Con sentenza del 02.03.2021 (C-746/18), la Grande Camera della Corte di Giustizia UE si è nuovamente espressa sull’utilizzo dei tabulati telefonici ed informatici come strumento d’indagine, circoscrivendone i presupposti di acquisizione e vietandone la conservazione generalizzata. Ne deriva un insanabile contrasto con la disciplina interna, la cui inidoneità ad assicurare il rispetto degli standard di protezione elaborati dalla Corte di Giustizia è nota da tempo. L’intera pronuncia muove da un presupposto di fondo: l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche comporta una grave ingerenza nei diritti fondamentali dell’individuo; ragion per cui, l’utilizzo dei suddetti ai fini di un’istruttoria penale può ammettersi solo se circoscritto entro rigorosi limiti ed assisto da efficaci garanzie. Difatti, la consultazione dei tabulati – diversamente dal contiguo strumento delle intercettazioni – consente l’acquisizione, ex post, di tutti i dati esteriori delle comunicazioni effettuate dall’utente, permettendo di trarre precise conclusioni sulla sua vita privata nonché sulla sua ubicazione [1]. Si tratta, pertanto, di un mezzo di ricerca della prova dalla notevole capacità intrusiva, che gli Stati membri sono chiamati a circoscrivere alle sole procedure aventi per scopo “la lotta contro le forme gravi di criminalità”, ovvero la prevenzione delle “gravi minacce alla sicurezza pubblica”, pena il contrasto con il diritto sovranazionale. La materia trova disciplina nella direttiva 2002/58 (relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata) che, all’art. 15, indica i presupposti in presenza dei quali gli Stati membri hanno facoltà di derogare ad obblighi e prescrizioni posti a garanzia della riservatezza dei dati [2]. Tuttavia, l’ampia discrezionalità concessa ai legislatori nazionali ha dato luogo ad un utilizzo generalizzato dei tabulati, quale strumento investigativo di cui la pubblica accusa è solita avvalersi per qualsiasi tipologia di reato.

Risultano indispensabili, pertanto, i ripetuti interventi della Corte di Giustizia [3], al fine di circoscrivere, entro regole chiare e precise, le ipotesi in cui può consentirsi ad autorità pubbliche di invadere la privacy dell’individuo. In tal senso, con la pronuncia 02.03.2021, si è anzitutto ribadito che l’eventuale deroga – di cui al summenzionato art. 15 – dev’essere letta alla luce dei diritti e delle libertà garantite dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea [4]. Muovendo da tale premessa, l’indicazione della Corte è chiara: gli Stati membri non possono consentire l’acquisizione e la conservazione generalizzata dei tabulati di traffico, invocando il generale obiettivo dell’accertamento dei reati, senza che vi sia, peraltro, la previa autorizzazione di un’autorità terza. Pertanto, sebbene la Grande Camera si fosse già espressa in passato – seppur con minor rigore – sui presupposti di accesso, assume particolare rilievo quanto statuito sul contrasto, rispetto al diritto UE, della normativa nazionale – nel caso di specie, quella estone – che non prescriva l’adozione di un provvedimento autorizzativo del giudice, ovvero di un’autorità amministrativa indipendente, per l’acquisizione dei tabulati. Difatti, per via dell’ingerenza che comporta, l’accesso ai suddetti dati di traffico dev’essere preceduto da un rigoroso controllo, in cui si valuti l’opportunità della misura alla luce delle circostanze del caso di specie. E, perché possa dirsi obiettivo ed imparziale, il controllo preventivo dev’essere effettuato da un’autorità terza e neutrale rispetto ai contrapposti interessi in gioco. Requisiti di cui è evidentemente privo il nostro pubblico ministero, che, nonostante l’ordinamento nomini competente ad autorizzare l’accesso ai tabulati di traffico, è parte del procedimento penale, nonché soggetto preposto alla conduzione delle indagini nei confronti dell’individuo dei cui dati si richiede l’acquisizione. La pronuncia, quindi, mette nuovamente in luce l’inadeguatezza della disciplina interna – per molti versi analoga a quella estone – rispetto ai principi e agli standard di protezione elaborati dalla Corte di Giustizia UE.

Particolarmente controversi, se non lesivi delle garanzie del singolo, appaiono due profili: l’omessa individuazione dei “gravi” reati-presupposto, nonché la legittimazione esclusiva del PM ad acquisire i dati. Difatti, l’art. 132, comma 3, del D.Lgs. n. 196/2003 (cd. Codice della Privacy), prevede che i tabulati siano conservati dal fornitore in vista del generico obiettivo dell’accertamento e della repressione dei reati e che, per la medesima finalità, essi siano acquisiti mediante decreto motivato del pubblico ministero;  nessuna ulteriore specificazione, né tantomeno la definizione dei presupposti oggettivi atti a giustificarne la consultazione. Quanto al monopolio dell’organo inquirente, i dubbi sull’omessa previsione di un provvedimento autorizzativo del giudice per l’acquisizione dei tabulati telefonici sono tutt’altro che recenti [5]. Ciononostante, la giurisprudenza – sia costituzionale, che di legittimità – si è sempre espressa a favore della compatibilità della norma con il diritto europeo, escludendo che l’accesso ai tabulati debba essere assistito dalle medesime garanzie predisposte per il contiguo strumento delle intercettazioni. Ciò, a fronte di quella che dovrebbe essere (ma che di certo non è) una minor ingerenza nella sfera privata dell’individuo rispetto all’intercettazione del contenuto della comunicazione. Del tutto inconsistente pare, poi, la diversa argomentazione della Corte di Cassazione che fa leva sulla traduzione italiana delle precedenti pronunce sovranazionali sul punto, affermando che il riferimento al “giudice” possa essere esteso sino al concetto di autorità giudiziaria, il quale, per l’appunto, ricomprende anche il pubblico ministero [6]. In definitiva, simili posizioni non fanno che rendere ancor più manifesta la volontà di legittimare, ad ogni costo, una disciplina incapace di assicurare il doveroso bilanciamento tra tutela delle libertà fondamentali ed istanze di prevenzione e repressione dei reati. Che sia forse l’ora di una questione di costituzionalità? [7]


[1] Ai sensi dell’art. 2 della direttiva 2002/58/CE, con “dati relativi al traffico” s’intende “qualsiasi dato sottoposto a trattamento ai fini della trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica o della relativa fatturazione”. In altri termini, si tratta di “metadati”, ossia informazioni di dettaglio sul numero del chiamante e del ricevente, nonché di indicazioni sull’ora, la data e la durata della conversazione; analogamente, è oggetto di registrazione ogni dettaglio della navigazione in internet e del traffico email. Quanto ai “dati relativi all’ubicazione”, il riferimento è ad ogni dato che indichi la posizione geografica dell’apparecchiatura terminale dell’utente di un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico.
[2] Ossia, qualora la deroga costituisca: “una misura necessaria, opportuna, e proporzionata all’interno di una società democratica, per la salvaguardia della sicurezza nazionale, della difesa, della sicurezza pubblica”; ovvero si renda necessaria nella “prevenzione ricerca, accertamento e perseguimento dei reati”.
[3] L’interpretazione della direttiva di cui sopra, è stata oggetto di due rilevanti pronunce della Corte di Giustizia (Cort. Giust. UE, Grande Camera, 21.12.2016; Cort. Giust. UE., Grande Camera, 06.10.2020).
[4] Nello specifico, il riferimento è agli artt. 7 (tutela della riservatezza), 8 (protezione dei dati di carattere personale), e 11 (libertà di espressione e d’informazione), nonché all’art. 52 (principio di proporzionalità delle limitazioni ai diritti e alle libertà) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. 
[5] Nello specifico, la Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi sulla legittimità dell’art. 267 c.p.p., aveva dichiarato inammissibile la questione, ritenendo sufficiente l’adozione di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria e, dunque, anche del pubblico ministero (Corte cost., 07.07.1998, n. 281). 
[6] Cass. Pen., Sez. V, 19.07.18, n. 33851
[7] Come rilevato da autorevole dottrina, se il silenzio del legislatore dovesse protrarsi oltre, la via più agevole potrebbe essere quella di sollevare questione di legittimità in relazione all’art 117 Cost. “che vincola la potestà legislativa dello Stato al rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, in questi termini L. FILIPPI, La disciplina italiana dei tabulati telefonici e telematici contrasta con il diritto U.E., in Diritto di difesa, 20.03.2021