Di recente, è stata pubblicata da Wired Italia un’inchiesta che ha fatto balzare agli onori delle cronache il fenomeno, sempre più diffuso, del revenge porn. In particolare, la nota rivista di tecnologia ha portato alla scoperta di diversi canali Telegram nei quali, oltre 43.000 utenti, avevano creato gruppi finalizzati alla condivisione di video e foto di natura pornografica (e non), aventi come soggetto le proprie ex partner, ragazze minorenni – talvolta anche figlie degli utenti stessi – o comunque donne, amiche, conoscenti o estranee trovate sul web, in totale assenza del consenso delle stesse a divulgare il materiale. Lo scambio di questo materiale era accompagnato da commenti di ogni genere, soprattutto di incitamento allo stupro, connotati da misoginia, insulti o comunque determinati da una totale assenza di rispetto della dignità e dell’onore delle persone coinvolte. Tipico della dinamica di questi gruppi, i cui componenti sono definiti cyberspettatori, oltre allo spirito del branco, è infatti nell’utilizzo di foto o video senza il consenso delle protagoniste degli stessi. Sensazione di impotenza, umiliazione, ansia, insonnia, problemi relazionali, perdita dell’impiego, online hypervigilance e, nei casi più gravi, suicidio: questi sono solo alcuni degli effetti prodotti in ambiente digitale, effetti che hanno ricadute concrete nella vita delle persone, protagoniste della pratica del cosiddetto del revenge porn. Un fenomeno che, negli ultimi anni, è stato trattato sempre più frequentemente dalla cronaca, assumendo dimensioni progressivamente allarmanti su scala globale, e per questo necessita di essere approfondito e analizzato dal punto di vista tecnico-giuridico.
- Origini e significato del termine
Per cercare di comprendere che cosa si intenda per revenge porn, pare utile partire dalla definizione letterale di questo binomio. Attenendoci alla definizione proposta dal dizionario di Cambridge: «Private sexual images or films showing a particular person that are put on the internet by a former partner of that person, as an attempt to punish or harm them». L’espressione, di origine anglosassone, può essere tradotta in italiano con “porno-vendetta” (accademia della crusca). E’ infatti la vendetta-sovente a seguito della rottura burrascosa di una relazione sentimentale- la finalità che connota il revenge porn in senso stretto. Si tratta di una condotta marcatamente di genere (il 90% delle vittime è costituito da donne), dove un membro della coppia, generalmente l’ uomo, con la volontà di causare danno all’ex partner, divulga riprese e/o immagini intime o a sfondo sessuale che lo ritraggono. Tuttavia, oggi tale neologismo viene sempre di più utilizzato anche per fare a riferimento a fenomeni e situazioni che non gli corrispondono propriamente. Viene, infatti, impiegato per parlare di fatti commessi da una persona non legata da un rapporto sentimentale con la vittima (estranei, amici, colleghi). Talvolta è addirittura il momento genetico ad essere diverso, trovando la propria fonte in operazioni di hackeraggio di pc, dispositivi e Cloud. Nell’accezione lata di tale fenomeno sono ricondotte anche le condotte voyeuristiche, dove l’acquisizione delle immagini avviene in maniera non consensuale, a differenza del revenge porn in senso stretto, il quale invece si caratterizza per una creazione consensuale delle stesse. Ulteriore accostamento si ha con la casistica del deepfake, tecnica – la cui evoluzione fa temere ripercussioni anche nella prospettiva politica della sicurezza nazionale e dei mercati finanziari -, che permette di innestare il viso di una persona (spesso una celebrità ma anche politici) sul corpo di un attrice porno, creando così falsi video pornografici. Ma alla base di queste condotte possono esserci le motivazioni più disparate, come il divertimento, la ricerca di notorietà, la gratificazione sessuale, la ricerca di senso di potere e controllo. Il mondo anglosassone è pieno di casi inquadrati nell’ ambito del cyberbullismo, dove la vendetta viene sostituita dalla molestia e dal bullismo. Segno distintivo del cosiddetto sextortion è, invece, la prospettiva del profitto economico che muove il suo autore a chiedere qualcosa in cambio (denaro unitamente ad ulteriori immagini), secondo lo schema dell’estorsione, per non divulgare il materiale di cui è in possesso.
2. Codice rosso e art.612 ter: quale area di rilevanza penale in Italia del revenge porn?
Lo scorso 9 agosto è entrata in vigore in Italia la legge 69/2019 (recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”), denominata “Codice rosso”. E’ stata così introdotta una nuova fattispecie penale, l’art. 612 ter (“Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”), che al primo comma prevede la reclusione da 1 a 6 anni e una multa da 5mila a 15mila euro, per chiunque “dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso del le persone rappresentate”. Il secondo comma applica la stessa pena a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito tali contenuti, li diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento. Il discrimine fra le due ipotesi è rappresentato dall’elemento soggettivo richiesto per integrare la fattispecie: dolo generico nel primo caso e dolo specifico – costituito dal “fine di recare nocumento” alla persona rappresentata -, nel secondo. E’ da rilevare come quest’ultimo poi permetta di includere la punibilità di chi, secondo lo schema dell’attuale fenomeno del sexting, riceva immagini intime tramite messaggio e poi le diffonda, purché (dettaglio di fondamentale importanza) sia presente la finalità di nuocere. Necessita poi un approfondimento la scelta di considerare quali penalmente rilevanti nell’ambito della cosiddetta “seconda distribuzione”, solo quelle condotte connotate dalla volontà di recare danno, lasciando impunite tutte le forme di diffusione motivate da fini diversi. Se, infatti, l’opportunità di criminalizzare in via specifica questo fenomeno ha trovato la sua ragione d’essere nell’elevata offensività che lo caratterizza, non si comprende perché privare di tutela le ulteriori cangianti manifestazioni della pornografia non consensuale. Tuttavia, è evidente che il legislatore abbia effettuato la distinzione fra le due ipotesi al fine di evitare che fossero interessate dal biasimo penale fenomenologie che, in base ad una valutazione di politica criminale, non esprimano un’offensività equivalente, o comunque tale da meritare la censura del diritto terribile. Tra le aggravanti previste ai successivi commi, sono contemplati i fatti commessi tramite strumenti informatici ovvero da persona legata alla vittima da una relazione affettiva. Lasciando a chi legge la riflessione sulla ragionevolezza di tale previsione in forma di aggravante, è facile intuire come proprio queste fattispecie circostanziate si presenteranno con più frequenza all’attenzione dei giudici, essendo il revenger strettamente inteso come persona vicina alla vittima ed essendo di questi tempi la rete-in particolare i social network- la modalità consueta di condivisione di contenuti, non solo fra i più giovani. Le lacune legislative sono molteplici, rimangono infatti scoperte la semplice minaccia e il deepfake; manca una tutela rafforzata dei minori, soprattutto a seguito del mutato orientamento della Cassazione in ordine all’art 600 ter c.p. (“pornografia minorile”), che ha escluso la sussumibilità in tale fattispecie della pratica del sexting di immagini autoprodotte dal minore stesso (Corte di Cassazione del 21 marzo 2016, n. 11675), rendendo inoperante la clausola di sussidiarietà di cui al 612 ter. Vi è poi la difficoltà legata alla prova del consenso (che deve essere espresso, libero, ed esente da vizi), resa ancora più ardua nel caso in cui sia la stessa persona rappresentata ad inviarla all’agente o a più persone, le quali poi le ricondividano a loro volta: la difficoltà consisterebbe nella rilevanza della scriminante del consenso putativo, salvo, ovviamente, una eventuale responsabilità a titolo di colpa e a condizione che la supposizione erronea dell’agente cada sui presupposti di fatto.
3. Breve cenno alle esperienze di matrice anglosassone e nordamericana
Le esperienze normative di matrice anglosassone e nordamericana, in particolare quella californiana- così incentrata sul revenge porn in senso stretto che, per le sue carenze, è stata etichettata swiss cheese of revenge porn laws– hanno reso necessaria la ricerca di terminologie alternative alla revenge pornography. Negli USA si è proposto il concetto di non consensual pornography o di involuntary porn, mentre in Australia si è parlato di image-based sexual exploitation. Interessante la scelta inglese di image-based sexual abuse, dettata dalla considerazione che “pornografia” sarebbe un termine non neutrale ma carico di rimprovero nei confronti della vittima (il victim blaming è fra l’altro argomento centrale di chi negli USA si oppone alla criminalizzazione del fenomeno in esame). Assistiamo, infatti, a condotte endemiche sempre più difficili da avversare, talmente resistenti da saper sfruttare abilmente tutti i lati oscuri del mondo digitale, come nel caso del “vantaggio” rappresentato dalla crittografia su Telegram. Le discipline nate per contrastarli risultano insufficienti un attimo dopo essere state varate, il legislatore sempre un passo indietro rispetto agli sviluppi del cybercrime.
4. La necessità di strumenti extragiuridici: l’educazione digitale
Dai rilievi effettuati emerge come il diritto penale per esplicare piena efficacia preventiva, vada necessariamente accompagnato da altri strumenti extragiuridici, primo fra tutti l’ educazione digitale, perché non si può certamente affermare che tutti oggi percepiscano realmente il disvalore di tali condotte o ne conoscano la rilevanza penale. Anzi, proprio la persuasione di agire nell’impunità è spesso alla base dell’indifferenza odierna di chi si nasconde dietro la propria tastiera e dietro false identità. Inoltre, sarebbe necessario responsabilizzare maggiormente i service providers, anche in termini di rispetto del diritto all’oblio. Magari, proprio in questo campo, potrebbe esplicarsi da parte di tali piattaforme di condivisione quell’autoregolazione tanto richiesta dagli stati anche in altri ambiti, come quello del contrasto alle fake news. Risultati positivi in caso di sextortion si sono raggiunti con la collaborazione di alcuni siti come Facebook e Youtube, in grado di riconoscere l’impronta del file oggetto del ricatto e impedirne in tal modo la pubblicazione prima ancora che avvenga.
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