In occasione del Convegno “Criminologie a sud. Prospettive meridiane della questione criminale”, organizzato dalla Rivista “Studi sulla questione criminale”, abbiamo incontrato il Prof. Dario Melossi, professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Bologna e “Distinguished Affiliated Scholar” del “Center for the Study of Law and Society” (UC Berkeley). In virtù dei temi trattati, abbiamo chiesto al Professore di condividere con noi alcune sue riflessioni sul rapporto fra la questione meridionale e quella criminale, anche con riferimento alle più recenti manovre emergenziali (si pensi, tra tutte, al Decreto legge Caivano).
*crediti foto in calce all’articolo
Perché nel dibattito moderno è necessario porre l’attenzione sulla “criminologia a sud” o “meridiana”?
La questione mi coinvolge direttamente, anche perché l’idea del Convegno era stata un po’ mia, per cui è una domanda che io stesso mi pongo. La risposta non è chiarissima. Innanzitutto, puntualizziamo un aspetto. La necessità di porre l’attenzione sulla “questione meridionale” deriva da molte esigenze, tra le quali quella fondamentale di osservare la questione criminale nel suo complesso e, con ciò, anche come la criminalità viene percepita e dibattuta a livello sociale e pubblico. Nell’ambito della criminologia, la questione criminale è sempre stata osservata da un punto di vista settentrionale. Ma cosa si intende per “settentrionale”? Qui la faccenda diventa sfuggevole, a mio avviso.
La ascolto.
Tendenzialmente, ci si riferisce a quella criminologia diventata dominante. Oggi, in qualunque libro di criminologia (e anche nel mio “Stato, controllo sociale e devianza”, edito da Mondadori, 2002) le principali teorizzazioni enunciate spostano l’attenzione da una prospettiva europea (rappresentata da personaggi come Cesare Beccaria, Cesare Lombroso ed Émile Durkheim) ad un’altra di epoca successiva al Novecento, in cui è dominante la cultura inglese e in particolare, nel caso delle scienze sociali, quella nordamericana. Qui, tuttavia, sorge un problema. Parlare di “criminologia del nord” e “criminologia del sud” corrisponde a parlare di Nord e Sud del mondo. Ed è proprio questa l’idea che hanno in mente illustri sociologi come Boaventura de Sousa Santos o Raewyn Connell, i quali avevano già posto la questione dal punto di vista del sud, intesa come alternativa a quella del nord. Quest’ultima fa riferimento ad una criminologia in lingua inglese, sviluppatasi in Inghilterra e, soprattutto, negli Stati Uniti d’America e che da lì, per questioni storiche, dalla Seconda guerra mondiale in poi si è spostata verso l’Europa, verso l’Europa del Sud e verso il Sud del mondo. Posto che per “Nord” vogliamo considerare anche – come in genere avviene – l’Europa, e dunque la cultura francese, tedesca, italiana o spagnola, la questione che anche io mi sono posto è: qual è il ruolo della cultura e della criminologia italiane all’interno di questo processo? Perché, in fin dei conti, noi siamo il Paese della “questione meridionale”, di cui si è discusso a cominciare già dal famoso scritto di Cesare Lombroso sulla Calabria, quando egli, all’inizio della sua esperienza di ufficiale medico nelle truppe piemontesi, combatteva contro il brigantaggio. Successivamente, un antropologo di nome Vito Teti ha curato “La razza maledetta. Origine del pregiudizio anti meridionale”, una preziosa antologia del dibattito meridionalista tra Otto e Novecento. Quando Gramsci, prima di andare in carcere, pubblicò il suo famoso scritto “La questione meridionale” (1926), possiamo dire che il dibattito poneva già verso il termine. A me sembra più che lecito chiederci quale fosse la posizione dell’Italia. Anche perché, in questa geografia globale, la posizione di paesi del Sud Europa come l’Italia, la Spagna o la Grecia non è mai stata chiara. Così come non è mai stato chiaro se noi siamo il Nord o il Sud del mondo e quale sia il rapporto fra i due. Quindi, da un lato, c’era l’intenzione di recepire un dibattito diventato importante nel panorama internazionale, comunicando ai colleghi sociologi italiani l’esistenza di questa tematica; dall’altro, più specificamente, si voleva cercare di definire quale potesse essere la prospettiva italiana, sia meridionale che settentrionale, rispetto a questo dibattito, alla luce della tradizione del discorso meridionalista che noi abbiamo avuto. Cosa si intende, dunque, quando si parla di “criminologia del sud”? Molto spesso, nelle scienze sociali, il rapporto Nord-Sud vede il Nord come una sorta di regola, di punto di riferimento e termine di paragone, al quale il sud si deve in qualche modo adeguare, sviluppandosi. Lo standard è sempre quello settentrionale e il meridione è visto in maniera deficitaria. La questione è mettere in discussone questa impostazione. Allora, bisogna chiedersi se vi sia un punto di riferimento al sud circa l’elaborazione di idee o concetti, nella prospettiva di valorizzare la diversità, a beneficio soprattutto di chi lì ci vive. Un altro aspetto che mi sembra importante sottolineare sulla “criminologia del sud” è il suo essere riuscita a far emergere moltissimi ricercatori che hanno dato voce a luoghi che fino ad ora non l’avevano avuta. Questo aspetto emerge da alcuni convegni organizzati a Oxford, da un giovane ricercatore brasiliano, Luiz Dal Santo, e il Prof. Màximo Sozzo, di molti ricercatori asiatici (fino ad ora visti molto raramente), di tanti dell’America Latina e di alcuni dall’Africa. Volevo inoltre menzionare un aspetto: tutto questo dibattito si svolge in lingua inglese, ovverosia la lingua di scambio nelle scienze sociali. Questo profilo rileva perché, innanzitutto, la lingua reca con sé un portato di elementi di tipo culturale ed egemonico non irrilevante; inoltre implica che, di fatto, il dibattito possa essere supportato solo dalle grandi università, dotate di più strumenti e risorse. Si crea così una situazione paradossale: il dibattito sulla “criminologia del sud” è organizzato e sponsorizzato dal Nord (a parte alcune eccezioni di autori provenienti dal Sud del mondo). La lingua inglese, in sostanza, organizza la cultura di oggi, diventando una norma per il modo di parlare, scrivere e pubblicare articoli. Questo potrebbe paradossalmente avere l’effetto (indesiderato) di rinsaldare l’egemonia settentrionale sulla questione della criminologia meridiana.
Al 31 settembre 2023 in Italia risultano 58.987 persone detenute presso gli istituti penitenziari, di cui circa il 45,2% proviene da regioni quali Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. Esiste, dunque, una correlazione fra la “questione meridionale” e questione criminale?
Se per “questione criminale” intendiamo l’insieme dei processi di criminalizzazione, la complessità del fenomeno criminale e la sua percezione dal punto di vista sociale e istituzionale, allora sicuramente esiste una correlazione fra “questione meridionale” e questione criminale. È molto interessante notare che, di quelle 58.428 persone, quasi la metà vengono dal Meridione, ma circa 1/3 sono straniere. Questo rende l’idea dello scarsissimo numero di persone provenienti dal Centro e dal Nord-Italia nei nostri istituti penali. Tant’è che io ricordo, fra gli scritti di Massimo Pavarini – che è sempre bene ricordare rispetto a queste tematiche –, un articolo per la “Storia d’Italia” di Einaudi, sulla “presenza in carcere” dal 1860, in cui egli affermava che effettivamente c’era stato un aumento della presenza degli stranieri in carcere, ma che questi avrebbero sostituito i meridionali e non tutti gli italiani. Tuttavia, qui c’è una questione più generale che io terrei a porre anche dal punto di vista di Georg Rusche e Otto Kirchheimer in “Pena e struttura sociale”: coloro che si trovano in carcere sono sostanzialmente rappresentanti delle fasce più marginali della popolazione, dal punto di vista della struttura sociale, del potere socio-economico, culturale e così via. Su questo non c’è alcun dubbio, è una regola ferrea della criminologia: le persone in carcere si trovano in questo ruolo marginale, per delle ragioni che richiederebbero un intero corso di criminologia. Chi è socialmente marginale è più vulnerabile sia rispetto al rischio di commettere azioni criminali, sia di essere penalizzato. Su entrambi i lati, il rischio riguarda lo svolgimento di attività criminali alla luce del sole (la cosiddetta “criminalità di strada” o, come direbbero gli americani, “street crime”), su cui c’è chiaramente maggiore possibilità di intervento della polizia. Al tempo stesso, quelle persone a rischio sono più esposte ad avere meno risorse per difendersi da quei processi di criminalizzazione; si pensi, tra le altre cose, alla scarsa qualità della difesa o al non possedere una rete sociale. La probabilità, per coloro che si trovano ristretti nelle istituzioni penali, di trovarsi nuovamente in carcere (che altro non è che la parte finale di un imbuto), è assai alta. Ma se volessimo considerare tutti coloro che svolgono azioni criminali, allora scopriremmo che ce ne sarebbero tanti di cui nessuno si accorge mai. Pensiamo al tema della criminalità nascosta, economica, della criminalità che riguarda l’ambiente: il numero e il raggio di crimini che non vengono alla luce è enorme, e una percentuale di esso coinvolge inevitabilmente quelle persone appartenenti alle fasce marginali. Tornando al punto della domanda, le regioni meridionali sono le più povere; di conseguenza, in esse vi è una minore presenza di strutture di difesa, di contrasto delle forme criminali e di rinsaldamento dei tessuti sociali. È dunque da attendersi che siano anche le regioni di appartenenza di coloro che ritroviamo nelle istituzioni penali. Dall’altra parte, la provenienza non implica necessariamente il trovarsi in quelle regioni. In carcere si trovano anche persone immigrate al Nord d’Italia, e lo stesso ragionamento vale per gli stranieri che si trovano al Nord. Nelle grandi carceri italiane settentrionali abbiamo, infatti, una presenza straniera che è al di sopra del 50% della popolazione detenuta. Con “presenza straniera” non ci si riferisce tanto a coloro che sono immigrati in origine, ma a coloro che lo sono da poco e si trovano in una situazione in cui mancano una serie di punti di riferimento: dal riconoscimento giuridico alla mancanza di risorse e tessuto sociale. In definitiva, per chiudere la risposta alla domanda iniziale, una correlazione c’è. A patto però che non la intendiamo, come diceva Gramsci nel suo famoso scritto, come “frutto di un’indole malvagia” (perché questo è sempre il rischio), ma come frutto di condizioni sociali, economiche, culturali e politiche che alla fine espongono al crimine con più probabilità. Ma mi lasci un attimo approfondire il discorso sulla selettività.
Prego.
Ci si deve inevitabilmente collegare al tema della discriminazione. Secondo me, bisogna davvero sottolineare che la questione della discriminazione è sicuramente, in certi casi, di tipo diretto. Ad esempio, nei confronti degli stranieri può esserci all’interno delle forze dell’ordine o delle istituzioni una cultura di tipo razzista che quindi porta inevitabilmente ad una discriminazione diretta. Quando noi abbiamo condotto delle interviste inerenti al tema, alcuni degli appartenenti alla forze di polizia hanno risposto: “Certo che c’è razzismo: c’è nella società, e dunque anche nelle forze di polizia”, come a dire che non si tratta di un elemento esclusivo delle stesse. Posto che, purtroppo, non c’è una ricerca sulla polizia, e dunque non possiamo esprimerci in proposito, possiamo dire che sicuramente è importante quella discriminazione di tipo strutturale, e molto di quanto detto fino ad ora fa riferimento proprio a questo. Non è necessaria una volontà maligna delle istituzioni per ritrovare stranieri o meridionali in carcere; è molto più importante il meccanismo di tipo socio-strutturale: il luogo in cui le persone si trovano e le opportunità che ricevono dal punto di visto economico, educativo. Spesso mi sono ritrovato in dibattiti con colleghi e sociologi in cui si diceva che non c’è una discriminazione di tipo intenzionale o un razzismo da parte di chi si occupa di questi fattori. Ma il problema è il razzismo di tipo strutturale, poiché le persone che vengono da certe classi sociali, essendo percepite come appartenenti a certe “razze”, si trovano molto più facilmente in situazioni in cui possono essere criminalizzate. Questo senza doversi attendere di essere vittime di un razzismo di tipo intenzionale.
Quanto al recente Decreto legge “Caivano”, recante “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”, le chiedo: crede che possano esistere vie alternative?
Non entro nel merito del testo, dato che non ho avuto occasione di analizzarlo attentamente, ma mi soffermerei sul tema del disagio giovanile in rapporto all’utilizzo della coercizione. Nel 2011, in collaborazione con la Prof.ssa Stefania Crocitti, in occasione del progetto “Città sicure” nella regione Emilia Romagna, ci siamo focalizzati sulla ricerca “Devianza e immigrazione: una ricerca nelle scuole dell’Emilia-Romagna”, e siamo arrivati ad interrogarci sul confronto tra la probabilità di porre in essere atti devianti da parte di giovani di origine immigrata e quella invece connessa ai giovani di origine italiana. La ricerca, cosiddetta di “autorilevazione” è consistita nel chiedere a giovani di un’età compresa fra i 13 e i 14 anni se avessero commesso una serie di fatti devianti. È stato notato che una criminalità precoce fosse sintomo predittivo di una persistente carriera criminale e della commissione di reati anche più gravi in età avanzata. Sono stati somministrati circa seimila questionari nelle province dell’Emilia-Romagna e i risultati sono stati molto interessanti, perché vi era già una notevole presenza di giovani di origine immigrata, in questa sede da intendersi non soltanto i nati all’estero, ma anche i nati in Italia da genitori stranieri o i nati da un genitore straniero e da uno italiano. Pertanto, abbiamo creato una variabile “esterità”, che misurava il grado di connessioni con l’estero. Il risultato è stato che non vi era alcuna differenza fra ragazzi di origine italiana e immigrati; l’unico e più evidente elemento socio-strutturale e culturale che si poneva in relazione con il compimento di un’attività deviante era l’aver evidenziato difficoltà familiari e scolastiche. Una situazione, quest’ultima, che comprendeva anche ragazzi con buone situazioni economiche, che, a pensarci bene, nella realtà permettono tutta una serie di attività devianti, come il consumo di alcool, droghe e altre ancora. In conclusione, penso che, forse, interventi d’integrazione sociale sono quelli che potrebbero dare risultati. Era un po’, se ci pensiamo, la vecchia idea della scuola di Chicago (Chiacago Area Project): rinsaldare il tessuto sociale, aumentando il controllo sociale informale, ovverosia quel tipo di controllo che non lascia le persone e i gruppi da soli ma cerca di integrarli nel contesto sociale. A me sembra non esserci alcun dubbio sul fatto che, rispetto ai fenomeni di criminalità minorile – che David Matza definirebbe “drift”, vale a a dire “alla deriva morale e culturale” –, questo tipo di interventi siano importanti. Nel momento in cui si riescono ad attuare politiche sociali, ad esempio nell’ambito della sanità, della scuola e dell’assistenza, gli effettivi benefici si riversano anche sulla prevenzione della criminalità minorile. Invece, laddove queste politiche non sono presenti, possono sorgere molto più facilmente delle forme di delinquenza. Gli interventi di tipo repressivo, come dicevano i già citati autori della scuola di Chicago, devono tendere ad essere extrema ratio e dunque utilizzati solo in situazioni di grande deterioramento sociale. Altrimenti, gli unici interventi utili, specie con i giovani, sono interventi di natura reintegrativa.
*foto tratta dall’intervista di Màximo Sozzo a Dario Melossi
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