Il 9 Giugno la Corte Costituzionale, esaminando la questione riguardo la legittimità costituzionale della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa dall’art.595 del codice penale, ha rinviato la trattazione delle questioni, concedendo un anno di tempo al Parlamento per emanare una nuova disciplina in armonia con il dettato costituzionale e con le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte si è detta consapevole che la soluzione della questione esige una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona e conscia del fatto che sono attualmente pendenti diversi progetti di legge. Ha dunque affermato che una rimodulazione di tale bilanciamento «nel rispetto della leale collaborazione istituzionale» dev’essere affidato in primo luogo al legislatore e ha quindi deciso di concedere al Parlamento, sede privilegiata del dibattito democratico, il tempo di ultimare una nuova normativa in materia di diffamazione a mezzo stampa che possa sostituirsi alle anacronistiche disposizioni vigenti.
Per comprendere il portato valoriale degli interessi in gioco è doveroso ripercorrere l’iter attraverso cui la questione è giunta all’attenzione della Corte. Le ordinanze di rimessione dei tribunali di Bari e di Salerno lamentano infatti un vulnus alla libertà di espressione, libertà tutelata a livello nazionale e sovranazionale rispettivamente dagli articoli 21 della Costituzione e 10 della CEDU, nonché al principio proporzionalità della pena di cui all’articolo 27. I giudici rimettenti hanno posto l’accento in particolar modo sull’orientamento interpretativo che la Corte di Strasburgo ha adottato in relazione alla compatibilità della disciplina in materia di diffamazione a mezzo stampa con l’articolo 10. L’Italia, infatti, già più volte è stata destinataria di condanne in sede internazionale (uno per tutti, caso Sallusti c. Italia) data «l’eccessiva severità delle pene inflitte» (fino a 6 anni di detenzione) nonché alla luce del fatto che «la Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la libertà di espressione giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente lesi». Sulla base di questo principio la violazione è stata individuata proprio nel meccanismo legislativo per cui la norma incriminatrice «impone sempre e comunque l’irrogazione di una pena detentiva, senza alcuno spazio discrezionale per il giudice di merito, volto a differenziare i casi eccezionali di grave violazione di diritti fondamentali dalle diverse ipotesi in cui, in mancanza di tali circostanze eccezionali, l’irrogazione di una pena detentiva, o anche solo la sua previsione è stata ritenuta sproporzionata e quindi non necessaria in una società democratica, e pertanto violativa dell’art. 10 CEDU». La Corte di Strasburgo ha dunque inteso affermare che è già la previsione astratta di una pena detentiva ad essere eccessivamente limitativa del fondamentale diritto di manifestare il pensiero, risultando tale pena sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ossia il rispetto della reputazione personale. “Quando si parla di una così intollerabile e anacronistica sanzione come il carcere ai giornalisti ci vorrebbe una cancellazione secca della norma, ma il segnale della Corte Costituzionale è molto forte.” In questi termini si è espresso il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna.
Se quindi vi è la speranza che da tale situazione possa scaturire una rinnovata disciplina legislativa, è da segnalare che, come ha altresì sottolineato la Consulta, vi sono diversi progetti di legge che giacciono in Parlamento in attesa di essere discussi. Di tali iniziative legislative si sono fatti promotori vari gruppi parlamentari (PD, FI, M5S) e nonostante l’alterità dei valori e degli ideali di cui sono portatrici le menzionate forze politiche è possibile individuare dei principi comuni che ispirano le diverse proposte. Tra questi in particolare figurano l’abolizione della pena detentiva, seppur controbilanciata dalla considerevole entità delle multe che la sostituiscono; la necessità di differenziare la condotta di chi diffonde deliberatamente e consapevolmente notizie false e diffamatorie attraverso i media, distinguendo tale ipotesi dall’ipotesi di “diffamazione classica”; l’introduzione di una causa di non punibilità per chi pubblica la rettifica di dichiarazioni potenzialmente diffamatorie, salvo comunque il risarcimento in sede civile. La necessità di intervenire su questa disciplina, abolendo, come è giusto che sia in un sistema liberal-democratico, la minaccia della pena carceraria, potrebbe anche essere l’occasione di un rinnovato dibattito pubblico sulla figura del giornalista e in generale sul ruolo dei media. Riformare l’art.595 del codice penale, dunque, può essere anche l’occasione per dare il via ad una rivoluzione culturale dei media. In un paese nel quale sono divenute la regola campagne diffamatorie a mezzo stampa, orientate a senso unico e fondate sulle sole tesi dell’accusa, spesso in violazione del segreto istruttorio e accompagnate dalla pubblicazione delle intercettazioni penalmente irrilevanti, appare più che mai necessaria una svolta degli operatori del settore.
Tornando alla questione di legittimità costituzionale e al rinvio in Parlamento, se questo è lo stato della questione, si registra, per il momento, la totale assenza del tema oltre che dal calendario parlamentare anche dal dibattito pubblico, ormai sempre più allergico (in tema di giustizia) a qualsiasi riflessione ad ampio raggio che non sia alimentata da istinti pan-punitivisti o che comunque non sia indirizzata alla realizzazione di riforme scarsamente remunerative dal punto di vista elettorale. C’è un anno di tempo. Attendiamo.
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