Come noto, la condanna in primo grado ad un anno e sei mesi di reclusione irrogata nei confronti di Chiara Appendino per i fatti di piazza San Carlo ha destato non poco clamore mediatico. La sindaca di Torino, che ha reso nota alla stampa l’intenzione di impugnare il provvedimento, è stata riconosciuta colpevole in primo grado di disastro, omicidio e lesioni colpose per i disordini verificatisi il 3 giugno 2017 durante la finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid, partita proiettata sul maxischermo nella piazza del capoluogo piemontese. In quella sede, alcuni presunti rapinatori – i quali agirono mediante l’utilizzo di spray urticanti – furono scambiati per terroristi dalla folla, seminando così il panico e causando il ferimento di oltre 1.600 persone e il decesso di due donne.
Al netto dell’angolo visuale dal quale si vuole inquadrare la vicenda in commento, pare necessaria una riflessione giuridica sulla concreta possibilità di prevedere ed evitare l’evento da parte del Sindaco, onde scongiurare che il fenomeno di vittimizzazione di massa che si genera di fronte alla drammaticità di taluni eventi ceda il passo ad una (comoda) responsabilità oggettiva e di posizione [1]. Ed infatti, la frenetica ricerca di un colpevole cui attribuire le responsabilità di un evento lesivo – frenesia alimentata, spesso, dalla volontà di appagare l’istinto populista che ormai abita la nostra società – finisce talvolta per proiettarsi interamente sulla funzione svolta dall’imputato di turno, restituendoci una colpevolezza ed una causalità dimidiate [2]. Una notazione preliminare, tuttavia, pare necessaria; ed infatti, la riflessione deve essere necessariamente condotta ad ampio raggio, mediante l’ausilio delle scarse informazioni processuali in nostro possesso, restando in attesa di leggere le motivazioni della sentenza. Anzitutto, come diffusamente sancito dalla giurisprudenza di legittimità, la giuridicità dell’obbligo di impedimento dell’evento posta in capo al Sindaco viene individuata nell’art. 50 del Testo unico degli Enti Locali, norma che definisce il primo cittadino come organo responsabile dell’amministrazione del comune. La disposizione in commento, però, deve essere necessariamente letta in relazione all’art. 107 del medesimo Testo Unico, che, invece, attribuisce le funzioni e le responsabilità ai dirigenti. Dal combinato disposto, come osservato in dottrina, discenderebbe una distinzione tra poteri di indirizzo politico e poteri di concreta gestione tecnica attribuiti all’apparato dirigenziale. Infatti, la diversità riconosciuta dalle norme testé menzionate tra funzioni politiche ed amministrative – ambito, quest’ultimo, caratterizzato da un alto grado di tecnicità e specializzazione [3] – “sembrerebbe proporsi l’obiettivo di spogliare il sindaco di ruoli, compiti e funzioni che non dovrebbero riguardare la sua caratterizzazione politica” [4]. Ciononostante, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di statuire in plurime occasioni che la predetta distinzione di funzioni non esclude il dovere di attivazione del sindaco laddove gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico operative, che pongano in pericolo l’incolumità o la vita dei cittadini [5].
Stando alla lettura offerta dalla Suprema Corte, dunque, a prescindere dal grado di tecnicità richiesta dalla specifica attività autorizzata (in relazione alla quale il primo cittadino potrebbe ignorare financo i principi e le cautele basilari), non è escluso che costui debba svolgere un ruolo di controllo teso a scongiurare ed evitare i possibili rischi derivanti dallo svolgimento delle predette attività. Va premesso che, come noto, la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del gestore del rischio, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione di una regola cautelare, sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire. Non v’è chi non veda, allora, come l’attività di controllo e previsione di cui si andava dicendo si riveli, in concreto, impossibile: come potrebbe un sindaco prevedere ed evitare i rischi connessi, ad esempio, al possibile smottamento di un tratto stradale? Ed ancora, come potrebbe prevedere dalla sua comoda scrivania che, al netto del divieto (imposto con ordinanza) di introdurre vetro in piazza, vi potrebbero essere, come accaduto, ambulanti dediti alla vendita di centinaia (o forse migliaia) di bibite in vetro? Come potrebbe il sindaco conoscere, e quindi predisporre, il numero adeguato di uscite di sicurezza calcolate scientificamente sulla base del numero di persone presenti durante un evento di piazza? Seguendo questa logica, dunque, il sindaco – nella sua qualità di vertice della macchina politica ed amministrativa – sarebbe chiamato a proteggere la comunità da qualsiasi insidia o rischio gravante in capo ai cittadini, financo dai reati commessi da taluni di essi a danno di altri [6]. Ed allora sorge spontaneo un ulteriore interrogativo: come potrebbe il sindaco prevedere ed evitare, come avvenuto nel caso di specie, l’azione delittuosa di alcuni rapinatori, generatrice di panico tra la folla? Imprevedibile, verrebbe da dire, quantomeno alla luce delle (in)competenze tecniche di cui il sindaco è dotato; salvo prestare il fianco – e lo segnalammo tempo fa in tema di abuso d’ufficio – al fenomeno della cd. amministrazione difensiva, dove l’eccesso di cautela finisce per ingolfare la già provata macchina amministrativa. Non sorprende, allora, che per i fatti di Piazza San Carlo l’evitabilità dell’evento sia stata individuata dal Giudice di prime cure – come si apprende da notizie di stampa – nella possibilità di annullare la proiezione della partita in piazza. Si badi, gli interrogativi che precedono, lungi dal costituire verità provata, vogliono fungere meramente da stimolo ad una riflessione collettiva sul riparto di compiti e funzioni tra soggetti politici e tecnici; distinzione che, ad oggi, pare connotata da limiti – almeno sul piano penalistico – quantomai evanescenti.
Ed infatti, appare evidente come la posizione di garanzia gravante in capo al sindaco in relazione agli eventi lesivi della incolumità o della vita dei consociati, finirebbe con l’instaurare una sorta di dominio della politica sull’amministrazione [7], con buona pace del riparto di funzioni di cui sopra. Se è vero che la precipua finalità della divisione di competenze politiche e tecniche risponde proprio all’esigenza di evitare ingerenze tra le parti, sarebbe del tutto illogico pretendere una concreta ingerenza – o meglio, una commistione – quando si tratta di individuare il cd. gestore del rischio. La disposizione di cui all’art. 50 TUEL, infatti, nell’attribuire al sindaco la “responsabilità” dell’amministrazione del comune, parrebbe riferirsi non tanto al dovere di vigilanza sui singoli atti dell’apparato dirigenziale – caratterizzati, come detto, da un grado di tecnicità difficilmente comprensibile da chi non è “del mestiere” –, quanto più alla gestione complessiva degli uffici, relativamente agli obiettivi programmatici prefissati. Un dovere, questo, che difficilmente sarebbe idoneo a fondare un addebito penale per omesso impedimento dell’evento. In definitiva, seguendo la soluzione prospettata dal prevalente indirizzo giurisprudenziale – sposato, parrebbe, anche dal Giudice di prime cure –, al sindaco verrebbero attribuite funzioni quasi “taumaturgiche”, elevandolo ad organo onnisciente ed onnipresente nella vita della collettività [8]. Il rischio di un’estensione indiscriminata delle posizioni di garanzia, tuttavia, è destinato inevitabilmente a ricadere sul giudizio di colpevolezza – così come interpretato dal 1988 [9]–, nonché sulla verifica circa l’effettivo contributo causale di ciascun “garante”. E sul punto, v’è un indice sintomatico. Appare evidente, infatti, la discrasia tra le richieste di pena (per vero, molto eterogenee) formulate dal Pubblico Ministero e quelle irrogate, invece, in sentenza. Il Giudice di prime cure ha inflitto a tutti gli imputati la medesima condanna, pari ad anni uno e mesi sei di reclusione, a dispetto della dosimetria imposta dall’art. 133 c.p. Come a dire: nel dubbio sul cd. grado della colpa e sull’effettivo apporto causale di ciascuno dei coimputati, si condanna senza distinzione alcuna. Ecco, dunque, come il rischio di parzialità del giudizio di colpevolezza (di cui si andava dicendo) si manifesta in concreto. Infine, una notazione conclusiva: la condanna inflitta a Chiara Appendino pare sia riuscita addirittura a convertire in strenui garantisti alcuni giornalisti ed esponenti di movimenti politici che del becero populismo penale ne hanno fatto ragione di vita. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire; se non fosse che il garantismo “di parte” è fors’anche peggio del populismo penale indiscriminato.
[1] BRIZI L., la responsabilità penale del sindaco di un ente locale per omesso impedimento dell’evento morte tra “cortocircuiti” normativi ed ossimori valutativi, in Giurisprudenza Penale, 2016.
[2] DONINI M., La causalità omissiva e l’imputazione “per l’aumento del rischio”. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 1999, p. 65.
[3] A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, Napoli, Jovene, 2002, p. 75 ss.
[4] BRIZI L., la responsabilità penale del sindaco di un ente locale per omesso impedimento dell’evento morte tra “cortocircuiti” normativi ed ossimori valutativi, in Giurisprudenza Penale, 2016.
[5] Cass. Pen., Sez. IV, 12 gennaio 2016, n. 20050.
[6] G. MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, p. 92
[7] S. CASSESE, il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giorn. Dir. Amm., 2002, 1341.
[8] BRIZI L., la responsabilità penale del sindaco di un ente locale per omesso impedimento dell’evento morte tra “cortocircuiti” normativi ed ossimori valutativi, in Giurisprudenza Penale, 2016.
[9] Corte Cost., sent. 364/1988
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