Lo “spazio” è stato, suo malgrado, uno dei grandi protagonisti di questo anno. Le discussioni su distanze, distanziamenti e metri quadrati si sono intrufolate nel dibattito pubblico, monopolizzando l’attenzione di comitati tecnico-scientifici, virologi, politici, commercianti e studenti. Fino a pochi mesi fa nessuno di noi aveva motivo di preoccuparsi delle distanze, così come nessuno era abituato a pensare in termini di metri quadrati. Nessuno, tranne i detenuti, che con lo spazio invece ci fanno i conti ogni giorno. A loro – che per via del sovraffollamento dormono impilati in letti a castello a tre piani e si fanno il bidet accanto al cucinotto – questa improvvisa presa di coscienza collettiva che, per non contagiarsi, si debba mantenere una certa distanza gli uni dagli altri, sarà sembrata una scoperta poco rivoluzionaria, un po’ come l’acqua calda (anche se in galera non è poi così scontata neanche questa). 

Sono anni, infatti, che in carcere si sta stretti. Si sta talmente stretti che spesso non si ha a disposizione neanche quei tre metri quadrati che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato come superficie minima di cui ciascun detenuto deve disporre affinché sia rispettata la sua dignità di essere umano. Tre metri quadrati, infatti, è la soglia promossa dai giudici di Strasburgo a parametro di valutazione del rispetto dell’art. 3 della CEDU, secondo il quale – è utile ricordarlo –  “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani e degradanti”

Per essere la misura che segna il confine tra una detenzione umana e una inumana, può apparire po’ risicata. In ogni caso, resta il fatto che, al di sotto di questa soglia, il detenuto s’intende ristretto “in condizioni tali da violare l’art. 3 della CEDU”, e pertanto può e deve essere risarcito dal magistrato di sorveglianza per mezzo dell’art. 35-ter dell’ordinamento penitenziario. Fin dal momento della sua introduzione – avvenuta nel giugno del 2014, a seguito della condanna da parte della Corte europea con la nota sentenza Torreggiani – l’art. 35-ter ha riscosso un gran successo tra i detenuti, in quanto consente di ottenere una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari ad un giorno per ogni dieci trascorsi in condizioni inumane e degradanti; questo, però, se le condizioni disumane si sono protratte per almeno 15 giorni . Pertanto, è ulteriormente previsto che, qualora si tratti di persona ex detenuta o ex internata, oppure che la durata del periodo di detenzione scontato in difformità sia inferiore a 15 giorni, o ancora laddove il fine pena sia tale da non consentire la detrazione dell’intero periodo vissuto in condizioni inumane, il risarcimento allora deve sostanziarsi in una somma pari ad otto euro per ogni giorno di violazione. In galera, dove tutto è più “ino” (le richieste dei detenuti sono “domandine”, chi lava i pavimenti è lo “scopino”, e chi raccoglie le domandine per i generi da acquistare al sopravvitto è lo “spesino”) neanche la dignità sembra sfuggire a questa logica svalutativa: diventa una “dignitina”, risarcibile con meno di dieci euro al giorno. 

Sergej Dovlatov, nel suo “Regime speciale”, dice che in carcere “le briciole di pane sono come manciate di diamanti”. Lo sanno bene i detenuti, che, armati di carta e penna, hanno iniziato a scrivere ai magistrati di sorveglianza, rinfrancati dall’aver finalmente a disposizione uno strumento in grado di compensarli delle sofferenze subite in eccesso. E a loro volta i giudici di sorveglianza, che da un giorno all’altro si sono trovati sommersi di lettere, hanno dovuto fare i conti con problemi del tutto nuovi: come si calcolano questi tre metri quadrati, il cui mancato rispetto integra una violazione della CEDU?  Al lordo o al netto del mobilio presente nella cella? E qualora si ritenga di dover calcolare i tre metri quadri al netto dei mobili, bisogna togliere dal conteggio proprio tutti i mobili oppure solo quelli grandi e pesanti, che non si possono spostare? E il letto? Si detrae solo se è un letto a castello o anche se si tratta di un letto singolo? Il letto a castello – qualcuno ha sostenuto – è pesante e non può essere spostato, mentre sul letto singolo ci si può scrivere, leggere, mangiare, e volendo si può rovesciare sulla parete quando non si vuole utilizzare. Questi interrogativi, sui quali si è affannata fino ad oggi buona parte della giurisprudenza, sono stati addirittura portati all’attenzione delle Sezioni Unite. Infatti, con ordinanza depositata l’11 maggio scorso, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha chiesto alle Sezioni Unite di chiarire, una volta per tutte: 

a) se i criteri di computo dello “spazio minimo disponibile” per ciascun detenuto debbano essere definiti considerando la superficie netta della stanza e detraendo, pertanto, lo spazio occupato da mobili e strutture tendenzialmente fisse ovvero includendo gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita;

b) se assuma rilievo, in particolare, lo spazio occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura di letto “a castello” o di letto “singolo” ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello e non quello singolo;

c) se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo (come detto supra, tre metri quadrati), secondo il corretto criterio di calcolo, al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della CEDU nel concorso di altre condizioni (quali la breve durata della detenzione, la sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati.

Ad oggi, le Sezioni Unite non hanno ancora depositato la sentenza. Ma a seguito dell’udienza del 24 settembre hanno reso nota l’informativa provvisoria, contenente la seguente soluzione: “Nella valutazione dello spazio minimo disponibile di tre metri quadri per ogni detenuto si deve aver riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello“. Questo principio è stato ripreso da una recentissima decisione della Prima Sezione della Cassazione, che, con sentenza depositata il 30 novembre, si è pronunciata su un ricorso proposto dal difensore di un detenuto, volto a ottenere il risarcimento per la carcerazione patita negli istituti penitenziari di Salerno e Vibo Valentia. Nell’accogliere il ricorso, la Corte ha confermato l’assunto contenuto nell’informazione provvisoria delle Sezioni Unite, ribadendo che “affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 Cedu, dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e la struttura a castello, e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arresi facilmente amovibili come sgabelli o tavolini”. Solo quando la sentenza sarà depositata capiremo se tra gli “arredi tendenzialmente fissi al suolo” possano rientrare anche gli armadi, gli armadietti e il letto singolo. La sua attesa, in ogni caso, non scalfisce la speranza di ottenere un ulteriore contributo a quell’obiettivo di più ampia pertinenza e profondo respiro: il compiuto rispetto della dignità dell’uomo e, inscindibilmente, anche del detenuto.