I più recenti dibattiti, i moti pubblici di critiche e indignazione, per meglio dire, scatenatisi attorno ad alcuni processi per femminicidio portano a una considerazione: nel secolo del digitale e dell’intelligenza artificiale, processi per crimini orrendi scatenano reazioni poco controllate e una fame di pena perpetua che dissimula a stento la voglia di estremo supplizio. La previsione per il futuro, se l’approccio culturale alla giustizia penale non cambierà, è quella di uno scenario a tinte fosche. Uno scenario distopico, frutto, per ora di un’iperbole dell’autore, ma meno lontano dalla realtà di quanto potrebbe sembrare. Una realtà spaventosa, distinta e distante dalla riflessione di un classico da leggere e rileggere per ritrovare, in questa fase così complessa, le coordinate dello Stato di diritto: Francesco Carrara.
Nel secolo del digitale e dell’intelligenza artificiale, processi per crimini orrendi scatenano reazioni poco controllate e una fame di pena perpetua che dissimula a stento la voglia di estremo supplizio. Ne fanno le spese gli avvocati degli imputati, colpevoli del reato di difesa: un delitto de iure condendo, che un fosco pacchetto sicurezza ‒ col voto unanime del Parlamento ‒ renderà universale e punibile retroattivamente fino al 1861. A ruota, seguirà l’incriminazione per omesso ergastolo dei magistrati che oseranno concedere attenuanti, escludere aggravanti o riconoscere vizi di mente. La competenza a giudicare sarà attribuita all’istituendo Tribunale Social Nazionale, composto e presieduto da parenti delle vittime. L’ufficio di Pubblico Ministero sarà ricoperto, a giorni alterni, da un giornalista specializzato in verità o fatti quotidiani. I testimoni, selezionati tra chi li ha visti. UCPI, permanentemente citata come responsabile civile. La rivista Diritto di difesa muterà nome in Delitto di difesa e il suo direttore ‒ per contrappasso ‒ sarà patrono di parte civile. Unica impugnazione ammessa, la supplica a Quarto grado. Un sottosegretario, facendo prima un lungo respiro, commenterà: «Provo un’intima gioia, davanti a questa Extrema ratio». Eppure, quasi 150 anni fa un professore di Lucca ‒ il criminalista più grande che sia esistito dalle nostre parti ‒ spiegava al “popolo che riflette” perché l’eventuale applicabilità delle attenuanti abbia senso proprio per i delitti atroci. Un insegnamento vivo, pensando che, nel frattempo, a sostanziale parità di omicidi sono aumentati esponenzialmente i “fine pena mai”: nel primo ventennio del secolo, come sottolineato da Alessandro Barbano sulle pagine de Il Dubbio, gli ergastoli inflitti per anno sono stati più di 138, ossia venticinque volte quelli irrogati nel ventennio 1955/1974.
«Che nei delitti atroci non siano ammissibili le circostanze attenuanti: questa proposizione udii cadere dal labbro di un pubblico ministero, quando egli cercava di distogliere i giurati da ogni movimento di pietà verso il colpevole di un omicidio premeditato commesso con un colpo di coltello. Con un fino artifizio oratorio, declinando ogni discussione sulle circostanze attenuanti, delle quali forse non era penuria in quel caso, egli adagiò la sua tesi di rigore su cotesta generalità da lui asserita come un dettato apodittico di giustizia. Se i giurati allorché unanimi respinsero le circostanze attenuanti si lasciarono sedurre da cotesto postulato giuridico, io dico che errarono in fatto per conseguenza di un errore di diritto. In massima nessuno può controvertere questa grande verità, compenetrata nel sommo principio della giustizia distributiva in materia penale, che nel misurare la imputazione debba aversi riguardo ad ogni più piccola circostanza per la quale si modifichi il delitto così nella sua forza oggettiva come nella sua forza soggettiva (lo che noi chiamiamo quantità e grado del delitto) e che nel tempo stesso debba modificarsi la pena per virtù di certe circostanze estrinseche al delitto, ma inerenti allo individuo al quale vuole applicarsi la pena, e per certe specialità per le quali la medesima applicata nel suo rigore riuscirebbe contraria o al pubblico bene, o alla coscienza universale; lo che noi chiamiamo diminuenti la pena. Questo non può in punto astratto controvertersi senza immolare impudentemente la giustizia ad uno stoicismo crudele.
Ciò che da noi si volle criticare è unicamente lo indefinito nel quale le leggi di Francia, ed i Codici che le imitarono, lasciano le circostanze attenuanti. Indefinito terribile per cui si converte spesso in una operazione del cuore quella che dovrebbe essere opera della ragione; e si ammettono o si negano le attenuanti sulla guida di un sentimento o di pietà o di ribrezzo che seppe nell’animo dei giurati eccitare la rettorica del difensore, o quella del pubblico ministero. Sente ognuno come per siffatto sistema la giustizia abbandonisi alla balìa di un’onda infida e variabile, e debbano vedersi come pur troppo si veggono in pratica delle oscillazioni di pietà e di rigore, le quali affievoliscono nel popolo che riflette la fede della punitiva giustizia. È a dimandarsi cosa si intenda per delitto atroce. Nel linguaggio degli antichi giuristi si dicevano atroci tutti i delitti gravi. Sicché anche la parola atroci altro non è che un indefinito, il quale può avere un senso quando si adopera in un punto di vista comparativo, ma non può averlo giammai in un senso assoluto. In faccia al sentimento di un uomo mite e civile ogni omicidio è un delitto atroce; più atroce ancora se fu premeditato. Nessuno potrà rifiutarsi ad un sentimento di ribrezzo verso un essere tanto aberrante dalla umanità da calcolare freddamente i modi di spengere una creatura simile a lui. Ma per simile ribrezzo, per simile atrocità, per simile aberrazione della umana natura dovrà egli dirsi che tutti gli omicidii respingono ogni possibilità di attenuanza, o che la respingono almeno tutti gli omicidii commessi con fredda deliberazione? La pratica universale rinnega cotesta dottrina. La ragione invece suggerisce spontaneo il pensiero che ai delitti più gravi minacciando la legge una pena più severa, e spesso la più severa di tutte, si può appunto nei delitti più gravi correre con minore pericolo ed ammettere le attenuanze.
La ultronea dedizione in mano della giustizia, la spontanea confessione del proprio fallo, gli atti coi quali siasi dal colpevole cercato di riparare al male cagionato, la buona condotta antecedente scevra di macchia, la trascurata educazione del colpevole, che nella sua giovinezza fu lasciato miseramente privo di ogni cultura morale, sono circostanze attenuanti comuni a qualunque malefizio. Or bene: se la ragione consiglia che siffatte circostanze debbano accogliersi come attenuanti, dov’è il plausibile motivo per il quale alle medesime debba ogni riguardo negarsi in certi delitti perché esse sono più gravi? Se sono più gravi, la legge gli ha anche più gravemente puniti sicché la pena diminuita subisce sempre quel rapporto di calcolo proporzionale che la legge stabilì per la pena non diminuita. Mi limiterò ad indicare un esempio: una donna questuante vagava con due suoi figli frutto di illegittimi amori, l’uno dei quali aveva 12 anni, l’altro ne aveva 4. Il piccolo bambino piangeva per via a causa del fastidio che lo vessava. La donna irritata da quel piangere lo minacciò di piantargli un coltello nella gola se non taceva. Ma il miserello continuava nei gemiti suoi. La barbara madre giunta in vicinanza di un fosso ripieno di acqua ordinò al figlio maggiore che il fratello quadrienne togliesse seco, e lo annegasse in quel fosso. Il figlio puntualmente obbedì agli ordini della novella Medea, e ricongiunto con la madre continuarono entrambi tranquillamente il loro viaggio. Volle fortuna che gente sopravvenuta salvasse quel bambino; onde non trattossi di altra accusa che quella di tentato omicidio. I tribunali inferiori condannarono quella donna a sei anni di carcere duro. Ricorse essa alla Suprema Corte di giustizia in Vienna e questa con giudicato del 15 Aprile 1857 dichiarò che concorrevano le due circostanze attenuanti della mancata coltura, e della antecedente condotta irreprensibile, e ridusse il carcere duro a quattro anni. Poiché ognuno sente nel cuore che un delitto più atroce e barbaro di questo non può forse immaginarsi, questo giudicato valga a mostrare ciò che documentare potrei con altri innumerevoli esempi. La nuova proposizione di diritto che nei delitti atroci non siano ammissibili le circostanze attenuanti altro non è che uno sleale artifizio oratorio col quale un accusatore anelante severità cerca di illudere la inesperienza della giuria. Il conforto dell’autorità alla mia tesi, io lo trovo nello stesso Codice toscano. Il legislatore toscano aborrì il sistema delle circostanze attenuanti. Egli non ammise per nessun delitto che le considerazioni estrinseche ed i riguardi alla persona del giudicabile potessero eliminare la pena ordinaria da lui stabilita contro ciascun reato. Ad onta di tanta avversione, il legislatore toscano una sola volta, all’articolo 309 par. 2, accettò il sistema delle attenuanti e per un solo caso. E qual caso era questo? Precisamente l’omicidio premeditato. Ora si venga a spacciare ai giurati come regola di assoluta giustizia, che nei delitti atroci non sono ammissibili le attenuanti!»
FRANCESCO CARRARA
Pisa, 1868
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