Di recente è tornato sotto i riflettori il caso del marciatore altoatesino Alex Schwazer, uno dei pochi talenti che l’atletica italiana è riuscita ad esibire negli ultimi anni. È ormai nota, o quasi, la sua via crucis sportiva e giudiziaria. Dopo una prima parte di carriera promettente – culminata con la vittoria nella 50 km alle Olimpiadi del 2008 a Pechino –, Alex cade vittima delle forti aspettative della FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera) e dell’opinione pubblica: si allena male, perde la giusta motivazione e si ritira dalla 50 km dei mondiali d’atletica del 2009, a Berlino. I risultati continuano ad essere deludenti, e comincia così la strada del doping con l’eritropoietina. Una strada breve, perché poco dopo, su suggerimento di Sandro Donati, la WADA (Agenzia Mondiale Antidoping) lo sottopone ad un controllo antidoping che, fatalmente, risulterà positivo. La positività verrà annunciata il 6 agosto 2012. Schwazer crolla, subito confessa: il suo è un sollievo. Non basterà questo, ovviamente, ad evitargli il tritacarne mediatico interno ed esterno all’ordinamento sportivo. I giornali, le autorità federali e i suoi compagni di nazionale infieriranno su di lui: è il gioco ipocrita della gogna mediatica, di chi si scaglia contro il male per ribadire la propria purezza. Una purezza che, però, soprattutto nell’ambiente sportivo, spesso ha dimostrato d’oscillare: tanto da parte delle istituzioni federali nazionali ed internazionali, che non di rado hanno favorito l’utilizzo del doping, collaborando anche con medici all’avanguardia nello sviluppo di sostanze e pratiche dopanti (si pensi ai rapporti fra il dott. Conconi e il CONI negli anni ‘80, denunciati dallo stesso Donati [1]), quanto dai suoi compagni azzurri, solo qualche anno dopo in gran parte deferiti al Tribunale Nazionale Antidoping per il c.d. caso “whereabouts”, relativo alla violazione di regole sulla reperibilità ai controlli antidoping [2]. Ma torniamo a Schwazer. Nel momento più difficile della sua carriera, squalificato dalla giustizia sportiva e abbandonato dagli sponsor (celebre la sua collaborazione con la Ferrero), dopo aver patteggiato una pena di 8 mesi e 6.000 euro di multa con il Tribunale di Bolzano per il reato di doping, compie una scelta inaspettata. Si affida allo stesso Sandro Donati: colui che non soltanto aveva incoraggiato il controllo incriminante ma, in qualità di tecnico federale e consulente della WADA, era ben conosciuto nella sua battaglia contro il doping (soprattutto per aver contrastato le istituzioni sportive che mascheravano o favorivano tale pratica). Un personaggio scomodo per i dirigenti sportivi internazionali e nazionali. Così, Donati fa di Schwazer una sorta di esperimento: lo fa trasferire a Roma, in un piccolo hotel a pochi passi dalla sua abitazione; lo sottopone a controlli antidoping sistematici e frequenti, che lo stesso Schwazer finanzia di tasca propria; infine, elimina l’uso di tutti quei farmaci e di quelle pratiche che si collocano nella cosiddetta “zona grigia” dello sport (tra gli altri, gli antiasmatici per dilatare i bronchi, che l’atleta utilizzava su consiglio dei medici federali sebbene non soffrisse d’asma; o anche la camera ipobarica notturna, per accelerare il recupero muscolare). I risultati sono sbalorditivi: Schwazer, sereno e ben allenato, sfreccia per le strade della capitale in attesa del ritorno alle gare. Il rientro avviene in grande stile, dominando il mondiale a squadre tenutosi proprio a Roma, ma il grande obiettivo resta l’Olimpiade. Un sogno infranto, perché Alex risulta nuovamente positivo.
Questa volta però si dichiara innocente, e in effetti le stranezze sono tante. Sebbene il prelievo incriminato risalisse alla notte di capodanno, la positività viene comunicata solo a giugno, a ridosso delle Olimpiadi, senza che ci siano né il tempo né i mezzi necessari per preparare una difesa sufficiente di fronte alle autorità della giustizia sportiva. Inoltre, la sostanza rilevata è il testosterone: quali benefici può trarre un atleta di resistenza da un farmaco che agisce sulla forza e sul volume muscolare? Numerose altre zone d’ombra sono state rilevate anche dal GIP bolzanino nella sentenza d’archiviazione: la mancanza di anonimato (“scrivere Racines, il paese di Alex, nella provetta equivale a scrivere Alex Schwazer”), la catena di custodia non impeccabile (le urine di Schwazer sono rimaste per più di 15 ore in un magazzino a Stoccarda prima di essere inviate nel laboratorio di Colonia), le provette non sigillate [3]. Nonostante queste ed altre perplessità, Schwazer cade nuovamente nel mirino dell’opinione pubblica: per i giornali, senza replica né attesa che la giustizia faccia il proprio corso, è un dopato recidivo. E di nuovo l’attacco delle autorità federali e dei compagni di squadra, da cui si sottraggono soltanto alcune eccezioni. L’implacabilità, però, non è soltanto dei media. La giustizia sportiva gli infligge 8 anni di squalifica, che di fatto equivalgono ad un fine carriera. La giustizia dello Stato (in particolare quella del Tribunale di Bolzano), invece, si dimostra meno frettolosa: dopo aver chiesto più volte ed invano la provetta incriminata, per poterla nuovamente analizzare, il GIP bolzanino Walter Pelino invia in Germania (a Colonia, dove ha sede uno dei laboratori della WADA) un perito d’eccezione, il colonnello Giampietro Lago, comandante dei RIS di Parma. Gli viene inizialmente (e quasi grottescamente) consegnata una fiala di plastica, palesemente fasulla [4]; solo dopo numerose insistenze riesce ad ottenere la provetta originale. L’analisi di quest’ultima riscontra una concentrazione di DNA fra le 20 e le 50 volte superiore alla media, indice di una probabile manomissione dolosa. Il GIP, tenuto conto degli esiti della perizia, dispone l’archiviazione del procedimento penale con formula assolutoria piena: Schwazer non ha commesso il fatto. Il giudice avanza anche ipotesi di reato molto gravi nei confronti della WADA e della Federazione Internazionale d’Atletica, quali “falso processuale e ideologico” [5]. Nel frattempo però sono trascorsi quattro anni, e nessuno potrà restituire al marciatore l’ultima parte della sua carriera che, tra l’altro, nelle mani sapienti di Donati, avrebbe potuto essere davvero esaltante. In più, Alex è ancora colpevole per la giustizia sportiva, e probabilmente ricorrerà al TAS (massima istituzione della giustizia sportiva internazionale) allegando le risultanze del Tribunale di Bolzano per cercare di far annullare la squalifica. Il sogno è quello di Tokyo 2021.
La vicenda Schwazer è emblematica di alcune delle questioni che affliggono l’ordinamento sportivo e i suoi rapporti con quello statale. Innanzitutto, del vincolo di giustizia sportiva, ovverosia quell’insieme di clausole regolamentari e statutarie che impongono all’atleta-tesserato di ricorrere a quest’ultima anziché all’ordinamento giudiziario statale; questo vale in particolare per le controversie tecniche e disciplinari, la cui competenza esclusiva è attribuita dalla legge n. 280/2003 all’ordinamento sportivo. Insomma, un atleta che dovesse rimanere vittima di un provvedimento disciplinare potenzialmente molto impattante, anche e soprattutto sul suo diritto al lavoro, non avrebbe la possibilità di impugnarlo davanti ad un giudice statale, prospettandosi un probabile contrasto con numerosi articoli della nostra Costituzione (in primis, con l’art. 24). Bisogna sottolineare che recentemente la Corte costituzionale (sent. n. 49/2011) ha aperto alla possibilità di ricorrere al giudice amministrativo al fine di ottenere un risarcimento per equivalente. Questo fa sì che un giudice dello Stato, seppur incidentalmente e senza la possibilità di invalidare gli atti delle federazioni, abbia la possibilità di trattare nel merito la vicenda. Un’altra questione è quella della terzietà degli organi federali. Com’è possibile garantire la terzietà e l’indipendenza degli organi che effettuano i controlli antidoping e di quelli adibiti a risolvere le controversie, se questi ultimi dipendono dal CONI e dalle federazioni stesse? E’ evidente il deficit nella divisione dei poteri, sebbene nel tempo i tentativi d’intervento non siano mancati né a livello internazionale né nazionale. Numerose, infatti, sono state le riforme per rendere maggiore la distanza fra WADA e CIO (Comitato Internazionale Olimpico), TAS e federazioni internazionali e, a livello interno, per garantire l’indipendenza della NADO Italia (organizzazione nazionale antidoping) e degli organi giustiziali federali. Tuttavia, la situazione attuale non garantisce ancora la piena tutela agli atleti, e per questo le domande non possono concludersi qui. Come evitare che si ripeta un “caso Schwazer”? Come impedire una nuova manomissione delle provette? Una soluzione ragionevole è stata avanzata dal GIP di Bolzano: consegnare un secondo campione del prelievo effettuato ad un laboratorio terzo e del tutto estraneo dal circuito WADA, possibilmente ubicato nello Stato di appartenenza dell’atleta. Ed infine, è davvero necessario un reato di doping? La legge n. 376/2000 punisce l’utilizzo, il procacciamento, la somministrazione di sostanze, farmaci e pratiche vietate e non giustificate da condizioni patologiche, idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’atleta e al fine di alterare i risultati di competizioni agonistiche o quelli dei controlli sull’uso di tali sostanze, farmaci o pratiche. Si tratta sicuramente di una legge rispettosa dei canoni di determinatezza e tassatività; tuttavia, maggiori perplessità sorgono in merito al bene giuridico che tale normativa dovrebbe proteggere: probabilmente la salute degli atleti, o forse la lealtà e la correttezza delle competizioni. Sono questi i beni (o, nel caso della salute, le modalità) la cui protezione legittima il ricorso alla massima sanzione dello Stato? Quesiti, quelli finora suggeriti, che ci conducono di fronte al grande paradosso del caso Schwazer: la necessità di essere processati da un tribunale penale per poter vedere pienamente tutelati i propri diritti di uomo e di sportivo.
[1] L’Ultimo Uomo, Gianluca Ciucci, 7 dicembre 2016
[2] L’Ultimo Uomo, Gianluca Ciucci, 28 aprile 2016
[3],[4], [5] Sky Sport, Lia Capizzi, 18 febbraio 2021; anche La Stampa, Alberto Abburrà, 18 febbraio 2021
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