Dieci agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano sono stati condannati per tortura, a causa delle violenze compiute ai danni di una persona detenuta. È la seconda volta, in pochi mesi, che dei pubblici ufficiali vengono condannati per un reato così grave: a gennaio è arrivata la prima sentenza per i fatti avvenuti nel 2017 nel carcere di Ferrara, quando, durante una perquisizione, un detenuto in isolamento è stato denudato, maltrattato e picchiato. Al momento, non si può escludere che queste pronunce non rimangano isolate.

Tanti sono i procedimenti pendenti che vedono agenti di polizia penitenziaria imputati per tortura: a Monza, Torino, Palermo, Melfi, Pavia, Firenze e a Santa Maria Capua Vetere. “La mattanza della settimana santa” è l’espressione utilizzata dalla Procura per indicare quanto avvenuto il 6 aprile scorso nella casa di reclusione “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Sono 144 gli agenti di polizia penitenziaria coinvolti, i quali, secondo gli inquirenti, avrebbero messo in atto una sorta di “spedizione punitiva” nei confronti dei detenuti, in risposta alle proteste scoppiate in carcere nel marzo dello scorso anno. Per la sua gravità, ad alcuni questa vicenda ha ricordato il massacro della Scuola Diaz, avvenuto a Genova nel 2001, quando un gruppo di agenti delle forze dell’ordine fece irruzione all’interno dei plessi scolastici dove si trovavano i manifestanti del G8. C’è, però, una differenza. I dirigenti, funzionari e agenti di polizia coinvolti nelle atroci violenze perpetrate ai danni dei manifestanti del G8 vennero rinviati a giudizio per numerosi delitti: falso ideologico, calunnia, abuso d’ufficio e lesioni dolose, ma non per tortura. Il reato di tortura, infatti, ancora non esisteva nel nostro ordinamento e la magistratura doveva ricorrere, di volta in volta, ad altri delitti, “frammenti sparsi” del codice penale, incapaci tuttavia di fornire una risposta adeguata alle gravissime violazioni dei diritti fondamentali della persona.

L’assenza di un reato capace di cogliere il disvalore di fatti così gravi poneva l’Italia in una posizione d’inadempienza, sia rispetto agli obblighi internazionali vincolanti – l’Italia è infatti firmataria di tutti gli atti internazionali che vietano la tortura e ne prescrivono la punizione come crimine interno degli Stati (Convenzione ONU contro la tortura del 1984) – sia rispetto al testo costituzionale. Infatti, il comma 4 dell’art. 13 della Costituzione contiene un vero e proprio obbligo di repressione dei fatti di violenza fisica e psichica commessi nei confronti di chi è privato della libertà personale: è punita ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Si tratta dell’unica fattispecie incriminatrice prevista espressamente dal testo costituzionale. Questa grave lacuna – che è valsa all’Italia anche una condanna da parte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. Cestaro c. Italia) – è stata colmata dal legislatore solo nel luglio del 2017, quando il reato di tortura è stato finalmente introdotto nel codice penale all’art. 613 bis. Il testo è stato approvato al termine di un iter legislativo lungo e tortuoso, che vide contrapposti due diversi filoni di pensiero: chi riteneva la tortura un reato di Stato e chi si opponeva a questa definizione. I primi, volevano che la tortura fosse un reato “proprio”, volto a reprimere specificamente gli abusi commessi dai pubblici ufficiali e non genericamente quelli dei privati cittadini. Qui, l’essenza della fattispecie risiederebbe proprio nella qualifica del soggetto che agisce nei confronti di una persona che versa in uno stato di soggezione, coerentemente con quanto stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite, che individua l’autore o l’istigatore della tortura nel “public official”. Chi si opponeva a questa formulazione, al contrario, riteneva che un reato di tortura di Stato potesse essere troppo penalizzante per le forze dell’ordine, rischiando di pregiudicarne eccessivamente lo spazio di intervento. 

Nel tentativo di contemperare interessi contrapposti, il testo definitivo della legge ha lasciato molti insoddisfatti, soprattutto tra coloro i quali si erano battuti per il riconoscimento del reato di tortura di Stato: l’onorevole Luigi Manconi (primo firmatario della legge), ad esempio, non partecipò al voto sul provvedimento. Il legislatore, infatti, nel testo finale approvato dalle Camere, prevede sia il fenomeno della tortura comune (art. 613 bis, comma 1) sia, al secondo comma, quello della “tortura di Stato”. Tuttavia, parte della dottrina ha ritenuto che, per come formulato, questo secondo comma non costituisse fattispecie autonoma di reato ma semplicemente una circostanza aggravante, vanificando così il maggior disvalore attribuito  all’azione del soggetto qualificato – alla luce della possibilità, prevista all’art. 69 c.p., di bilanciare tale circostanza nel giudizio di comparazione. Il giudice, in altre parole, avrebbe potuto cancellare la portata dell’aumento di pena previsto al secondo comma nel caso di equivalenza o prevalenza delle circostanze attenuanti. Pertanto, la sentenza sui fatti di tortura a San Gimignano, in cui il GUP di Siena ha specificato che la tortura di Stato è da considerarsi a tutti gli effetti fattispecie autonoma di reato, è di straordinaria importanza. Dopo tanto tempo, sembra profilarsi anche nel nostro sistema una configurazione del reato più vicina a quella indicata dalla Convenzione delle Nazioni Unite, e le sentenze sui fatti di San Gimignano e Ferrara dimostrano che su gravi episodi, rimasti per lungo tempo nell’ombra e nell’anomia del diritto, è finalmente possibile far luce.