Intervista a Gianpaolo Catanzariti, Responsabile Nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane.

La crisi sanitaria sta avendo un effetto dirompente sulla già tragica situazione degli istituti penitenziari. Tanto tra gli operatori quanto tra i detenuti, i contagi crescono quotidianamente. Ritiene i provvedimenti adottati dal Governo, da marzo fino al recente Decreto Ristori, adeguati a fronteggiare la situazione?

Io credo che i provvedimenti adottati dal Governo per affrontare l’emergenza sanitaria nelle carceri siano del tutto inidonei. La diffusione del Covid-19 è cominciata in un momento di sovraffollamento imperante. D’altronde, nonostante la condanna subita dall’Italia con la sentenza Torreggiani, la situazione cronica di sovraffollamento è stata sempre risolta temporaneamente con le sole misure-tampone, non in grado di ridurre realmente e nel lungo termine il numero delle persone detenute. All’inizio del periodo emergenziale, il numero totale dei carcerati superava la soglia di 60.000 unità, a fronte di una capacità di contenimento regolamentare sulla carta di 50.000; tuttavia, è risaputo che la capacità di contenimento reale è ancora inferiore. A questa già critica situazione si è aggiunta la grandissima deficienza rappresentata dall’affidamento alle ASL regionali del sistema sanitario penitenziario, avvenuto contestualmente allo smantellamento del sistema sanitario centralizzato. Tali problematiche vengono denunciate già da diversi anni, ma le istituzioni sono sempre rimaste insensibili. Il Covid-19 ha rischiato di trasformare le carceri in una bomba epidemiologica, la quale avrebbe provocato effetti perniciosi sia per le persone detenute sia per quelle libere, in quanto chi avesse necessitato di cure ospedaliere si sarebbe dovuto affidare al sistema sanitario esterno già ingolfato, in particolare per ciò che riguarda le terapie intensive. Di fronte a questa situazione, il Governo ha dimostrato tutta la sua incapacità affidando la vita dei detenuti alla ruota della fortuna, perché ha perseguito timidamente l’obiettivo di una moderata riduzione dimostrando di non aver compreso la gravità della situazione. Infatti, l’applicazione della detenzione domiciliare in luogo di quella detentiva (nel cosiddetto Decreto “Cura Italia”) era subordinata alla disponibilità di braccialetti elettronici per il controllo a distanza, di cui però non si conosceva il numero effettivo; oltre a ciò, il beneficio non era applicabile a coloro che erano sottoposti alla custodia cautelare, sebbene essi rappresentino un numero rilevantissimo dei detenuti totali. Alla fine del periodo emergenziale, le statistiche ufficiali ci hanno detto che i detenuti che hanno potuto usufruire di tale beneficio sono stati poco più di un migliaio: questo significa che la diminuzione del numero delle persone recluse registrata nei mesi più duri della pandemia è stata dovuta alla sensibilità e all’attività messa in campo dalla magistratura di sorveglianza – per ciò che concerne i condannati – e dalla autorità giudiziaria – per ciò che concerne le persone sottoposte alla custodia cautelare. Ancora una volta, quindi, la magistratura, in particolare quella di sorveglianza, si è trovata a supplire alla incapacità della politica di affrontare i problemi che affliggono il carcere.

E anche adesso, durante la seconda ondata, pare che l’intervento non sarà efficace…

Esattamente. Con il sopraggiungere della seconda ondata, il Governo non avrebbe dovuto ripetere l’errore commesso a marzo. Invece, non ha fatto altro che perseverare nelle scelte inadeguate fin qui descritte, rispolverando l’identica misura della detenzione domiciliare (ora, nel Decreto Ristori). Quest’ultima è stata ancora una volta subordinata alla disponibilità dei braccialetti elettronici, di cui ancora oggi non si conosce il numero effettivo. Non soddisfatto, il Governo ha deciso di restringere ulteriormente l’ambito di applicabilità del beneficio introducendo il divieto di scioglimento del cumulo, ossia impedendo al magistrato di concedere il beneficio a coloro che stanno espiando la parte di pena del reato comune e hanno già espiato quella del reato ostativo. Eppure, il Covid-19 ha dimostrato di non fare distinzioni, né tra condannati e soggetti in custodia cautelare, né tra reati comuni e reati ostativi, al punto che i decessi hanno riguardato sia persone in custodia cautelare sia persone detenute in regime di ostatività. Oggi i numeri dei contagi ci dicono che il quadro è davvero allarmante – oltre 600 detenuti e oltre 800 dipendenti dell’amministrazione penitenziaria risultati positivi, in 75 diversi istituti –, e ciò dimostra che il luogo comune per cui il carcere è un posto sicuro è falso, nonostante alcuni magistrati e alcuni giornalisti si facciano portabandiera del concetto per cui l’esecuzione penale deve essere un’ulteriore forma di contrasto alla criminalità organizzata, in barba al principio rieducativo statuito dall’art. 27 co. 3 Costituzione. É necessario che si adottino misure eccezionali al fine di contenere la circolazione del virus nelle carceri allo stesso modo in cui si prevedono per le persone libere.

Il virus ha messo a nudo criticità presenti da tempo, in particolare il fenomeno, ormai cronico, del sovraffollamento. Per cercare di attutire il colpo, ritiene opportuno ricorrere temporaneamente ad istituti come amnistia e indulto?

Sicuramente il momento eccezionale impone misure eccezionali. E soprattutto impone il linguaggio della verità: non possiamo nasconderci dietro il solito velo d’ipocrisia che governa il nostro Paese. Noi, come Osservatorio Carcere dell’UCPI, proprio di recente abbiamo lanciato un appello al Parlamento perché metta mano agli istituti dell’amnistia e dell’indulto. Sappiamo che nel ’92 è stata approvata una modifica costituzionale che ha innalzato il livello della maggioranza parlamentare necessaria per l’applicazione di tali istituti, di fatto impedendo la possibilità di adottare provvedimenti del genere se non con la quasi unanimità dei votanti. Nel clima politico attuale, così pervaso di giustizialismo, è inimmaginabile che il Parlamento possa adottare tali misure. Tuttavia, noi abbiamo voluto comunque lanciare questo appello, e per fortuna non siamo i soli. In particolare vorrei ricordare Rita Bernardini, che ha iniziato uno sciopero della fame (come era solito fare anche Marco Pannella) per attirare ancora una volta l’attenzione sulla situazione delle carceri e per sollecitare le istituzioni. Una iniziativa, quella di Rita, che esprime grande civiltà e senso democratico, a cui diverse persone hanno già aderito e che anche noi, come Osservatorio Carcere dell’UCPI, sosteniamo: io stesso domani farò il mio primo giorno di digiuno. Noi crediamo in questa proposta. È inutile nasconderci dietro il velo d’ipocrisia: oggigiorno il carico di lavoro dei nostri tribunali è abnorme anche a causa del proliferare di fattispecie di reato continuamente sfornate dal Parlamento, nella convinzione generale che vi debba essere una risposta unicamente di tipo penale a qualsiasi condotta, anche a quelle che non aggrediscono in maniera rilevante i beni fondamentali del nostro vivere civile. I tribunali sono gravati da numerosissimi procedimenti e in più adesso, a causa della situazione emergenziale che si sta vivendo, la loro attività è stata drasticamente ridotta. Di fronte ad una situazione del genere, non può non esserci una risposta da parte dello Stato. Il cittadino, che sia imputato o parte offesa, non può essere lasciato in balìa della giustizia o dell’amministrazione giudiziaria. Con la riforma della prescrizione, poi, davvero andiamo ben oltre ogni ragionevole durata del processo. Dinanzi a questa situazione, con coraggio, dobbiamo far ripartire il settore della giustizia e riportarlo in una dimensione conforme a Costituzione. È necessario, prima di tutto, un provvedimento di amnistia che consenta di ripartire in maniera civile nei nostri tribunali, poi, un provvedimento di indulto affinché si possa avere una riduzione di presenze all’interno del carcere. Tutto questo, potrebbe ben permettere di gestire con razionalità e intelligenza questa fase che stiamo vivendo.

Essere garantisti o anche solo porre l’attenzione sul problema carcerario, in questo momento, non giova in termini politico-elettorali…

Al livello in cui si trova oggi la politica nel nostro Paese, è chiaro che non conviene essere garantisti. Parliamoci con franchezza: la politica non guida più i processi della società come faceva in passato. Guidare non significa solo controllare, significa soprattutto orientare il cammino di una comunità con capacità e visione prospettica, guardando in maniera intelligente agli sviluppi futuri di una comunità. Ormai, la politica non ha più la capacità di progettare il domani perché vive per il consenso dell’oggi: l’orizzonte temporale è l’imminente elezione. Se questa è la condizione del nostro Paese e se il livello della politica è così basso e poco qualificato, è ovvio ed inevitabile che quest’ultima non guidi più i processi sociali, ma al contrario segua e assecondi gli istinti più bassi che si diffondono tra la popolazione.

Quali ricette propone l’Osservatorio Carcere delle Camere Penali per risolvere a lungo termine il problema carcere? Quali le vostre proposte di riforma? 

In primo luogo, vi è sicuramente quella di procedere a una seria riduzione del numero dei reati, dunque a una razionale ed effettiva depenalizzazione. Non è possibile affrontare ogni singolo comportamento del cittadino con una risposta sanzionatoria penale. Vi è un carico eccessivo di reati che inevitabilmente ha dei riflessi sul tema del sovraffollamento carcerario, specie se a questo si affianca una corsa del legislatore all’inasprimento delle sanzioni. Non a caso, il più importante intervento deflattivo degli ultimi anni è avvenuto in seguito all’intervento della Corte costituzionale – non del legislatore –, che ha dichiarato l’illegittimità della legge “Fini-Giovanardi” in cui era previsto l’inasprimento scriteriato delle pene per reati legati agli stupefacenti. In secondo luogo, riteniamo doverosa l’eliminazione dell’istituto dell’ostatività, al fine di consentire un’adeguata valutazione da parte del magistrato di sorveglianza del percorso rieducativo a cui il detenuto deve approcciarsi. Non si può consentire che lo Stato, rimettendo tutto all’istituto della collaborazione, si deresponsabilizzi. Eliminare l’ostatività permetterebbe alla stessa organizzazione penitenziaria di elaborare un percorso rieducativo ad hoc per ciascun detenuto, facendo altresì guadagnare a quest’ultimo consapevolezza nell’affrontare un percorso di risocializzazione nell’ottica di un futuro reinserimento nella società. Infine, sarebbe auspicabile un maggior ricorso alle misure alternative, che garantirebbe una razionalizzazione del sistema penale. Non si può consentire che l’unica risposta sanzionatoria sia sempre e solo il carcere; lo impone implicitamente la Costituzione stessa quando, all’art. 27, sancendo il divieto di “pene disumane e degradanti”, utilizza il concetto di sanzione penale al plurale. Il carcere e le misure penitenziarie hanno una ragion d’essere solo se – oltre a tutelare la comunità in termini di sicurezza – restituiscono alla società una persona che non ricade nel reato. Gli effetti della recidiva non riguardano solo il singolo soggetto che commette il reato, ma la comunità tutta, la quale si trova a dover subire le nuove ferite commesse dal reo. È un dato ormai pacifico che il tasso di recidiva è molto più basso per quei soggetti che hanno incontrato nel loro percorso carcerario una misura alternativa; al contrario, è molto più elevato nei detenuti che hanno scontato la pena fino all’ultimo giorno all’interno di un istituto penitenziario. La strada sembra tracciarsi da sola. 

Si torna a discutere di 41-bis. Inaspettatamente è comparso sul Fatto Quotidiano un articolo di Woodcock, in cui si mette in un qualche modo in discussione la gestione del “carcere duro”. Cosa pensa di questa lettera?  Si aprono nuove prospettive o prevarrà la solita linea giustizialista?

Mi hanno sorpreso non tanto le argomentazioni del Dott. Woodcock – anche perché, al di fuori delle aule giudiziarie, ha sempre manifestato una certa vivacità intellettuale –, quanto piuttosto la sede in cui hanno trovato ospitalità. Tuttavia, leggendo le osservazioni pubblicate in risposta a quella lettera (come quella dell’ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli, che ha assunto una posizione netta contro le riflessioni di Woodcock), la sorpresa è subito sfumata. L’introduzione del 41-bis è stata una risposta emergenziale alle stragi di mafia che avevano scosso la coscienza del Paese: pur nella sua straordinarietà, questa misura poteva avere un senso. Essendo una risposta emergenziale, come tale avrebbe dovuto avere un’efficacia temporale limitata. Perciò, nel momento in cui la misura da emergenziale diventa ordinaria – caso non raro nel nostro Paese –, a mio avviso confligge con la Costituzione. Ricordiamoci che il regime temporale del 41-bis avrebbe dovuto essere limitato, ed invece è stato di volta in volta prorogato fin quando non ha trovato la stabilizzazione con il governo Berlusconi IV. Oggi le statistiche non solo ci dicono che non è più una misura emergenziale, ma addirittura che l’intenzione iniziale di impedire ai boss di guidare dal carcere le associazioni mafiose, per quanto lodevole, è stata disattesa. Infatti, buona parte dei soggetti sottoposti al 41-bis è accusata di semplice partecipazione all’associazione. Se c’è un numero elevato di meri partecipi, oltre ai c.d. boss, vuol dire che probabilmente la finalità del 41-bis non è interrompere la catena di comando delle associazioni mafiose, ma quella (ben diversa) di imporre la collaborazione a chi la vede come unica via d’uscita dal regime speciale del “carcere duro”. Credo poi sia doveroso fare un’altra riflessione, posso dilungarmi?

Certo, prego

Com’è possibile applicare in maniera così eccessiva e diffusa il regime del 41-bis ai soggetti che si trovano in stato di custodia cautelare? Ci siamo trovati dinnanzi a situazioni paradossali, in cui un soggetto colpito da ordinanza di custodia cautelare viene recluso per anni sotto questo regime, per poi essere rimesso in libertà a seguito di una sentenza di assoluzione. Una cosa interessante dell’articolo di Woodcock è la denuncia, questa volta da una voce forte tra i magistrati di procura, che aprire un dibattito sul cosiddetto “carcere duro” non può voler dire essere sospettati di collusione con gli ambienti criminali. Cosa può venir fuori da questo dibattito? Allo stato attuale, con questo Parlamento e questa classe politica, credo nulla di buono; fermo restando che è doveroso alimentarlo, perché solo così possiamo provare a rendere più adeguati i livelli di civiltà nel nostro Paese. A dire la verità, la Corte costituzionale ha dato delle risposte interessanti ad alcune questioni specifiche in relazione al nuovo 41-bis. Vorrei ricordare, ad esempio, l’incostituzionalità dichiarata del divieto di preparare pasti all’interno del carcere o l’illegittimità della sanzione disciplinare inflitta in caso di un semplice saluto tra detenuti. Che funzionalità hanno queste previsioni rispetto all’obiettivo di contrasto alle mafie, se non quello di rendere disumano un regime detentivo?

Infine, parliamo di un’altra novità. Nel decreto sicurezza, infatti, si è introdotto il nuovo reato di “accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti”. La sua opinione a riguardo?

Con i decreti sicurezza del Governo Conte II sono state introdotte nuove fattispecie penali e sono state aggravate fattispecie già esistenti. Semplificando, possiamo dire che viene inserita una punizione per i telefonini introdotti abusivamente in carcere. Il senso di questa nuova incriminazione si coglie innanzitutto in una prospettiva pan-penalistica: ogni tipo di comportamento che può essere rimproverato all’essere umano, nel nostro Paese, viene ricondotto nel raggio d’azione del diritto penale. La norma in questione ha un significato meramente simbolico, in linea con l’orientamento giustizialista di questa maggioranza: non s’intende dare una risposta concreta al problema del sequestro dei telefonini nelle strutture. In più, vi è da dire che – stando alle parole di Roberto Piscitello, già a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria come responsabile della direzione detenuti e trattamento – non è mai stato sequestrato un telefonino in possesso di un detenuto sottoposto al regime del 41-bis. Mi domando, quindi, la ragione dell’introduzione di questa fattispecie. È, inoltre, un intervento del tutto inutile e controproducente: se si vuole avversare questa condotta, serve una risposta completamente differente. Innanzitutto, è da considerare che il numero dei telefonini sequestrati all’interno delle carceri italiane è notevolmente inferiore rispetto a quello degli altri paesi europei.

Ci faccia qualche esempio

In Inghilterra, ad esempio, i telefonini sequestrati in carcere negli ultimi anni sono stati molti di più che in Italia. La risposta del governo inglese, tuttavia, è stata radicalmente diversa. Infatti, hanno introdotto all’interno dei penitenziari la possibilità che ogni detenuto abbia un proprio cellulare, consentendo così di mantenere un rapporto con la famiglia più costante e diretto. È poi da rilevare che buona parte dei telefonini sequestrati sembrerebbe siano stati utilizzati per intrattenere conversazioni con familiari, quindi per coltivare rapporti di natura affettiva e non di certo per commettere o perpetuare attività criminali. Ciò significa che questo tipo di comportamento nasce dalla negazione del diritto all’affettività tra detenuti e famiglia. Oggi, a seguito dell’emergenza sanitaria, solo dopo diversi mesi si è iniziato a permettere la videochiamata tra detenuto e familiari anche per l’Alta Sicurezza. Speriamo rimanga in via ordinaria anche dopo l’emergenza sanitaria. Questo è forse l’unico aspetto positivo prodotto dal Covid in merito alla condizione dei detenuti.