Andrea Apollonio, sostituto procuratore della Repubblica di Patti, già procuratore presso l’Avvocatura dello Stato e dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Pavia, tra le altre cose, ha scritto numerosi saggi sulle mafie, tra cui “Storia della Sacra Corona Unita”. Ha curato “Verità impossibili. Voci dalla magistratura siciliana sull’opera di Leonardo Sciascia”, uscito di recente per Salvatore Sciascia Editore.

Verità impossibili. Che significato ha la verità nell’opera di Leonardo Sciascia? O meglio, quali sono le “verità” , al plurale? E ancora, che cosa le rende impossibili?

Premetto di essere soltanto un accanito e insaziabile lettore di Sciascia, e non anche un filologo, uno studioso in senso tecnico dell’opera sciasciana… Ma da cultore del maestro di Racalmuto mi sembra che per Sciascia la verità sia tutto, essendo la base su cui si regge la giustizia. Non dobbiamo dimenticare infatti quali siano le radici − illuministe − del pensiero sciasciano: Voltaire e Manzoni sotto l’aspetto filosofico, Stendhal e (ancora) Manzoni sotto l’aspetto narrativo. Sciascia forse è l’ultimo degli illuministi, e in quanto tale si trovava alquanto a disagio in una società che, sempre di più, faticava a raggiungere la verità sul suo passato (pensiamo a L’Affaire Moro) come sul suo presente (pensiamo alle posizioni su controverse vicende giudiziarie, come il caso Tortora). Verità ostacolate dai poteri politici, dagli stessi poteri istituzionali, nonché da un generale malfunzionamento della giustizia. “Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità”, fa dire Sciascia al protagonista de Il Consiglio d’Egitto: che, non per caso, è un giurista. Percepiva distintamente, insomma, che l’epoca in cui viveva, ed in cui ancora oggi viviamo, è l’epoca delle verità impossibili, dunque della giustizia impossibile: in questo senso il titolo della collettanea è una metonimia, perché in ultimo è la giustizia − nel senso più elevato del termine − ad apparire irraggiungibile. Ecco perché, io credo, i primi a misurarsi con l’opera di Sciascia dovrebbero essere proprio i magistrati, coloro cioè che sono chiamati ad esercitare la giurisdizione, che presuppone il concetto di giustizia. 

Di recente ha scritto su “Giustizia Insieme” che la figura del magistrato nella produzione di Sciascia è “eroe e anti-eroe al tempo stesso: in cerca della verità, fautore dell’impostura”. I magistrati siciliani che sono intervenuti in “Verità impossibili” concordano con questa sua ricostruzione? Quali riflessioni e quali gli spunti che sono emersi nella raccolta?

Anche qui, una premessa: io mi sono limitato ad una presentazione del testo e, più praticamente, a coordinare e raccogliere i contributi di colleghi dall’indiscusso spessore intellettuale: i cui lavori hanno, tutti, pregio e contenuti. Da lettore, sono stato colpito dalle parole del procuratore Salvi, il quale con ampia onestà intellettuale afferma nella sua introduzione: “Credo anzi che Sciascia avesse nei confronti nostri, dei magistrati intendo, quella stessa diffidenza che egli ci ha insegnato a usare verso altri”. Egli quindi avvisa il lettore fin da principio: Sciascia avrebbe preso in mano questo libro con grande diffidenza, e con questo spirito occorre approcciarsi al testo. Ritengo che Salvi abbia avuto uno spunto che Sciascia avrebbe apprezzato molto, moltissimo. Salvi, peraltro, lo diceva a ragion veduta: nel testo non mancano le stilettate al pensiero di Sciascia. Ad esempio, un altro lavoro di profonda onestà intellettuale è quello di Maurizio de Lucia, secondo cui in alcune riflessioni, in tema di mafia e antimafia, “Sciascia sbaglia”. Alla luce delle incessanti celebrazioni dello scrittore, a trent’anni dalla morte, appare un’espressione forte… in realtà credo che, anche qui, Sciascia avrebbe apprezzato molto la (sciasciana) presa di posizione di de Lucia: avrebbe apprezzato molto la contrapposizione dialettica, l’invito a ragionare sulle questioni da posizioni diverse. Purtroppo è un dialogo, un confronto a distanza tra “noi” e “lui”.

Tra le altre cose, Sciascia ebbe a sostenere che il fascismo e la mafia erano − semplificando per brevitas − entità tra loro concorrenziali. In comune avevano la necessità di affermarsi e di riprodursi attraverso la violenza. La vera alternativa alla mafia, concludeva il ragionamento lo scrittore siciliano, dovrebbe essere lo Stato di diritto, la legalità, il rispetto dei diritti individuali. Insomma, il miglior antidoto alla cultura mafiosa dovrebbe essere la cultura costituzionale delle garanzie. Come sa, non sono in molti a pensarla così nel nostro Paese. Anzi, la tendenza prevalente nei confronti di chi si rende responsabile di reati di mafia pare essere quella della tolleranza zero, la logica dell’eccezionalità e della massima asprezza, anche spingendosi al limite in tema di diritti umani (si pensi al 41-bis). Lei cosa ne pensa? Lotta alla mafia e garantismo sono incompatibili o, al contrario, sono complementari?

Il garantismo non è incompatibile con niente: e lo dico da pubblico ministero. Il garantismo è la base della nostra cultura giuridica, è dentro i codici e le leggi, ma soprattutto è sancito in Costituzione, infine declinato dalla giurisprudenza costituzionale: e la c.d. legislazione antimafia è contenuta in codici e leggi, e se non fosse rispondente alla Costituzione, il Giudice delle Leggi interverrebbe (come è più volte intervenuto). Per venire alla domanda: lotta alla mafia e garantismo non soltanto sono, ma devono essere complementari. Superato il garantismo c’è solo la barbarie. Ma non sfuggo alla questione posta in termini più precisi: è evidente che il nostro sistema sostanziale e processuale si basi sulla logica del “doppio binario”, con maggiore asprezza e rigore rispetto ai reati a sfondo mafioso. Io stesso, da studente universitario, e anche da dottorando di ricerca (in gioventù, insomma), nutrivo forti perplessità rispetto ad un tale assetto, chiedendomi: ma allora le indagini non sono tutte uguali? I processi non sono tutti uguali? L’esecuzione della pena non è per tutti uniforme? Oggi, vivendo e operando peraltro in una realtà problematica sotto questo profilo come quella siciliana, non nutro più le perplessità di un tempo: ho compreso che per fronteggiare un fenomeno così pervasivo e socialmente dirompente, così odioso e prevaricatore, così totalizzante e lesivo della dignità umana, quale quello mafioso, occorrono strumenti (sostanziali, processuali, penitenziari) più efficaci e incisivi, ma sempre ancorati alla Costituzione, che è il nostro faro. D’altronde, cambiare opinione è segno di onestà intellettuale. Ce lo ha insegnato proprio Leonardo Sciascia, quando affermava: “Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: ha contraddetto e si è contraddetto, come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante anime morte, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano”. 

A proposito di “antimafia”. Sciascia, nell’ultima parte della sua vita, fu anche molto critico rispetto a talune scelte effettuate dal CSM: è ben nota la querelle sulla nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala, tanto che in quell’occasione egli coniò l’espressione “professionisti dell’antimafia”. Secondo lei, oggi cosa scriverebbe Sciascia sulla magistratura italiana e sugli scandali che sono esplosi negli ultimi mesi? Sulla spartizione delle nomine in base alle correnti? 

Non so cosa scriverebbe Sciascia, ma di una cosa sono certo: Sciascia è l’antidoto. Le disfunzioni interne alla magistratura emerse negli ultimi mesi hanno, a mio avviso, una radice morale ma anche culturale: l’antidoto è l’approfondimento del pensiero dei grandi maestri. In ogni libro di Sciascia, o quasi, vi è contenuto un monito: il potere non può essere opaco, né può essere esercitato arbitrariamente. E gli scandali che sono scoppiati si riferiscono proprio a poteri opachi, esercitati arbitrariamente. In questo caso non posso entrare nel merito dei problemi posti, mi limito a dire che la magistratura italiana dovrebbe rigenerarsi con una vocazione più illuminata e illuminista quale quella sciasciana: la magistratura italiana, scossa e affaticata dopo le ben note vicende che di recente l’hanno afflitta, dovrebbe  tirare una linea e ripartire da Sciascia. Ciò appare quasi un ossimoro, considerando che − come ci dice Salvi − Sciascia nutriva una certa (e giustificata) diffidenza nei confronti della magistratura: mentre il cittadino non dovrebbe mai diffidare del potere giurisdizionale, chiamato a tutelare proprio i suoi diritti. Mi consenta di dire, allora, che a mio parere questa collettanea “Verità impossibili” rappresenta il segno tangibile di un unanime riconoscimento dell’attualità del pensiero sciasciano, della necessità che questo continui ad essere perpetuato nella società e nella magistratura. Chissà che non sia l’inizio di un percorso collettivo per noi magistrati, che dovremmo avere sempre sul comodino un libro del maestro di Racalmuto… 

Appunto, ci tolga una curiosità per finire. A quale opera di Sciascia è più affezionato?

Difficile dirlo. Per me Porte aperte è il più bello, il più profondo, e andrebbe regalato ad ogni giovane che superi il concorso in magistratura; o almeno, col primo stipendio bisognerebbe andarlo a comprare di corsa… Ma ho capito di non potere più fare a meno della letteratura sciasciana dopo aver letto, tanti tanti anni fa, A ciascuno il suo: il libro più amaro, ma anche più vero. E ancora adesso, in quante occasioni, da pubblico ministero che conduce indagini a volte infruttuose, mi trovo a pensare a quel libro: in cui, al posto della verità, ci si deve accontentare dell’apparenza della verità. Verità impossibili: Sciascia ci aiuta a comprendere i nostri limiti, la nostra fallibilità in quanto esseri umani, prima ancora che magistrati. Ribadisco: noi dobbiamo ripartire da lui.