Il bilanciamento dei diritti rappresenta uno strumento indispensabile per l’attuazione di una Costituzione pluralista. Se, da un lato, le restrizioni alla nostra libertà risultano indispensabili per garantire la salute e la vita di noi tutti, dall’altro è fondamentale che dette restrizioni risultino effettivamente adeguate ad impedire il diffondersi del virus (quindi necessarie) e proporzionate (e dunque non gratuitamente afflittive). Senza questo rapporto, viene meno la giustificazione della compressione delle libertà.

Non vi è dubbio che, fra i valori costituzionali, quelli che assumono un ruolo preminente rispetto a qualunque altro siano quelli alla vita e alla salute. Né si può seriamente revocare in dubbio che il dilagare del Covid-19 non ponga in serio pericolo detti valori, sia sotto il profilo individuale che sotto quello collettivo. Di ciò, infatti, a fronte del quotidiano aumento del numero dei contagi, ne stiamo acquisendo sempre più consapevolezza. Da qui, l’esigenza di bilanciare il diritto alla salute con altre libertà costituzionali, al duplice e contestuale fine di garantire il primo e di preservare il contenuto minimo delle seconde. Il bilanciamento dei diritti, invero, rappresenta uno strumento indispensabile per l’attuazione di una Costituzione pluralista che accolga una concezione “dignitaria” e non già “libertaria” dei diritti. Il delicato compito di trovare il punto di equilibrio tra valori costituzionali contrapposti è affidato, in quest’occasione,  “eccezionalmente” al Governo (per evitare digressioni che ci allontanerebbero dalla questione che stiamo trattando, bisognerà sorvolare sull’utilizzo non proprio conforme a Costituzione degli ormai purtroppo noti DPCM). Trattasi di impresa di non poco momento, lo si riconosce. Certo è, tuttavia, che tale opera di salvaguardia del diritto alla salute a discapito degli altri diritti debba avvenire attraverso la cartina tornasole dei fondamentali principi di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità delle misure. Principi sui quali l’attuale esecutivo ha sovente mostrato di vacillare.


Si pensi, ad esempio, all’obbligo della mascherina anche all’aperto introdotto dall’art. 1, comma 1 del DPCM firmato il 12 ottobre 2020 (la mascherina è obbligatoria «nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto» tranne nei luoghi in cui «sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi…»). Non si può sottacere che la lettera della disposizione appare oscura e, quindi, di difficile applicazione: si allude all’eccezione all’utilizzo della mascherina là dove «sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi». Orbene, cosa si intende per «isolamento»? Trattasi di un concetto assimilabile a quello di distanziamento, oppure allude ad una diversa situazione di fatto? Non solo: la prescrizione in oggetto risulta altresì contraddittoria con altre disposizioni contenute nel citato DPCM. Si pensi, per tutte, a quella per cui, ai fini del rispetto dell’obbligo in parola, risulta sufficiente dotarsi di una qualsiasi mascherina, addirittura “auto-prodotta” (art. 1, comma 4); tipologia di mascherina, come evidente, priva di qualsivoglia efficacia protettiva. Oppure, ancora, alla possibilità per chi fa jogging  – come da recente “interpretazione autentica” fornita dal Ministero dell’Interno” – di non indossarla. A ben vedere, la valutazione dei casi di obbligatorietà dell’utilizzo della mascherina finisce per dipendere dal “buon senso” del singolo accertatore, con buona pace del principio di eguaglianza. Situazione resa ancora più inaccettabile se si considera l’afflittività della sanzione, la quale richiederebbe a monte una maggiore determinatezza del comportamento prescritto. Ed invero, nella breve vigenza dell’obbligo si riscontra già una vicenda paradossale: una dipendente di un locale sanzionata perché, al termine del proprio turno di lavoro, stava fumando una sigaretta (ovviamente con la mascherina abbassata) nel rispetto (parrebbe) del distanziamento sociale.

Ora, nessuno mette (o vuole mettere) in dubbio la necessità di adottare misure restrittive propedeutiche ad evitare un nuovo lockdown. Purtuttavia, dette misure non possono in alcun modo comprimere libertà fondamentali della persona se non rispondono poi effettivamente allo scopo per il quale sono state adottate, ossia la tutela del diritto alla salute, risultando del tutto inadeguate e sproporzionate.

Altro caso emblematico di una modalità poco ortodossa (per utilizzare un eufemismo) di scrivere le disposizioni è quello che concerne la anomala “forte raccomandazione” «di evitare feste e di ricevere persone non conviventi» nelle abitazioni private in numero «superiore a 6» (art. 1, comma 6, lett. n). La disposizione in questione – che parla di “forte raccomandazione” anziché di obbligo– appare evidentemente figlia di una correzione adottata in “zona cesarini”, imposta dalla discussione originatasi a seguito delle dichiarazioni rese in diretta dal Ministro della Salute nel corso della nota trasmissione Che tempo che fa, secondo cui, per verificare il rispetto delle norme, si provvederà ad aumentare i controlli e ci si affiderà alle “segnalazioni” di altri cittadini. Orbene, tralasciando la circostanza che una mera raccomandazione presenta una valenza giuridica parificabile a quella di un detto popolare (si consenta l’estremizzazione), oltre ad odorare di concezione paternalistica lontana anni luce dal nostro assetto democratico, l’interpretazione fornita dal Ministro appare del tutto inaccettabile. Essa, invero, lascia trasparire tra le righe il concetto per cui, in una situazione di emergenza, sia consentito porre i cittadini l’uno contro l’altro, dove il primo assume sostanzialmente la veste di “spia” e, dunque, di giustiziere indiretto del cittadino irrispettoso delle regole imposte dallo Stato. Una concezione oltremodo lesiva non solo della riservatezza del singolo, ma anche del diritto ad una presunzione di “innocenza” (passatemi l’impropria terminologia) rispetto alla violazione delle restrizioni. Ed infatti, dalle dichiarazioni rese dal Ministro, sembrerebbe che le eventuali sanzioni possano dipendere anche da mere segnalazioni anonime, magari rese dal vicino di casa con il quale da anni si è ai ferri corti. Ma viepiù: quali dovrebbero essere i controlli che il Ministro ha affermato di voler intensificare? Come noto, infatti, un eventuale accesso delle forze dell’ordine nelle abitazioni private (che costituiscono luoghi di privata dimora) è consentito esclusivamente in forza di una legge (e non certo di un mero DPCM) che ne indichi specificamente i casi e le modalità, nonché di un previo provvedimento autorizzativo da parte dell’Autorità Giudiziaria. Tutto questo, salvo l’ipotesi in cui le forze dell’ordine abbiano il fondato motivo di ritenere che all’interno dell’abitazione si stia svolgendo un’attività criminosa (si badi bene: criminosa, e non già contraria a prescrizioni di natura amministrativa) o possa trovarsi il corpo del reato ovvero, infine, possa nascondersi un “latitante”. Accesso d’urgenza che, in ogni caso, necessita comunque di una successiva convalida da parte dell’Autorità Giudiziaria. Ciò, perché la libertà di domicilio, quale proiezione della persona umana, è inviolabile e gode delle medesime garanzie della libertà personale. Potrebbero spendersi ancora fiumi di parole sulle singolari disposizioni adottate con l’ultimo DPCM, ma ciò che preme mettere in evidenza è altro. Se da un lato le restrizioni alla nostra libertà risultano indispensabili per garantire la salute e la vita di noi tutti, dall’altro è giocoforza fondamentale che dette restrizioni risultino, ad un tempo, effettivamente adeguate ad impedire il diffondersi del virus (e quindi necessarie) e, ad un altro, proporzionate (e quindi non gratuitamente afflittive).  Ergo: un bilanciamento razionale tra diritto alla salute e libertà fondamentali dell’individuo è possibile, se lo si vuole.