Se lo scopo del processo è quello di ricostruire un comportamento umano del passato, un fatto storico, per “misurarlo” con il metro del diritto penale, ovverosia attraverso criteri metodologici prefissati dal legislatore, lo stesso non può dirsi in riferimento a ciò che avviene nei canali di informazione. In una società nella quale fa sempre più breccia il vittimocentrismo, figlio di un diritto penale più “totale” che mai, la ricerca diviene inevitabilmente quella della vendetta, sfrontata ed assolutamente non lucida nel dare in pasto al popolo il colpevole.
La divulgazione del “contenuto” del processo oscilla tra due situazioni molto simili ma con dinamiche epistemologiche diametralmente opposte: la narrazione mediatica del processo, da una parte, e il processo mediatico, dall’altra. In riferimento alla prima situazione, non vi sono dubbi circa l’assoluta legittimità, tant’è che il diritto di cronaca – negli adeguati limiti, bilanciato con le esigenze proprie del processo penale di stampo accusatorio suddiviso in fasi [1] – è tutelato dalla nostra Carta fondamentale. Questo, infatti, permette di rendere noto alla collettività, nel cui nome è esercitata la funzione, l’operato di chi detiene il potere giurisdizionale [2]. Trattando la seconda situazione, invece, ci si rende conto di come risulti particolarmente incauto “trasportare” il processo al di fuori del suo ambito formale, a maggior ragione nelle sedi proprie dei mass media. Soprattutto negli ultimi tempi, non è cosa nuova vedere i salotti televisivi dei Talk Show riempirsi di giornalisti d’inchiesta [3], criminologi, ecc. per trattare gli argomenti di un qualsiasi processo “ad alta risonanza mediatica”[4], senza avere cognizione della completezza – e della complessità – delle carte, ma basandosi su congetture e, in particolare, sui pareri dei (soliti) “amici e conoscenti” delle parti direttamente interessate. Oppure, ancora, non è insolito imbattersi nella prima pagina di giornale con il titolone: “ecco la prova che incastra il colpevole”, una proposizione scellerata, spesso e volentieri propinata alla platea addirittura quando il processo è ancora nella fluida fase delle indagini preliminari.
Ma dov’è la pericolosità? La risposta, in realtà, segue delle direttive logiche. Se lo scopo del processo penale è quello di ricostruire un comportamento umano del passato, un fatto storico, per “misurarlo” con il metro del diritto penale, ovverosia attraverso criteri metodologici prefissati dal legislatore, lo stesso non può dirsi in riferimento a ciò che avviene nei canali di informazione. In una società nella quale fa sempre più breccia un “diritto penale della vittima”, figlio di un diritto penale più “totale” che mai [5], la ricerca diviene inevitabilmente quella della vendetta, sfrontata ed assolutamente non lucida nel dare in pasto al popolo il colpevole. Il rischio, oltre quello pericolosissimo di avere, agli occhi della moltitudine, un condannato prima ancora che inizi l’istruttoria dibattimentale, è di esercitare un’impropria pressione sul potere giurisdizionale. È forse il caso, per esempio, della vicenda processuale legata alla tragica scomparsa di Marco Vannini, alla quale si è di recente aggiunto un ulteriore capitolo. Subito dopo la lettura del dispositivo –al termine del recente appello bis, frutto di un tormentato iter processuale –, infatti, la madre ha dichiarato profondamente commossa: “Finalmente è stato dimostrato quello che era palese fin dall’inizio. Se fosse stato soccorso subito, Marco sarebbe qui. La giustizia esiste e per questo non dovete mai mollare. Voglio ringraziare i media. Grazie a voi che ci siete rimasti vicini in questi cinque anni”. A fronte di questo dato fattuale e al netto della giustezza della condanna, ci si può spingere a chiedersi quanto abbia pesato la pressione mediatica in questa storia [6]. Oppure, tornando agli esempi e in ordine al problema della cosiddetta “gogna mediatica”, ci si può soffermare sulla vicenda che ha interessato l’on. Nicola Cosentino. Già sottosegretario in un Governo della Repubblica, oltreché parlamentare di lungo corso, è stato poi arrestato con accuse gravissime. In vinculis cautelare per circa tre anni, è stato espulso dalla politica e dalla vita pubblica, e condannato in primo grado ad una pena molto severa. Recentemente, dieci anni dopo, assolto “per non aver commesso il fatto” (tra l’altro, trattasi la seconda assoluzione). In questo caso, attraverso un’oculata attività dei media, è stato messo in ginocchio – tanto sul piano della vita privata quanto su quello della vita pubblica – un cittadino solo perché prima indagato, e poi imputato in un processo penale, quindi soggetto appetibile su cui puntare i riflettori del “giudizio popolare”. In siffatta situazione è in gioco, oltre naturalmente alla vita e alla dignità delle persone, anche la stessa credibilità della giurisdizione nel nostro Paese [7]. Gli esempi sono davvero molteplici e tutti diversi tra loro – e soltanto per questioni di celerità ne sono stati menzionati due. Da questi, però, già si può osservare l’emersione di profili problematici connessi al fenomeno. L’ingerenza nociva dei mass media nel processo è oramai dirompente, incondizionatamente spinta dalla sete morbosa di giudizio da parte del cattivismo sociale. Potrebbe essere, allora, un primo passo verso l’inizio di una stagione a rotta invertita – soprattutto da parte della stessa Magistratura – quello di valorizzare un istituto posto a tutela dell’integrità del processo penale da fattori di contaminazione “esterna”, ovverosia la rimessione del processo di cui all’art. 45 c.p.p.? La speranza è quella che venga presto definita una risposta.
[1] Il c.d. segreto investigativo tutelato dall’art. 329 c.p.p. e il relativo divieto di pubblicazione di tali atti art. 114 comma 1, c.p.p.
[2] “Il resoconto dello svolgimento del procedimento penale: una narrazione democraticamente importante […] perché consente al popolo di “vedere” come viene amministrata la giustizia in suo nome (art. 101 comma 1 Cost.) Un controllo sociale inteso non certo ad approvare o a contestare la singola decisione, bensì a verificare se la collettività si riconosce nelle vigenti regole della iurisdictio o se ritiene necessario darsene eventualmente di diverse, qualora il metodo, le controindicazioni o i risultati non corrispondessero più alla sua mutata sensibilità”, GIOSTRA, Prima lezione sulla giustizia penale, Roma, 2020, pp. 161-162.
[3] Ribattezzati dalla Corte di Strasburgo come cani da guardia della democrazia, si sono ormai “trasformati in cani da salotto delle Procure, in attesa di un boccone informativo”. GIOSTRA, Prima lezione sulla giustizia penale, p. 174.
[4] Spesso e volentieri, quelli aventi ad oggetto i crimini più efferati, a testimonianza dell’evolversi – nel tessuto sociale – di una inquietante progressione verso il gusto dell’orrido.
[5] Celebre accezione coniata dal compianto Prof. Sgubbi nel suo saggio, Il diritto penale totale, Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Bologna,2019.
[6] DI PRIMO, Omicidio Marco Vannini: i 14 anni a Ciontoli sono vittoria della rabbia mediatica, in rivista Il Riformista 1/10/2020.
[7] CAIAZZA, Chi ripaga Cosentino di quasi dieci anni di gogna?, in rivista Il Riformista, 4/10/2020.
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