Il 6 agosto è apparso su Il Fatto Quotidiano un intervento di Gian Carlo Caselli. Il magistrato in pensione si occupa dell’eccessiva durata dei processi, problematica innegabile e sempre tristemente attuale. Secondo Caselli i rimedi tentati finora sono stati inadeguati, se non peggio e per questo invoca una vera, incisiva riforma. Si passa, quindi, alla lode del Ministro Bonafede che avrebbe il merito di aver provato ad improntare tale riforma. Il primo apprezzamento è per la mancata separazione delle carriere. La separazione, a dire di Caselli, comporterebbe la dipendenza del P.M. dal potere esecutivo, come dimostrerebbe l’esempio dei Paesi in cui è prevista. Tale automatismo non è però un dogma: anche in caso di carriere separate si possono prevedere lo sdoppiamento del CSM (un organo per la magistratura giudicante ed uno per gli inquirenti) e l’autonomia degli inquirenti dalle ingerenze del Ministro della Giustizia. Caselli, inoltre, omette di precisare come la separazione delle carriere caratterizzi gran parte dei Paesi occidentali (U.S.A., U.K., Germania, Spagna, Portogallo), democrazie compiute in cui vigono la separazione dei poteri e lo stato di diritto. Difficile dire che in tutti questi Paesi la
giustizia sia condizionata dalla politica. Dopo un ulteriore omaggio al progetto di riforma Bonafede (attento anche al profilo delle risorse e contenente vari punti che vanno in direzione giusta che però non vengono indicati) Caselli invoca una riforma radicale ed innovativa: l’abolizione dell’appello. La proposta non è nuova, lo stesso l’aveva avanzata anche nel 2016, sempre dalle pagine de Il Fatto Quotidiano e con i medesimi argomenti, a conferma di come sia un’idea radicata e diffusa
che riaffiora puntualmente.

 

Per sostenere tale proposta si fa riferimento in primis ad un presunto ragionamento di
sistema: negli ordinamenti con sistemi processuali accusatori è solitamente previsto un solo grado
di giudizio nel merito, poiché dal 1989 anche il sistema processuale italiano è improntato sul
modello accusatorio allora è coerente abolire l’appello. Sorge spontanea una domanda: perché il richiamo al modello accusatorio non vale anche per la separazione delle carriere? Nei sistemi accusatori le carriere di giudicanti ed inquirenti sono separate in ossequio al principio della parità delle parti dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale.
Perché in Italia il sistema accusatorio deve convivere con carriere non separate? Ma vi è una critica nel merito da porre alle argomentazioni di Caselli: nel sistema accusatorio anglosassone la sentenza viene pronunciata dal popolo tramite la giuria e per questo nonsi può impugnare una decisione del popolo. In Italia la decisione è pronunciata da magistrati in
nome del popolo e quindi può essere soggetta al controllo di altri magistrati.
Vi sono, pertanto, delle differenze notevoli tra il sistema accusatorio anglosassone e quello “misto” italiano che non si possono non considerare. Lo stesso Caselli sembra criticare tale natura anomala del sistema processuale italiano quando afferma che tenere i piedi in due staffe, non solo non risolve i problemi, ma crea confusione Non si può non concordare con tale analisi, peccato che in passato Caselli (come gran parte della Magistratura italiana, soprattutto quella organizzata) non si sia distinto per le sue posizioni in favore di un sistema accusatorio puro e critiche verso la controriforma inquisitoria apportata da giurisprudenza e legislatore. Quanto ai vantaggi che tale riforma comporterebbe, questi consisterebbero in una riorganizzazione delle risorse umane ed economiche, nel conseguente smaltimento dell’arretrato ed in tempi più brevi per i processi di primo grado. I magistrati ed il personale amministrativo delle Corti d’Appello sarebbero infatti destinati prima allo smaltimento dell’arretrato e poi al primo grado
di giudizio.

Sorge a questo punto un’altra domanda: per raggiungere il medesimo obiettivo prodotto dall’eventuale abolizione dell’appello (una più efficiente gestione delle risorse) non sarebbe più semplice ed indolore aumentare le risorse assumendo nuovo personale?
Lo stesso Caselli, inoltre, prevede la facile obiezione alla sua proposta: diminuirebbero le garanzie. La riposta è che la vera garanzia sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa ma le garanzie non sono in concorrenza tra loro: non si può sacrificarne una per assicurarne un’altra. La vera garanzia consiste nel diritto ad un giusto processo, con più gradi di giudizio, in
tempi ragionevoli. La Costituzione assicura la ragionevole durata del processo, non la sua brevità: il sacrificio delle garanzie sull’altare della brevità dei tempi porta ad un processo sommario non ad un giusto processo.

Ancor meno comprensibile è l’ulteriore argomentazione di Caselli. Secondo il magistrato inpensione il processo è diventato un percorso a ostacoli, pieno di trabocchetti, infarcito di regole che in realtà non sono garanzie ma insidie formali: opponibili a piene mani da chi – potendosi permettere difese agguerrite e costose – punta all’impunità attraverso la prescrizione.
Da ciò deriverebbe l’esistenza di un codice per i galantuomini (cioè le persone giudicate, in base al censo o alla collocazione sociale, per bene a prescindere) un altro per i cittadini. Nel primo caso il processo – con la sua interminabile durata – è destinato
soprattutto a misurare attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione; nel secondo caso la giustizia, pur funzionando malamente, spesso segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone. Il rimedio a questa giustizia di classe sarebbe l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio previsto da un articolo della cosiddetta "spazza-corrotti", proposta difesa da Bonafede e da Caselli. Innanzitutto Caselli omette di indicare quali sarebbero queste “regole che in realtà non sono garanzie ma insidie formali”. Forse le garanzie processuali tipiche del giusto processo? Si ripete poi la solita infondata argomentazione della prescrizione raggiunta grazie ai trabocchetti orditi dagli avvocati. Premesso che si tratta di rimedi previsti dalla legge per garantire il giusto processo, si omette sempre di precisare quali siano tali “trabocchetti”, considerato che gli impedimenti dell’imputato o del difensore sospendono la prescrizione.
Risulta, inoltre, ingenerosa ed infondata la categorizzazione degli avvocati in “costosi ed agguerriti”. Tutti gli avvocati, nominati di fiducia o di ufficio, al di là del loro onorario, adempiono con il massimo impegno e la massima dedizione il mandato difensivo.
Così come appare strumentale ed anacronistico il richiamo ad una presunta giustizia di classe: tesi non suffragata da alcun dato. Peraltro, a voler utilizzare le categorie richiamate da Caselli, l’appello sarebbe una ulteriore tutela a favore dei soggetti più deboli che, non potendosi permettere le difese “più agguerrite e costose”, potrebbero incorrere in una condanna ingiusta alla
quale potrebbero rimediare i giudici dell’appello.
Soprattutto non si coglie il nesso tra queste argomentazioni e l’abolizione dell’appello. Come potrebbe tale riforma risolvere le presunte problematicità indicate da Caselli? Abolendo le garanzie per tutti in nome dell’uguaglianza nell’ingiustizia?
Quanto alla riforma della prescrizione, che ne prevede la sospensione dopo il primo grado di giudizio (e che quindi sarebbe quasi inutile in caso di abolizione dell’appello), la logica è la medesima della proposta Caselli: abolire diritti e garanzie del cittadino, in questo caso però non per abbreviare i tempi dei processi ma per prolungarne l’agonia sine die.

Per concludere, tornando alla proposta principale di abolizione dell’appello, non si coglie il vero motivo di un attacco profondo ad un istituto radicato nella nostra tradizione giuridica che ha sempre svolto il ruolo di garanzia contro i possibili errori nel giudizio di primo grado. L’eventualità di errori non è certo remota come dimostra l’alta percentuale di sentenze di primo grado riformate
in appello. La Giustizia si riforma migliorando le sue criticità e non abolendo le sue strutture portanti e funzionanti. Sarebbe come, per ovviare alla carenza di operai e fondi per la costruzione di una strada, decidere di interrompere i lavori a metà percorso: il cantiere ovviamente durerebbe di menoma non si raggiungerebbe la meta.