Pubblichiamo una riflessione dell’avvocato Francesco Maisano* sull’art. 23 del Decreto Legge n.149/2020 e sui pericoli del processo da remoto. Se si comprimono l’oralità e l’immediatezza, il processo penale diviene un mero esercizio cartolare, risultando del tutto snaturato e privo delle sue caratteristiche strutturali fondamentali.
L’art. 23 del Decreto Legge n.149/2020 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.279 del 9 novembre 2020) introduce una serie di misure per il giudizio d’appello similarmente a quanto il precedente Decreto Legge 137/2020 ha approntato per quello celebrato presso la suprema Corte di Cassazione; comune il denominatore individuato nell’esigenza di limitare la partecipazione fisica (meglio: l’accesso) delle parti e dello stesso giudice nell’aula d’udienza, privilegiando la trattazione meramente cartolare del processo. In assenza di una esplicitata, opposta, volontà delle parti processuali, si procederà con le forme del giudizio camerale (in camera di consiglio) previo scambio di atti per via telematica (sicuramente la requisitoria del Pubblico Ministero ed eventualmente le memorie di replica della difesa e delle altre parti costituite) che i giudici del gravame analizzeranno “delocalizzandosi” (quasi un neologismo da app di navigazione per disegnare sulla mappa i luoghi anche privati ove, distanti l’uno dall’altro ma legati da un collegamento telematico, decideranno la sorte del processo). La “delocalizzazione” della camera di consiglio è sicuramente l’aspetto che più induce alla riflessione dell’interprete. Il legislatore dell’emergenza pandemica sancisce che “si intende come camera di consiglio il luogo da cui si collegano i magistrati”.
Immaginiamolo, or dunque, questo processo d’appello (che è ultimo – definitivo! – grado di merito) deprivato della presenza fisica delle parti e del giudice; amputato radicalmente della forza del parlato; stravagante tra un flusso e l’altro di immagini in movimento che, a volte, si inceppano proprio mentre uno dei decidenti sta sviluppando il ragionamento chiave da condividere con gli altri partecipi e vedendolo così, definitivamente, finire sottratto al contestuale e diretto esame comune. L’assenza fisica dei soggetti processuali in questa aula di udienza virtuale priverà – checché se ne dica! – la riflessione del decidente di quella tensione tipica dell’incontro dal vivo; un incontro fatto di immanenza emotiva, sguardi, considerazioni, stimoli. Scompare la parola che dà forza alla tesi e scompare anche la contestuale presenza, nel medesimo luogo, di coloro che sono chiamati a riceverla e poi vagliarla nella compartecipata analisi finale che precede la decisione. Nonostante la buona volontà dei partecipanti al rito telematico, questo simulacro di condivisione, riflessiva prima e decisionale dopo, nasce già ingannatorio perché non può mantenere le buone intenzioni ostacolate dalla forza dirompente di un distanziamento cognitivo che tutto destina a frazionarsi, a perdersi, proprio come una parola, quella – l’unica! – giusta, persa in una raffica di vento.
*Francesco Maisano è avvocato penalista e Vice Presidente della Camera Penale Franco Bricola di Bologna.
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