Abbiamo intervistato Tommaso Guerini, avvocato penalista e professore a contratto di Diritto penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna. E’ autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano in particolare due monografie: “Diritto penale ed enti collettivi” (2018) e “Fake news e diritto penale. La manipolazione digitale del consenso nelle democrazie liberali” (2020), entrambe edite da Giappichelli.
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Il 2020, oltre a essere l’anno della prima pandemia dell’era della globalizzazione, è anche l’anno delle elezioni presidenziali americane, nelle quali Donald Trump si presenta come incumbent. La campagna elettorale è ormai entrata nella sua fase clou, e, come già accaduto nel 2016, i social networks stanno giocando un ruolo centrale nel decidere chi siederà per i prossimi quattro anni alla Casa Bianca. Tuttavia, per la prima volta si riscontra una parziale spaccatura tra le principali Social media company: da un lato Twitter ha sottoposto a fact-checking alcuni tweet del Presidente Trump, suscitandone le ire, dall’altro Facebook, che ha sempre sostenuto l’opposta tesi secondo cui non spetta alle piattaforme farsi “arbitri della verità di tutto ciò che le persone dicono online” ha rivisto la sua politica sui contenuti negazionisti della Shoah, prevedendone la rimozione. Come giudica questa diversità di vedute e quanto incide la comunicazione digitale sui fenomeni politici, non solo negli USA?
Muovo da una premessa di ordine generale. La politica americana è sempre stata un oggetto misterioso per la gran parte degli analisti europei, che tendono a leggere i fenomeni che avvengono in quel paese alla luce di categorie politiche difficilmente esportabili al di là dell’Atlantico. Anche in Italia, a mio parere scontiamo un forte bias cognitivo: a causa dell’influenza della cultura americana sulle generazioni che si sono formate a partire dal secondo dopoguerra, per lungo tempo abbiamo idealizzato gli Stati Uniti, facendo sì che i pre-giudizi, tanto in senso positivo −generalmente da parte dei conservatori−, quanto in senso negativo −da parte dei movimenti che si ispiravano al marxismo−, offuscassero la capacità di analisi di un sistema politico tanto vasto quanto complesso, e che per essere compreso deve essere prima di tutto riconosciuto e ricostruito in termini di assoluta originalità. Lo si dice da tempo, ma ne sono sempre più convinto: è l’osservazione di ciò che avviene negli Stati Uniti che ci può aiutare a capire cosa avviene e cosa potrà avvenire in Europa, non viceversa. E quello che osserviamo oggi, guardando gli Stati Uniti, è che aumentano le diversità sul piano economico e politico, a tal punto da creare una lacerazione nel tessuto sociale che la pandemia renderà ancor più profonda e difficilmente rimarginabile. Occorre poi sgombrare il campo da un’ulteriore fonte di equivoci: la vittoria di Donald Trump alle elezioni del 2016 e il suo essere ancora pienamente in corsa per un secondo mandato – non bisogna mai dare troppo presto per sconfitto un Incumbent, soprattutto se repubblicano – non è la causa dei fenomeni che stiamo descrivendo, ma ne rappresenta un effetto. Come ha sostenuto di recente Ezra Klein nel suo “Why are we polarized”, le fratture nella società americana risalgono almeno a trent’anni fa, quando è iniziato un progressivo fenomeno di polarizzazione che solo riduttivamente può essere ricondotto alla dicotomia democratici/conservatori. In verità – e mi pare che il forte consenso che ha accompagnato le proteste guidate dal movimento Black live matters dopo l’uccisione di George Floyd, così come la sistematica adesione alle istanze del metoo, lo dimostrino – la società americana è sempre più divisa. L’American Dream incarnato da John Fitzgerald Kennedy era sicuramente un’illusione – basta leggere la trilogia di romanzi che a quel periodo e alla demolizione del mito di Camelot ha dedicato James Ellroy –, ma ha contribuito a formare l’immaginario collettivo di più di una generazione, cementando una nazione che (non bisogna mai dimenticarlo) è una confederazione di Stati, ciascuno dei quali fiero della propria autonomia. È in questo scenario – che, per rimanere nella letteratura, è stato magnificamente fotografato da Philip Roth nel suo “American Pastoral” (1997) –, ulteriormente acuito dalla rivoluzione digitale che si è avviata a partire dai primi anni Duemila, che irrompe la figura di Donald Trump. Un politico atipico, che invece di cercare di ricomporre le fratture dovute alle tensioni razziali, generazionali ed economiche che attraversano gli USA −come aveva invece tentato di fare il suo predecessore Barack Obama− ha deciso di acuirle per monetizzarle in termini di consenso. Un uomo profondamente antipatico, che non si vergogna, ma anzi rivendica il suo ruolo di sostenitore di tutte le posizioni più estreme, dal vetero-maschilismo fino ad una certa indulgenza nei confronti dei suprematisti bianchi che seguono le teorie del complotto di QAnon, passando per un malcelato negazionismo nei confronti del Covid-19 – chiamato “the Chinese virus” o “kung flu”, in coerenza con le sue posizioni anticinesi. Un uomo talmente odiato dagli intellettuali progressisti da finire in cima alla F*ck-it List compilata nel suo ultimo romanzo dallo scrittore inglese John Niven. Nel costruire l’immagine di Trump, che nasce come personaggio pop prima con il cinema –basti ricordare che è modellata su di lui la figura del magnate Daniel Clamp, tra i protagonisti del secondo film della saga dei Gremlins (1990), e che lo stesso Trump compare nella parte di sé stesso in numerose pellicole, tra le quali il film cult Zoolander (2001)– per poi trovare definitivo riconoscimento con la televisione –in particolare, con il reality show “The Apprentice”, andato in onda dal 2004 al 2014–, il ruolo dei social network è stato evidentemente centrale. Le elezioni del 2016 sono state le prime elezioni dell’epoca moderna segnate dall’affermarsi dei social network come veicolo fondamentale di costruzione del consenso. Basti pensare che, già all’epoca, i due sfidanti spesero oltre 81 milioni di dollari per la sola pubblicità su Facebook, mentre oggi è previsto che ne verranno spesi alcune centinaia di milioni. Tra i diversi social, Trump ha sempre manifestato una particolare predilezione per Twitter, nei confronti del quale sembra avere una vera e propria addiction che lo porta a postare – anche direttamente – numerosi messaggi ogni giorno. Anche per questo, può suscitare perplessità la minaccia più volte reiterata negli ultimi mesi (l’ultima, dopo che Twitter e Facebook hanno deciso di limitare la diffusione, in attesa di fact- checking, di un controverso articolo del New York Post ove venivano riportate gravi accuse nei confronti del figlio di Joe Biden, Hunter, per una presunta attività illecita di lobbying in Ucraina) di abrogare o comunque rivedere il Code § 230 – Protection for private blocking and screening of offensive material, inserito nel 1996 nel Communications Decency Act, che permette ai social network di non essere ritenuti responsabili davanti alla legge dei contenuti online pubblicati dai loro utenti. In verità, mi pare che tutto si spieghi se collochiamo questo discorso nel contesto del populismo 2.0 che caratterizza l’azione di Trump, il quale riesce, nell’ambito della stessa giornata, a sostenere tutto e il contrario di tutto, come ben colto dall’esilarante parodia che ne fa Alec Baldwin al Saturday Night Live.
Resta il fatto che la disinformazione digitale, in generale, e la diffusione di fake news tramite le reti sociali, in particolare, rappresentano un problema ormai diffuso su scala globale.
Il ricorso a campagne massive di disinformation e misinformation attraverso la rete e le piattaforme di social network è ormai un fenomeno diffuso in tutti gli ordinamenti democratici, nei quali si verifica con maggiore frequenza e intensità all’approssimarsi delle competizioni elettorali. Secondo un modello elaborato negli Stati Uniti da Claire Wardle, una delle più autorevoli studiose di user generated content, si possono distinguere sette diversi tipi di notizie che hanno il carattere della disinformation o della misinformation, quest’ultime due distinguibili in quanto nel primo caso è presente un intento ingannatorio, assente invece nel secondo. Alla base della piramide, troviamo le notizie false diffuse con fine satirico o parodistico (satire or parody), caratterizzate cioè dal non avere scopi offensivi e dall’essere potenzialmente divertenti. Vi è, poi, il caso di diffusione di contenuti ingannevoli (misleading content), ovvero il caso che si ha nel momento in cui una informazione – vera o verosimile – viene manipolata o distorta al fine di semplificare concetti complessi, alterandone l’esatta percezione da parte dei fruitori finali. L’esistenza di un nucleo più o meno esteso di verità è caratteristica comune anche ai casi di contenuti fraudolenti (imposter content), nei quali l’alterazione riguarda la fonte della notizia; di false connessioni (false connection), che si verificano ogniqualvolta i titoli o i contenuti visivi che corredano l’articolo non corrispondono al contenuto di questo; infine, ai casi di falsificazione del contesto (false context), che si verificano quando, a corredo di una notizia vera, vengono diffuse altre informazioni false, anche se di minore rilievo. Due i casi che possiamo definire come estremi, riscontrabili qualora vengano espressamente manipolati un contenuto informativo, un’immagine o un filmato, al fine di ingannare il pubblico (manipulated content), ovvero nel caso di fabbricazione di una notizia falsa (fabricated content), che si verifica in tutte quelle circostanze in cui un’informazione, un’immagine o un filmato siano del tutto falsi e realizzati intenzionalmente per ingannare l’utenza. In una prospettiva penalistica, ho già avuto modo di sostenere che il problema va affrontato muovendo da una diversa visuale, che deve necessariamente prendere in considerazione tanto l’oggetto del contenuto, quanto la finalità in ragione del quale esso viene formato e condiviso. Ragionando in termini di offensività, infatti, possiamo individuare contenuti falsi – appartenenti quindi a tutte e sette le diverse tipologie di fake news sinora esaminate –, completamente inidonei a ledere beni o interessi di natura costituzionale, così come fake news apparentemente neutre, in grado tuttavia di esporre a pericolo o danneggiare beni giuridici di natura individuale e superindividuale. Ho quindi proposto una tassonomia penalistica delle fake news, che ho distinto in: a) contenuti aventi natura diffamatoria, tali perché una notizia o un contenuto visuale ledono l’onore o la reputazione di uno o più soggetti individuati o individuabili, senza che trovino applicazione le cause di giustificazione del diritto di cronaca e del diritto di critica; b) contenuti storici di tipo revisionista, ossia informazioni false diffuse allo scopo di influenzare il pensiero dei contemporanei riguardo ad eventi del passato; c) contenuti falsi di stampo antiscientifico – volti cioè a sostenere tesi minoritarie o non accolte tout court dalla letteratura specialistica, non epistologicamente verificabili e falsificabili; d) fake news generaliste o di intrattenimento, apparentemente prive di un contenuto offensivo e diffuse al fine di generare traffico sui siti che le veicolano, realizzando così profitti attraverso il meccanismo del c.d. clickbaiting. In ogni caso, credo sia ormai acquisita l’idea che vede nelle fake news uno strumento particolarmente offensivo rispetto alla genuinità della formazione del consenso, in occasione del momento – fondamentale nelle democrazie rappresentative – in cui viene esercitata la sovranità popolare attraverso il conferimento di una delega dal corpo elettorale ai propri rappresentanti affinché esercitino il potere legislativo ed esecutivo. Lo abbiamo già accennato, ma giova ribadirlo: è una questione che ha portata ormai globale, come ebbe già modo di rilevare il World Economic Forum nel Global Risks Report del 2013, ove una intera sezione – intitolata Digital Wildfires in a Hyperconnected World – era dedicata all’analisi dei rischi derivanti da una massive digital misinformation su scala globale. Secondo il Report, Internet rimane un territorio inesplorato e in rapida evoluzione, nel quale i social media consentono di diffondere informazioni su scala globale a velocità vertiginosa; ciò determina enormi potenzialità positive, ma allo stesso tempo espone l’intera comunità informatica al rischio di digital wildifires, che si possono sprigionare – esattamente come gli incendi reali – tanto per colpa, quanto volontariamente. Nei sette anni che ci separano da queste considerazioni, trovo che quelle che potevano apparire come fosche previsioni si siano avverate, mentre non mi pare che vi sia stata una altrettanto significativa attività di prevenzione da parte delle agenzie di controllo. Eppure, già allora, in un’epoca apparentemente vicina ma di fatto ormai remota, in ragione della continua evoluzione dei fenomeni tecnologici, si prendeva atto di come gli strumenti di auto- regolamentazione della rete –come ad esempio quelli adoperati nella community dell’enciclopedia on-line Wikipedia, ove utenti esperti si fanno carico del compito di verificare e modificare le voci che contengono elementi non veritieri o non verificati– non fossero idonei ad affrontare fenomeni che si manifestavano sistematicamente e su scala globale. Del resto, le considerazioni espresse nel Global Risks Report del 2013 sembrano confermare quanto già osservato dalla dottrina che si è occupata dell’impatto dei fenomeni tecnologici sull’ordinamento giuridico; come ammoniva Lawrence Lessig nell’incipit di un testo ormai classico: every age has its potential regulator, its threat to liberty. Secondo Lessig, l’epoca contemporanea è quella del cyberspazio. Essa, come quelle precedenti, ha un proprio elemento regolatore, il quale è potenzialmente idoneo a mettere in pericolo le libertà individuali. Questo regolatore è il codice, ovvero l’insieme di software e hardware che delineano l’architettura del cyberspazio, determinando sia le modalità con le quali proteggere la privacy, sia quelle che consentono di censurare la manifestazione del pensiero; il codice determina la possibilità di concedere libero accesso all’informazione sulla rete, oppure quella di limitarlo in determinate aree del globo. Esso decreta ciò che può essere visto e ciò che può essere controllato dalle pubbliche autorità. Pertanto, queste ultime devono essere in grado di regolarlo. Tuttavia – ragiona l’Autore – saremmo così ossessionati dall’idea tradizionale per cui libertà significa libertà dal Governo, da non accorgerci che a nuovi spazi corrispondono nuovi elementi regolatori, rinunciando così a comprendere in quali modi può oggi essere limitata la nostra libertà e ad individuare gli strumenti giuridici per proteggerla.
Il fenomeno di cui parla è stato affrontato da numerosi ordinamenti con strumenti legislativi anche di natura penale. E l’Italia? Quali sono gli strumenti legislativi vigenti che potrebbero contribuire ad arginare la diffusione di fake news?
Sarò brutale: a mio parere non abbiamo al momento alcuno strumento efficace ad arginare il diluvio di fake news che quotidianamente si diffondono in rete e che si acuisce ogniqualvolta si avvicina una scadenza elettorale. Uno degli elementi essenziali del fenomeno che stiamo indagando è rappresentato dall’impossibilità di imbrigliarlo all’interno di confini fisici, caratteristica comune a molti fenomeni che si sviluppano nell’ecosistema del World Wide Web. Il problema dell’assenza di legami territoriali all’interno di Internet, che rappresenta un tema per certi versi classico rispetto ai bisogni di regolamentazione giuridica di comportamenti posti in essere nella o attraverso la rete, assume, nell’ambito di studi in materia di disinformation, una dimensione del tutto peculiare. A mio parere, peraltro, la formazione di diverse reti nella rete è uno dei fenomeni meno considerati e allo stesso tempo di maggiore interesse in questo momento storico, in quanto sembra riproporre – aggiornandoli – alcuni stilemi tipici del confronto tra superpotenze che ha segnato la seconda metà del Novecento e che fu oggetto di un fondamentale lavoro di Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, del 1992. Secondo quanto sostenuto da ultimo da Kai-Fu Lee nel suo libro “AI Superpowers. China, Silicon Valley and the new world order” (2018), le frontiere dell’economia digitale – e in particolare le potenzialità offerte dallo sviluppo delle Artificial Intelligence – rappresentano il nuovo campo di scontro tra le superpotenze del XXI Secolo e, in particolare, gli Stati Uniti e la Cina. Restando sul punto, pur essendoci ormai confini invisibili che delimitano il web, l’assenza di barriere fisiche fa sì che non vi siano particolari ostacoli alla diffusione delle fake news, che ormai proliferano in tutti quei paesi nei quali vi siano infrastrutture informatiche sufficientemente sviluppate. L’esame del quadro comparatistico si rende quindi necessaria per ricostruire quali siano i principali approcci legislativi al fenomeno della disinformazione massiva mediante la rete. Rimanendo nell’ambito a noi familiare del diritto penale, è ormai acquisito che vi sono fenomeni criminosi per loro natura transnazionali, come il contrabbando, il traffico di sostanze stupefacenti o il riciclaggio, ormai ampiamente studiati e riconosciuti nei loro elementi essenziali, sia sul piano criminologico sia dal punto di vista del riconoscimento giuridico attraverso Convenzioni internazionali. Viceversa, al di là di una generica presa d’atto del pericolo per il corretto funzionamento del sistema dell’informazione causato dalle campagne di misinformation, il fenomeno della distorsione informativa rimane ancora largamente inesplorato e oggetto di interventi puntiformi, affidati alla sensibilità dei singoli ordinamenti. In assenza di qualsiasi forma di regolamentazione sovrannazionale, la disamina del quadro comparatistico ci consegna una realtà frammentata. Se prendiamo in considerazione quegli ordinamenti che hanno scelto di introdurre una legislazione specificamente dedicata alle fake news o, comunque, al fenomeno della disinformazione (tralasciando cioè quei paesi che hanno intrapreso generiche azioni di contrasto al fenomeno, ad esempio attraverso la formazione di comitati governativi di esperti o di Commissioni parlamentari) ci troviamo di fronte a tre diversi quadranti geo-politici: Europa, Russia e Asia, con alcune interessanti proiezioni anche in America Latina. In particolare, nel quadrante occidentale, troviamo un’Europa preoccupata di difendere la propria tradizione giuridica, ma sempre meno rilevante sul piano economico e, in particolare, nel settore delle infrastrutture tecnologiche, dove si scontra con l’approccio iperliberale statunitense (dove hanno sede tutte le OTT) il quale, nel rimarcare il primato della freedom of speech sancita dal Primo emendamento della Costituzione del 1787, finisce per sottovalutare il pericolo che una informazione distorta può rappresentare per la qualità della democrazia nell’epoca dei rigurgiti populisti. Nel quadrante orientale, invece, si impone, sia pure con alcune differenze, il modello autoritario adottato in Russia e in Cina, che, dietro al dichiarato intento di reprimere forme dannose di misinformation, cela il proposito di creare delle reti sovrane nelle quali riprodurre i meccanismi censori già sperimentati con successo nel settore degli old media. Dobbiamo quindi prendere atto di una tendenza sempre più diffusa a legiferare su questo nuovo oggetto –tipico dell’universo digitale– spesso attraverso norme di sistema volte a regolamentare lo stesso cyberspazio, mentre è ancora maggioritaria, soprattutto nel c.d. mondo occidentale, la scelta contraria. In particolare, i paesi di tradizione anglosassone – su tutti gli Stati Uniti e il Regno Unito – ove pure, a seguito delle elezioni presidenziali del 2016 e del referendum sulla Brexit, si è aperto un dibattito su come garantire l’affidabilità delle notizie che vengono diffuse attraverso Internet, sono particolarmente restii a introdurre forme di limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero. È una preoccupazione che, alla luce di quanto rilevato sinora, pare senza dubbio giustificata. Anche senza voler rimarcare la funzione censoria che strumenti penali o para-penali svolgono all’interno di sistemi autoritari – un aspetto, a nostro avviso, tutto sommato scarsamente originale, che finisce con il coincidere con la riproposizione in ambito digitale di stilemi tipici dei regimi autoritari e totalitari del Novecento –, la disamina del panorama legislativo europeo lascia aperti numerosi interrogativi. Tanto nella legislazione francese, quanto in quella tedesca, non è difficile leggere l’intento di legislatori ancorati a sistemi assiologici che discendono da tradizioni illuministiche e fortemente impegnati, nella difesa dei valori dell’europeismo, ad erigere una barriera contro l’affermazione di forze populiste ed euroscettiche. Il rischio legato a questo tipo di ratio legis è duplice: da un lato si finisce con il ricadere in pieno nel paradosso di Böckenförde, secondo il quale “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”, arrivando a comprimere proprio quei diritti fondamentali che si vorrebbero garantire e, in particolare, la libertà di esprimere un pensiero dissenziente rispetto a quello maggioritario. Dall’altro lato, si rischia di confondere potere legislativo e potere politico, attribuendo al primo funzioni di ingegneria sociale che si vorrebbe incidessero sull’esercizio della sovranità popolare, con l’ulteriore – e non secondario – rischio di ricadere in una pericolosa ipotesi di eterogenesi dei fini, che si può verificare ogniqualvolta una legge, immaginata per reprimere idee ritenute pericolose per la salvaguardia della democrazia, venga raccolta come eredità da maggioranze meno sensibili alla tutela dei diritti civili e politici. Venendo all’Italia, dopo una fase intensa di proposte di legge presentate al tramonto della scorsa legislatura, mi pare che l’attenzione sul tema sia molto calata. Non mi stupisce che ciò sia avvenuto nella prima parte della legislatura, caratterizzata dalla formazione di una maggioranza giallo-verde sicuramente poco sensibile alle limitazioni della propaganda in Internet, dato il ricorso sistematico che ad essa hanno fatto ricorso entrambe le forze che ne costituivano i pilastri. Mi stupisce di più che il tema non sia sentito come prioritario da un partito che si definisce “democratico” e che dovrebbe avere quindi particolarmente a cuore la salvaguardia dei diritti soggettivi e politici dei cittadini, anche rispetto alle forme digitali di manipolazione del consenso. Certo, se la soluzione deve passare necessariamente dal diritto penale, meglio lasciar perdere.
Dunque, mi pare di capire che lei sostenga la necessità di approntare una legislazione ad hoc, che tenga conto delle specificità del mezzo digitale e che abbandoni il riferimento a categorie novecentesche, ormai obsolete, ma che non sia favorevole a un intervento penalistico.
Sarà che rimango particolarmente legato al pensiero del mio Maestro, Filippo Sgubbi, recentemente scomparso. L’eccesso di diritto penale non è una soluzione: è una parte fondamentale dei problemi della contemporaneità. L’irresistibile fascinazione per il punire ha dato vita a un diritto penale totale, che ha perduto i caratteri della frammentarietà e della sussidiarietà per trasformarsi in uno strumento imprescindibile e onnipresente, al quale ricorrere per sopire qualsiasi domanda di tutela – spontanea o indotta – che emerga dal corpo sociale. È un problema che non riguarda soltanto l’Italia, come dimostra il bel saggio di Silva Sanchez, “L’espansione del diritto penale” (2004), ma che da noi si intreccia profondamente con il persistere, ormai da un trentennio, di violente spinte populiste, la cui visione del penale è divenuta ormai maggioritaria – basti pensare al recente sondaggio di SWG, secondo cui il 37 % degli italiani sarebbe favorevole alla reintroduzione della pena di morte – come ben fotografato dal volume di Enrico Amati “L’enigma penale” (2020) e, ancor più di recente, da un libro di Luigi Manconi e Federica Graziani dal titolo evocativo: “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” (2020). Come stato osservato proprio da Enrico Amati, la logica interna del populismo ruota attorno a tre concetti: il popolo, le élite e la volontà generale. È sufficiente aggiungere al lemma popolo l’aggettivo digitale, per rendersi conto di come questi stessi concetti rivestano un ruolo fondamentale anche nel discorso sulle fake news. La già esaminata tendenza alla polarizzazione dei gruppi all’interno della rete fa sì che si riproducano – amplificate – dinamiche tipiche del fanatismo di massa – per il quale rimando a due testi fondamentali, rispettivamente di Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo” (1948) e di Elias Canetti, “Massa e potere” (1960) – e dei movimenti totalitari, alimentati dall’incessante attività della propaganda. In questa prospettiva, le fake news rappresentano un’evoluzione dei tradizionali strumenti di controllo delle masse, necessaria per aggiornarne il catalogo alle trasformazioni sociali imposte dallo sviluppo tecnologico. Oggi come allora, al centro della retorica populista vi è la costruzione di un nemico comune, individuato nelle diverse caste di intellettuali, politici, giornalisti. Dietro l’utilizzo di un linguaggio fortemente dispregiativo – anch’esso elemento caratteristico di qualsiasi discorso autoritario – si cela l’attacco alle élite politiche, economiche e culturali, ormai percepite come irrimediabilmente corrotte e da spazzare via. Ad esse, riaggiornando il mito proto-autoritario del bon sauvage, si contrappone la narrazione di un popolo puro, chiamato a esercitare direttamente la sovranità, travolgendo quei corpi intermedi che la cui esistenza è elemento essenziale per il funzionamento di una moderna democrazia. La diffusione costante di fake news è un elemento essenziale di questo storytelling; attraverso la comunicazione di notizie false o comunque imprecise, esagerate o tendenziose, viene alimentata una narrazione alternativa della realtà, funzionale al disorientamento che genera l’idea stessa di post-verità: una notte hegeliana, nella quale tutte le vacche sono nere. Del resto, come è stato efficacemente osservato da Lucia Risicato, il populismo è allo stesso tempo “un eterogeneo movimento politico e uno stato d’animo” , che viene costantemente alimentato da una narrazione complottista, finalizzata a realizzare un rovesciamento delle istituzioni rappresentative –descritte come obsolete e, comunque, non rispondenti al bisogno di un esercizio diretto della sovranità da parte del popolo– nella quale il diritto penale –anche in forza della sua dimensione simbolica e mediatica– diviene, al contempo, terreno di scontro e aggregatore di consenso. In tale contesto, l’introduzione di nuove fattispecie penali deve essere valutata con estrema prudenza. Innanzitutto, sotto il profilo tecnico, mi pare sia estremamente difficile imbrigliare in una fattispecie incriminatrice rispettosa dei canoni della determinatezza e della precisione un fenomeno ancora in divenire, che non trova ancora concordi i linguisti, prima ancora che i giuristi. Vi è poi un evidente rischio di sovrapposizione con alcune fattispecie incriminatrici o ipotesi aggravanti già previste nel nostro sistema penale per punire specifiche ipotesi di diffusione di notizie false. L’obiezione che ci può essere posta è che si tratta di problemi risolvibili rispettivamente con uno sforzo di tecnica legislativa e con un’attenta ricognizione del quadro sistematico, volta ad eliminare possibili aporie. Invero, ciò che ci spinge a valutare in termini negativi l’opportunità di introdurre una o più fattispecie penali che puniscano i produttori e i diffusori di fake news è il bisogno di riaffermare il principio di extrema ratio. Proprio perché l’attuale temperie politico-criminale spinge verso la pan-penalizzazione, ogniqualvolta sia possibile si deve evitare la tentazione di implementare un sistema punitivo ormai pletorico, preferendo potare alcuni rami secchi o minori – secondo un’efficace metafora di Francesco Palazzo – piuttosto che studiare in laboratorio nuovi innesti. La misinformation rappresenta un rischio concreto per il futuro – prossimo – della democrazia liberale: per fronteggiarlo occorrono risposte efficaci, che per definizione non possono derivare dall’utilizzo simbolico del diritto penale. Un’ultima questione. Si discute molto, in questo momento storico, della crisi del paradigma liberale – e costituzionalmente orientato – del diritto penale. In questo scenario, l’etica pubblica si trasforma in diritto penale: alla minaccia di pena si attribuisce il compito di ricomporre le lacerazioni del tessuto sociale, eliminando la distinzione tra ciò che è lecito – per quanto eticamente e moralmente riprovevole – e ciò che costituisce reato. Questa compenetrazione tra etica pubblica e diritto penale fa sì che trovino nuovamente cittadinanza nel sistema dei delitti e delle pene elementi preilluministici, tra i quali può senz’altro essere ricompresa la presunzione di tutelare la verità. Concetto assoluto, senz’altro noto alla religione e alla filosofia ma ormai da secoli filtrato, è che il diritto penale positivo non si preoccupa di punire il mendacio in sé, ma di tutelare determinati beni o interessi da singole forme di aggressione che vengano poste in essere mediante condotte ingannatorie o con la formazione di documenti o atti contraffatti, alterati o nei quali viene attestato il falso. È una concezione che viene messa in discussione dal dibattito filosofico più recente, nel quale si inizia a discutere dell’esistenza di diritti aletici, ma che, a nostro avviso, deve invece essere riaffermata. Questo, soprattutto di fronte al duplice rischio di costruire una forma di censura digitale delle opinioni sgradite e di punire anche la diffusione – in buona fede – di notizie non vere. A me pare, infatti, che il ricorso a concetti assoluti implichi quale componente ineliminabile il richiamo a dogmatismi che sconfinano nel fideismo, come tali non verificabili e non falsificabili, dunque sottratti al metodo epistemologico su cui si fonda l’idea stessa di società aperta. Mi pare quindi preferibile percorrere una strada diversa, facendo ricorso al diritto amministrativo, anche attraverso una maggiore attribuzione di poteri all’AGCOM.
Non si rischia così di creare una “Autorità Pubblica della Verità”, come sostenuto dal Giudice costituzionale Nicolò Zanon?
Non v’è dubbio che sia un problema da tenere in grande considerazione, e non solo in ragione dell’autorevolezza di chi ha mosso questa obiezione.
Dopodiché, se si vuole evitare di ricorrere al diritto penale, mi pare che la sola alternativa percorribile sia seguire il modello tedesco, ove viene sanzionato direttamente il gestore della piattaforma che non proceda alla rimozione di contenuti falsi o offensivi. È una strada che limita l’intervento dello Stato e che allo stesso tempo responsabilizza i gestori. Tuttavia, bisogna prendere innanzitutto atto della natura eminentemente pubblicistica degli interessi in conflitto, nonché della preoccupazione (manifestata nella dottrina di lingua tedesca chiamata a ragionare sul NetzDG) che, agendo su un piano meramente privatistico, possa accadere che le piattaforme, in caso di dubbio, scelgano di procedere alla rimozione di elementi sospetti anche in considerazione del fatto che, mentre la scelta di mantenere on line un post dal contenuto illecito potrebbe essere severamente sanzionata, quella di rimuovere un contenuto lecito sarebbe priva di conseguenze. Perciò, resto convinto che sarebbe preferibile che a sovraintendere il procedimento di rimozione vi fosse un organo di diritto pubblico. Ciò posto, considerando il bisogno di garantire piena applicazione del principio di terzietà – anche in questo caso, in ragione dalla più volte richiamata natura politica degli interessi in gioco – mi pare che le opzioni in campo siano ancora una volta due sole: affidare tale compito alla magistratura, oppure a un’autorità amministrativa indipendente. Vi sono due ordini di ragioni che ci portano a prediligere quest’ultima soluzione. La prima: non siamo persuasi che, attribuendo ad un giudice – che non potrebbe essere altro che il giudice civile, investito della questione con una sorta di procedimento d’urgenza modellato sullo schema dell’art. 700 c.p.c. – la cognizione sui reclami proposti contro la presenza on line di contenuti offensivi, si otterrebbero risultati efficaci. La quantità di contenuti fake diffusi tramite la rete, soprattutto in periodo elettorale, richiedono tempi di reazioni incompatibili con lo stato attuale dell’amministrazione della giustizia. In più, il rischio, sarebbe duplice: da un lato, rendere inefficace la disciplina di contrasto alla misinformation; dall’altro, intasare ulteriormente un settore strategico per il paese, da tempo in difficoltà. Viceversa, nel caso di specie ricorrono tutti gli elementi che sono alla base della stessa creazione delle autorità garanti, individuate dalla letteratura più attenta in quattro elementi essenziali: a) conflittualità dei valori in gioco, sub forma di propensione dei valori evocati a coinvolgere nella loro dimensione ulteriori interessi, esigenze e istanze che ne impediscono una piena estrinsecazione; b) connotato tecnico di taluni settori della vita sociale, che richiede cognizioni adeguati e doti di equilibrio da parte di chi li deve gestire; c) esigenza di provvedere alle esigenze di tutela tempestivamente e con scarse formalità; d) natura diffusa degli interessi in gioco. Sono tutti elementi che ricorrono anche nel caso sul quale stiamo ragionando, e che dimostrano come potrebbe essere indubbiamente vantaggioso, nell’affrontare fenomeni di devianza diffusa, preferire un sistema di diritto sanzionatorio di tipo punitivo sul modello tedesco delle Ordnungswidrigkeiten, cioè più flessibile ed efficiente rispetto al diritto penale classico. Del resto, la recente esperienza della legislazione anticorruzione, introdotta con la cd. Legge Madia, che vede nel ruolo centrale dell’ANAC uno dei propri punti di forza, dimostra come sia possibile ottenere risultati positivi attraverso la creazione di un sistema equilibrato di hard law e soft law. Peraltro, a differenza di quanto accaduto con riferimento al tormentato settore dell’anticorruzione, una ipotetica disciplina di contrasto alle fake news non porrebbe il problema della moltiplicazione degli effetti punitivi che si è verificato con la costante implementazione della disciplina in materia di contrasto alla corruzione dell’ultimo decennio. Infine, diversamente da quanto accaduto nel settore dell’anticorruzione, non sarebbe neppure necessario creare una nuova Authority, essendo sufficiente ampliare le competenze e le prerogative dell’AGCOM, che già oggi è uno degli osservatori più attenti e autorevoli del fenomeno della disinformazione mediante la rete. Quanto poi al rischio di creare una Autorità pubblica della verità, credo che si possa facilmente evitare prevedendo adeguati rimedi giurisdizionali. A tal proposito, penso che sarebbe sufficiente consentire ex post all’utente che si veda rimosso un contenuto lecito di adire un procedimento giudiziario al quale attribuire carattere d’urgenza, chiedendo in quella sede il ripristino di quanto cancellato.
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