C’è un’immagine emblematica dell’incultura giuridica che da tempo caratterizza l’informazione giudiziaria in Italia. E’ quella registratasi nel corso dell’edizione pomeridiana del 16 giugno 2021 di un noto telegiornale nazionale, allorquando una giornalista, nell’annunciare il comunicato con il quale la procuratrice di Verbania ha inteso stigmatizzare la diffusione da parte del TG3 della RAI di un filmato ritraente gli ultimi istanti di vita dei passeggeri della funivia del Mottarone, ha contestualmente mandato in onda un servizio giornalistico in cui, nondimeno, venivano proiettate interamente le immagini stesse della tragedia, estrapolate dall’impianto di video-sorveglianza. Al netto della indebita mediatizzazione che la vicenda processuale in esame ha subìto sin dai primi passi, la polemica scaturita dalla divulgazione sui media del predetto filmato – o meglio dei due filmati, dato che l’incidente in questione è stato ripreso da diverse angolazioni – ripropone l’annoso problema non solo del delicato bilanciamento tra esercizio del diritto di cronaca e tutela delle esigenze investigative, ma soprattutto quello dell’inconsistente impianto sanzionatorio posto a presidio dei divieti di divulgazione e pubblicazione degli atti processuali. Come si legge nel comunicato stampa diffuso dalla Procura di Verbania, nella persona della dott.ssa Olimpia Basso, il filmato dell’incidente conteneva “immagini di cui, ai sensi dell’art. 114 comma 2 c.p.p., è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari”. Questo sarebbe bastato, in un diverso sistema culturale e normativo, a scongiurare un simile epilogo. Ed in effetti, la ratio legislativa sottesa ai divieti di pubblicazione sanciti dall’art. 114 c.p.p. consiste non soltanto nell’esigenza di garantire il corretto svolgimento dell’attività investigativa, scongiurando così la fuoriuscita di notizie che potrebbero vanificare il corso delle indagini o persino mettere in pericolo la vita di taluni; ma altresì in quella di tutelare la virgin mind del giudice nella fase dibattimentale, il quale generalmente non deve conoscere gli atti d’indagine formatisi unilateralmente, sul presupposto che la prova si forma “nel contraddittorio tra le parti”. Si tratta di valori che certamente giustificano una circoscritta limitazione alla cronaca giudiziaria.
La norma sopracitata prevede, dunque, un divieto assoluto di pubblicazione solo per gli “atti coperti dal segreto” ai sensi dell’art. 329 c.p.p., quali sono gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, mentre prevede un divieto relativo per gli atti conoscibili all’indagato, che viene meno man mano che, in relazione allo svolgimento del procedimento, si riduce anche la ragion d’essere del divieto stesso, ovverosia quella di assicurare il corretto, equilibrato e sereno giudizio del giudice del dibattimento, attuato anche attraverso le norme che gli consentono di venire a conoscenza del testo degli atti di indagine e nei limiti propri di ogni processo accusatorio. Di questi atti, non più segreti, può essere pubblicato il solo contenuto, nel senso che possono essere divulgati informazioni sullo stesso senza riprodurlo integralmente o parzialmente. La ragione, come autorevolmente osservato in dottrina, è proprio quella di evitare che la notizia processuale, per il tramite della sua pubblicazione integrale, acquisti “il carattere dell’ufficialità” (G. Giostra). Ora, sebbene tale ibrida distinzione tra atto e contenuto venga ormai considerata inconsistente – su avallo di una opinabile giurisprudenza di legittimità, che ha persino accreditato il concetto di “marginalità” della riproduzione testuale –, in casi come quello di specie, la pubblicazione integrale di un filmato produce effetti distorsivi sicuramente maggiori rispetto alla pubblicazione della sola notizia dell’esistenza del medesimo e di un riassunto del suo contenuto. Ciò in quanto l’immagine presenta una indubbia maggiore efficacia comunicativa rispetto alla parola, e quindi la diffusione della stessa è idonea a suscitare reazioni emotive ed inconsce non soltanto nell’opinione pubblica, ma anche e soprattutto in coloro che saranno chiamati a giudicare sulle responsabilità degli indagati. Questo il motivo per il quale la diffusione pre-processuale e la pubblicazione di atti di interesse investigativo, ancorché non più sottoposti a segreto, sono sempre da stigmatizzare, ed anzi simili condotte andrebbero perseguite penalmente attraverso l’apertura di un’indagine volta ad individuare il responsabile della medesima divulgazione ai sensi dell’art. 326 c.p., nonché della successiva pubblicazione sui giornali ai sensi dell’art. 684 c.p. Questo, ad esempio, sarebbe auspicabile che venisse attuato proprio nel caso della diffusione del video della funivia del Mottarone.
Invero, piuttosto che limitarsi a precisare che “ancor più del dato normativo, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese” per il “doveroso rispetto che tutti (…) siano tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità”, sarebbe stato senz’altro più opportuna – oltre che oggettivamente doverosa – l’iscrizione da parte della Procura della notizia di reato, come auspicato dal Codacons, il quale, in una recente nota, ha affermato che “non basta diramare comunicati stampa, ma la Procura deve avviare una inchiesta tesa ad accertare chi abbia fornito al Tg3 le immagini in questione, e se ci siano state violazioni delle disposizioni di legge, procedendo penalmente contro i responsabili dell’illecito”. In verità, onestà intellettuale e correttezza dovrebbero indurre tutti quanti ad ammettere, senza più alcun rossore, che l’inerzia di molte procure nel perseguire penalmente i responsabili di condotte di indebita divulgazione di atti processuali non è dovuta soltanto alle difficoltà sottese alle attività di accertamento, ma è riconducibile ad un deprecabile fenomeno culturale, all’esistenza invero di un “reticolo sotterraneo” di collegamenti tra uffici giudiziari (inquirenti) e organi di informazione. Si tratta di un rapporto che, sebbene alcuni rifiutino di definire “precostituito”, finisce quantomeno per formarsi di volta in volta, in ragione della fondamentale esigenza per il giornalista di cercare l’informazione in chi la detiene (e nella fase delle indagini preliminari non può che essere detenuta dalle procure e dalla polizia giudiziaria) e di dare spazio alle notizie che è in grado di reperire. Anche per questo, appare inopportuno e scorretto alludere – come pure è stato fatto in alcuni richiami del comunicato diffuso dalla Procura di Verbania – alla circostanza per cui, alla diffusione del filmato in questione, possano aver contribuito le difese, trattandosi (come quasi sempre accade) di immagini che, oltre ad alimentare la cd. “pornografia del dolore” e a solleticare gli istinti più bassi della nostra società, non andranno certamente a vantaggio o a nocumento delle stesse persone indagate. Anzi, la diffusione di atti d’indagine in una fase così concitata della vicenda giudiziaria dovrebbe essere scongiurata proprio per tutelare le primarie garanzie costituzionali dell’indagato – come la presunzione di non colpevolezza –, che è la parte più debole del processo penale. Il richiamo ad esigenze etiche o di “buon senso”, seppure apprezzabile nel caso di specie, è apparsa un’affermazione riduttiva del doveroso rispetto dei divieti di pubblicazione, nel senso platonico di “ombre riflesse sul muro della caverna”. Ciò che occorre è andare oltre la conoscenza delle “ombre” che ogni fatto di cronaca porta quotidianamente alla nostra attenzione, in quanto le leggi di uno Stato di diritto si basano su precise regole e non su percezioni soggettive e opinabili.
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