Come è ormai noto, il tema delle carceri e dei detenuti, oltre ad essere tristemente ignorato dalla maggior parte della classe politica, viene affrontato dai media molto poco e spesso in maniera totalmente fuorviante. Ancora meno considerata è la condizione femminile nelle carceri: l’esiguità numerica dei casi, lungi dal favorire una maggiore attenzione, si traduce troppo spesso in una considerazione di tipo residuale.

Donne in carcere: quando e come è necessario?

La percentuale media di donne detenute è sempre stata molto bassa: si parla oggi di 2.248 unità, ovverosia del 4,2% dell’intera popolazione carceraria (aggiornamento al luglio 2020), e la percentuale negli ultimi decenni è sempre oscillata tra il 4 e il 5%. Nonostante l’esigua quantità di donne all’interno delle carceri, la permanenza di un modello di detenzione da sempre pensato per individui di sesso maschile stimola un interrogativo: in quali condizioni è opportuno che le donne siano ristrette? Tale domanda ripropone un dibattito, sviluppatosi negli Stati Uniti [1], in cui si sono confrontati due modelli: da un lato, il Justice Model, secondo cui in nome della formale uguaglianza fra uomo e donna in qualità di autori di reato non è necessario diversificare il trattamento in base al genere; di riflesso, questo orientamento non avversa la detenzione di donne all’interno di carceri maschili, seppur in sezioni apposite. Dall’altro lato, invece, il Care Model si basa sul concetto di “maggior vulnerabilità” e minore pericolosità sociale della donna, e per questo guarda positivamente ad una differenziazione dell’esecuzione penale femminile da quella maschile, mostrandosi favorevole alla predisposizione di spazi adeguati e, ove possibile, “speciali”, che siano il meno somiglianti possibile alle carceri [2]. Di qui, nel contesto anglosassone sono state avanzate proposte abolizioniste, in favore di una giustizia penale senza carcere per le donne: basti pensare alla proposta contenuta nel “Corston Report”, in cui si ipotizzava di utilizzare la pena detentiva per le donne soltanto per i reati più efferati e di maggiore allarme sociale (ma in nessun caso oltre la soglia massima di 10 anni), preferendo altre soluzioni sanzionatorie che non prevedessero la detenzione [3].

Alcuni numeri sulla popolazione carceraria femminile in Italia

In Italia, il Justice Model e il Care Model “convivono”. Esistono infatti soltanto 4 istituti penitenziari esclusivamente femminili (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) e ospitano 549 donne, meno di un quarto del totale. La capienza ufficiale delle carceri femminili è pari a 509 posti letto, il tasso di affollamento ufficiale risulta del 107,9%. Le rimanenti 1.694 sono distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Sarebbe ingenuo pensare che, dato il basso numero, non rilevino le rispettive criticità: il problema del sovrappopolamento carcerario resta ben presente. Il numero più alto di donne detenute si trova in Lombardia (370). Seguono il Lazio (368), vista la presenza a Roma del carcere femminile più grande d’Europa, e la Campania (322). A fine gennaio 2021, le donne straniere detenute erano 755, ovvero il 33,6% del totale, provenienti prevalentemente da Romania (24,8%) e Nigeria (17,9%). Le donne straniere con condanna definitiva sono il 65,4% del totale. Gli ingressi da parte delle donne sono stati il 6,9% di quelli complessivi, riscontrato per il maggior numero in Lombardia (401), seguita da Lazio (385), Campania (241) Piemonte (240) e Puglia (182) [4].

Detenute madri e ICAM come extrema ratio: la proposta di legge Siani

Ancora attuale è la realtà delle detenute madri con figli a carico. I dati del Ministero della Giustizia, aggiornati a fine ottobre 2020, evidenziano la presenza di 31 detenute madri con 33 figli al seguito, di cui 16 madri e 17 bambini nelle sezioni nido delle case circondariali, mentre i rimanenti risultano collocati negli ICAM (Istituti a custodia attenuata per detenute madri, istituiti dalla legge n. 62 del 2011). Quest’ultima realtà è sicuramente quella che più tenta di allontanarsi dal contesto di chiusura e limitazione degli spazi che di fatto contraddistingue la vita in un istituto penitenziario, ma i suoi limiti sono evidenti. Nonostante gli sforzi per rendere l’ambiente quanto più aperto e “normale”, si tratta pur sempre di un contesto a libertà limitata, un evidente impedimento a vivere la maternità in modo completo e sano, oltre che a garantire un’infanzia dignitosa ai bambini, reclusi insieme alle madri. A questo proposito, sembra dare un segnale di cambiamento la proposta di legge a prima firma del deputato PD Paolo Siani, in materia di tutela del rapporto fra detenute madri e figli minori. La finalità è quella di rendere gli ICAM l’extrema ratio, prevedendo il loro utilizzo solo dove sussistano “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza [5]”. Verrebbe così vietata la custodia cautelare in carcere per le donne in gravidanza e le madri con prole di età inferiore a 6 anni, in quanto sostituita dalla permanenza nelle case famiglia protette (in realtà già previste dalla legge n. 62 del 2011, ma senza oneri per lo Stato). La proposta di legge in discussione, al contrario, prevede la loro sovvenzione e quindi il loro incremento. Ad oggi sono solo due (una a Roma e l’altra a Milano), e il loro aumento consentirebbe di rimuovere dagli istituti penitenziari madri con figli a carico, favorendo la riabilitazione e il reinserimento delle detenute senza però sacrificare il fondamentale rapporto di maternità e l’integrità psicofisica del bambino, con un’evidente prevalenza delle esigenze genitoriali ed educative rispetto a quelle cautelari. 

Un carcere “maschio-centrico” e l’esigenza di un cambiamento

Quando viene trattato il tema delle donne in carcere non è possibile prescindere da un’effettiva condizione di vulnerabilità delle detenute, che si trovano in un’istituzione punitiva e di controllo pensata per uomini, con regole tutt’ora vigenti modulate su una visione che lo stesso rapporto DAP 2019 testualmente definisce “maschio-centrica [6]”. Attualmente risulta impossibile riscontrare un’apprezzabile attenzione a ogni specificità, compresa quella di genere, salvo che in rare realtà locali; i pochi tentativi di prendere in considerazione tali differenze sfociano in attività che rispecchiano un modello femminile vetusto e legato a un ruolo di subordine. Oltretutto le donne, in quanto minoranza “demografica”, vengono escluse dalla già carente offerta lavorativa e trattamentale, che si tende a proporre alla popolazione carceraria più numerosa, ovvero quella maschile. Il rapporto DAP è chiaro: tanto è da fare per colmare le lacune di un approccio che, ancora, non tiene conto delle specifiche caratteristiche femminili, ma tende a trattare uomini e donne in maniera identica, rivelandosi pertanto controproducente e non equo. Le conquiste in campo sociale (e non solo) delle donne, per il momento, restano fuori dalle carceri. Un’attenzione ai bisogni e alle esigenze delle donne detenute, alle problematiche che le riguardano in primis in quanto donne e un approccio alla pena consapevole delle differenze di genere, dovrebbero essere alcune delle priorità nel ripensare il nostro sistema penitenziario.


[1] Descritto in un saggio di Esther Effernan, “Gendered perceptions of dangerous and dependent women: ‘gun molls’ and ‘fallen women” in H. Zaitzow and J. Thomas (eds), Women in prison, Lynne Rienner Publishers, Boulder, London, 2003
[2] G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, 2018
[3] The Corston Report, 2006: https://webarchive.nationalarchives.gov.uk/20130206102659/http://www.justice.gov.uk/publications/docs/corston-report-march-2007.pdf
[4] Rapporto di Associazione Antigone, 10 agosto 2020: Salute, tecnologie, spazi, vita interna. Il carcere alla prova della fase 2
[5] Proposta di legge d’iniziativa dei deputati a prima firma Siani, “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 21 aprile 2011, n. 62, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori
[6] Rapporto DAP 2019