico-mediatico.
Lei si sofferma molto sulla “pediatria dei giovani magistrati”. A proposito, non crede che la separazione delle carriere possa giovare in tal senso, permettendo anche una più specifica e ammodernata formazione verso indirizzi distinti?
Non penso. La formazione del giurista è unitaria, ma fare esperienze diverse arricchisce. Nella mia carriera inizialmente ho fatto il pubblico ministero: oggi sono un miglior giudice proprio perché in passato ho fatto il pubblico ministero. Il profilo che va esaminato è un altro: occorre riunire le professioni giuridiche in una comune cultura e riqualificare la figura del giurista. Bisogna agire anche e soprattutto sull’Università. L’assenza del numero chiuso a Giurisprudenza produce, come conseguenza, un eccessivo numero di laureati, la maggior parte di scarsa qualità. Ciò abbassa il livello del ceto dei giuristi e il discorso giuridico in generale. Nella considerazione sociale delle varie professioni, il giurista ha perso molto prestigio. La situazione ha inoltre prodotto diversi problemi di ordine pratico, sia per i giovani che intendono trovare lavoro sia nell’avvocatura, dove si registra una profonda crisi. La prima cosa da fare, quindi, è riqualificare tutto il ceto dei giuristi in modo da dare respiro economico all’avvocatura e innalzare il livello culturale. Ciò si può fare in due modi: possiamo mantenere il numero aperto e adottare il modello francese, dove la selezione universitaria viene effettuata al termine del primo anno di corso; oppure possiamo introdurre il numero chiuso come nelle altre facoltà, senza dar vita a quello che io chiamo ”l’effetto grondaia”, per cui gli studenti che non riescono a superare il test d’ingresso in altre facoltà universitarie finiscono a studiare Giurisprudenza. Quando questo obiettivo sarà raggiunto, il passo ulteriore è superare la balcanizzazione tra le professioni giuridiche. È evidente una divisione che si accentua tra le varie professioni giuridiche. Bisogna ricondurle, invece, ad un’unità culturale.
Un fenomeno abbastanza condiviso da tutta la letteratura penalistica è l’erosione del principio di legalità e a causa del cosiddetto “creazionismo giudiziario”. Qual è la sua opinione in merito?
Va sempre preservato quello che è stato chiamato il “potere neutrale” dei giudici, l’idea tradizionale per cui il giudice applica regole preesistenti. È pacifico che i principi fondamentali – come il divieto di analogia – debbano essere rispettati, mentre sul fatto che siano violati possiamo avere opinioni diverse. Io personalmente mi occupo di civile e in questo ambito c’è il problema delle “clausole generali”: fino a che punto il giudice può spingersi nella loro interpretazione? Ovviamente nel civile non si pone il problema delle garanzie individuali, ma si pone quello della legalità: il confine tra la “ricerca” e la “invenzione” delle regole è molto sottile. Questa consapevolezza, che deve rimanere costante nel giudice, tutela la legalità, evita forme di protagonismo giudiziario e, infine, risponde al modello costituzionale.
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